GIORNALISMO
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI
PALERMO
TESI DI SPECIALIZZAZIONE DI: RELATORE:
Eleonora Costa Prof. Pasquale Barranca
ANNO ACCADEMICO 2004/2005
Capitolo I
Il significato di una tecnica
1.2. Che cos’è il montaggio……………………………………… “ 3
1.2. Montaggio e découpage……………………………………. “ 9
Capitolo II
I primi pionieri del montaggio
2.1. Nascita del montaggio…………………………………… “ 12
2.2. Il montaggio come nuovo strumento di racconto ………….. “ 26
2.3. Gli impulsi dell’Unione Sovietica………………………….. “ 35
Capitolo III
Regole e funzioni del montaggio
3.1. Grammatica del montaggio………………………………….. “ 44
3.2. Funzioni del montaggio……………………………………... “ 54
Capitolo IV
Il montaggio e le inquadrature
4.1. Il montaggio e l’importanza delle inquadrature……………. “ 67
4.3. Elementi del montaggio ……………………………………. “ 86
Capitolo V
Montaggio audio
5.1. Montaggio sonoro…………………………………………… “ 106
5.2. Il ciak………………………………………………… .… “ 114
Capitolo VI
Progressi del montaggio
6.1. Evoluzione dei dispositivi di montaggio…………………. “ 120
6.2. Montaggio analogico……………………………………… “ 122
6.3. Montaggio digitale………………………………………… “ 124
Capitolo VII
Il montaggio in televisione
7.1. Montaggio televisivo……………………………………... “ 128
7.2. Cinema e televisione……………………………………… “ 131
Le interviste……………………………………………………… “ 140
Conclusioni………………………………………………………. “ 150
Bibliogra…………………………………………………………. “ 151
La parola più consueta, messa al posto giusto,
assume un improvviso splendore.
E’ di questo splendore che devono brillare le tue immagini
Robert Bresson
Introduzione
Il montaggio audiovisivo è considerato l’arte del “taglia” e “cuci”: quella tecnica che tramite la giusta combinazione delle immagini in movimento dona senso, forma, ritmo e significato al prodotto audiovisivo. E’ il risultato di un’evoluzione dialettica basata sulla sperimentazione formale di alcuni registi e sulla lenta maturazione dello sguardo degli spettatori, perché esso si riferisce principalmente a colui che guarda. Oggi il montaggio audiovisivo è considerato non solo un elemento essenziale del “linguaggio cinematografico e televisivo” ma anche il più specifico. Tuttavia il cinema è nato senza di esso e lo ha quasi ignorato per i primi quindici anni della sua esistenza.
In questo lavoro ci siamo proposti di “cogliere” i primi segnali annunciatori di questa tecnica e seguirne lo sviluppo, nel campo dell’informazione audiovisiva sino ai giorni nostri. Abbiamo inoltre approfondito il ruolo del montaggio nei suoi diversi aspetti: funzioni, elementi, forme e supporti di montaggio in relazione a documentari, reportage e servizi giornalistici.
Da questa analisi è emersa l’importanza e la complessità del lavoro di post produzione che sta dietro di un audiovisivo. Un documentario, un servizio giornalistico o un film di finzione è dunque frutto di diverse fasi di lavorazione ed il montaggio è l’ultima fase, quella che da il tocco finale all’intero prodotto. La nostra ricerca si chiude con una sezione dedicata alle interviste fatte ad alcuni esperti del mestiere, che hanno espresso le loro considerazioni sulla tecnica del montaggio.
Capitolo I
Il termine “montaggio” esprime assai bene la sua sostanza, in esso si intende che vi sia un “ordinamento” nella “composizione” [1].
Lo scopo del montaggio è conferire alla rappresentazione audiovisiva, tramite l’unione delle immagini in movimento, significato e logica narrativa [2]. E’ la fase finale nella realizzazione di un prodotto audiovisivo, strettamente legata:
1) alla successione delle inquadrature;
2) all’idea del regista e alla sceneggiatura, nel campo cinematografico;
3) alla linea editoriale di una determinata testata, nel campo dell’informazione.
Si tratta di una minuziosa operazione che comporta al tecnico specializzato di riordinare in maniera armonica le diverse inquadrature girate. Una volta valutato il risultato in base a elementi quali: la scala, la sceneggiatura, la composizione o la carica drammatica, il montatore determina con esattezza gli istanti in cui l’inquadratura comincia e finisce, in modo che si integri adeguatamente nella scena o sequenza di cui fa parte [3].
Dopo le riprese infatti si passa alla fatidica fase del montaggio, nel corso della quale il prodotto audiovisivo assume un aspetto definitivo. Il materiale girato viene esaminato, dal montatore insieme al regista se si tratta di un film, di un documentario o di un cortometraggio, oppure insieme al giornalista se si tratta di un servizio per il notiziario televisivo. In seguito sul banco di montaggio analogico o in maniera digitale, tramite gli appositi software, vengono acquisite le immagini che si ritengono buone; si possono così effettuare delle prove sul materiale girato, permettendo di tagliare, aggiungere e inserire effetti speciali finché non si ottiene l’effetto desiderato.
In questo modo, viene effettuata una prima selezione delle riprese
realizzate di una stessa inquadratura ed alla fine viene scelta
quella che si considera più appropriata, non soltanto dal punto di vista
della qualità d’immagine, ma soprattutto in funzione del contesto in cui verrà
inserita. E’ necessario tenere conto, non solo del contenuto delle immagini che
si va ad ordinare, ma anche della loro fisionomia, della loro carica simbolica e del ruolo che esse
svolgono. Occorre che un movimento fisico proceda senza intoppi
nell’inquadratura successiva, ma è necessario che ciò avvenga anche per i moti
dell’animo: l’atmosfera di un’inquadratura deve continuare con scorrevolezza
in quella successiva.
Affinché il prodotto finito abbia senso e ritmo, il montatore deve svolgere un attento lavoro di “taglio e cucito”. Occorre dunque prendere due differenti inquadrature, decidere per ognuna di esse un inizio ed una fine e giuntarle insieme, in modo tale che possano essere viste l’una dopo l’altra in stretta successione e con uno specifico significato.
Alla visione frammentaria delle diverse riprese, il montaggio restituisce unità e continuità. Pur lavorando su del materiale già girato, si tratta comunque di una fase del lavoro creativa che non manca di autonomia e capacità espressiva. Le inversioni nella successione dei fotogrammi, la frammentazione di una ripresa in diverse inquadrature o una combinazione di tale inquadrature secondo un ordine mutato rispetto a quello iniziale, possono portare ad un significato nuovo, diverso o addirittura in contrasto con l’originale. Il montaggio può andare ben oltre la semplice elaborazione meccanica e sfociare in un processo altamente creativo, caratterizzato non solo dalla pura continuità ma anche da altri aspetti di rilievo come il ritmo, la metafora, la sovrapposizione di significato, l’alternarsi di tempi e azioni ecc [4].
Altra fase rilevante, è il montaggio della colonna sonora, della voce fuori campo delle musiche e dei rumori, che vengono sincronizzati con l’insieme delle immagini, dei titoli e delle didascalie. Conferire significato e dare un determinato taglio ad un prodotto audiovisivo, è uno dei ruoli fondamentali del montaggio, soprattutto nel campo dell’informazione dove ad ogni testata corrisponde una determinata linea editoriale[5].
Dal punto di vista pratico possiamo schematizzare così gli interventi adatti al montaggio, determinanti per la messa in scena del prodotto finale.
1. Selezionare le riprese da utilizzare.
2. Organizzare il racconto in un ordine che non è sempre quello del découpage: scena, sequenza, montaggio parallelo, montaggio alternato, flashback, flashforward.
3. Sistemare le inquadrature le une in rapporto alle altre nell’ordine più favorevole.
4. Determinare i punti dei tagli all’inizio e alla fine di ogni inquadratura in funzione dei dati drammatici, narrativi, espressivi e dei dati successivi.
5. Mettere a punto i raccordi tra le inquadrature. Nel caso di un’azione continua, si possono “suturare” le inquadrature tra loro adiacenti (ad esempio il raccordo di movimento), o praticare un’ellissi breve (economia narrativa), o ancora ricercare un raccordo deliberatamente “falso” ai fini espressivi.
6. Determinare la modalità di transizione da un’inquadratura all’altra: taglio netto, tendina, dissolvenza incrociata ecc.
7. Ricercare il ritmo all’interno di ogni scena e di ogni sequenza dell’intero prodotto audiovisivo (documentario, servizio, approfondimento).
8. Organizzare le diverse piste sonore: dialogo, audio ambiente, effetti, musiche, voce narrante.
9. Comporre le piste sonore in un’unica pista: il mixage [6].
10. Scrivere i titoli di testa e di coda e le relative didascalie. I titoli sono necessari per riferire il nome del regista, del produttore, degli attori e del cast tecnico mentre, le didascalie fanno riferimento ad una data, al nome dell’intervistato, alla location ecc.
Un’operazione complessa, che
passo, passo giunge alla meta: raccontare, trasmettere. “far brillare le
immagini”!
Una fusione abbracciata da tre momenti fondamentali che la lingua inglese, a tal proposito, distingue così:
- Cutting: l’operazione materiale “tagliare” e “incollare”;
- Editing: la disposizione degli elementi visivi e sonori, che conferisce al lungometraggio il suo aspetto definitivo;
- Montage: il rapporto tra le inquadrature in una prospettiva essenzialmente estetica e semiologica.
Spesso, il termine montaggio viene confuso con il termine découpage; nonostante siano due operazioni affini è utile fare subito una distinzione: il montaggio, operazione di raccolta e unione del filmato, viene predisposto a partire dalle immagini e dai suoni materializzati; il découpage, esercizio di analisi che precede le riprese o che le accompagna rientra nell’ambito del progetto o dell’improvvisazione.
Il découpage, chiamato anche montaggio a priori, prevede l’organizzazione formale del film, attraverso la frammentazione della sua continuità in unità cinematografiche di tempo e di spazio[8]. Questa frammentazione prepara il terreno al montaggio, tuttavia il rapporto tra découpage e montaggio non è semplicemente meccanico.
Découper nel linguaggio cinematografico, significa iniziare ad elaborare piano per piano, inquadratura per inquadratura, ciò che verrà mostrato e non verrà mostrato, sentito e non sentito. Più che prevedere il dettaglio del montaggio, il découpage cerca innanzi tutto di definire la strategia del film, immaginando quelle che saranno le inquadrature e ordinando la loro successione in modo da far proseguire fluidamente la narrazione visiva. Nella realizzazione di film di finzione, in pubblicità ma anche per alcune tipologie di documentari il découpage viene completato da sceneggiatura e story-board.
Mentre, nel campo dell’informazione audiovisiva per la realizzazione di news, reportage e inchieste è l’operatore che improvvisa alla meglio le sue riprese immagazzinando del materiale a cui il montaggio finale darà un ordine [9].
Il montaggio
è una tecnica in continua evoluzione.
Per comprenderne meglio la sua funzione
e la sua evoluzione nel campo dell’informazione e della
documentaristica, occorre analizzarne brevemente la storia e curiosare su come nacque l’idea di azzardare quel “taglia
e cuci”, che col tempo è diventato uno degli elementi cardini per la
realizzazione di un prodotto audiovisivo.
Capitolo II
Dopo una lunga corsa di invenzioni e brevetti; dai primi esperimenti di Eadweard Muybridge (1878), con le sue batterie di macchine fotografiche, predisposte per scattare fotogrammi in sequenza, al Kinetoscopio continuo [11] brevettato nel 1891 da Tomas Edison; è infine Loumière, ispiratosi ai tentativi dei suoi predecessori, che riesce a progettare un meccanismo in grado di unire sia la funzione di ripresa che quella di proiezione del film. Per la proiezione, egli sistema una potente lampada dietro la cinepresa e vi fa passare davanti la pellicola con un meccanismo a manovella.
Così Loumière organizza per primo l’ormai mitica
proiezione pubblica a Parigi il
Ciò ha determinato la nascita delle immagini in movimento ma non solo; l’invenzione del cinema ha determinato anche la nascita dei cinegiornali, breve serie di servizi di attualità filmati per la proiezione nelle sale cinematografiche [13]. Una nuova idea documentaria, non più legata solo alla scrittura o all’immagine, ma alla possibilità di sintesi di questi linguaggi. Una rivoluzione tecnologica e mediatica, che ha aperto la strada al tentativo di cogliere la vita in “flagrante” e porsi come narratori ed informatori di un mondo in movimento, attraverso il movimento della pellicola cinematografica [14] . Durante i primi anni che caratterizzarono la nascita del Cinematografo, vennero proiettate una decina di “Scene di vita”.
Tra i film entrati nella storia il noto: L’arrive d’un train en gare deLa Ciotat, che causò panico tra il pubblico, convinto di essere investito dal locomotore. A partire dal 1896, Louis Lumière si addentra maggiormente nella produzione dell’attualità ed invita i suoi operatori a servirsi della macchina da presa come uno strumento per ricostruire la vita di tutti i giorni, per ritrarre la realtà nel suo divenire senza l’ausilio di attori, in situazioni nelle quali il pubblico possa facilmente identificarsi. Egli si afferma come il primo cineasta documentarista nella storia del cinema.
Siegfrid Kracauer, autorevole storico cinematografico,
definisce Lumière rigorosamente realista, caposcuola della prassi documentaria
nel cinema in contrapposizione a Méliès, caposcuola del film di finzione. Ma la
fedeltà che Lumière ripose nella
vocazione documentaristica, per via dell’impossibilità di svoltare verso il
racconto, lo condurrà col tempo in un vicolo cieco. Numerosi critici al contrario di Krakauer contestano, che la
mancanza di una pianificazione insita nel lavoro di Lumière, non consente
ancora di fare il grande passo, il salto definitivo che separa l’uso passivo
della tecnologia, da un uso attivo[15]. Di fatto queste prime modalità di
rappresentazione della realtà, nei primordi dell’era cinematografica,
escludevano di primo acchito l’idea di montaggio. Si trattava delle seguenti tecniche di rappresentazione: la Veduta
e il Tableau.
All’inizio ci fu la
Veduta Lumière, una diapositiva fotografica in movimento che
permetteva di cogliere la vita sul fatto o di riprodurre messe in scena in un
ambiente naturale[16].
La Veduta formava un tutt’uno che non richiedeva né un prima, né un dopo, né un controcampo.
Tutto veniva rappresentato nella semplicità di un’unica ripresa, un quadro
fisso ben organizzato che lasciava
respirare gli esseri e le cose.
Il Tableau, si riferiva più direttamente al
lessico degli spettacoli di varietà, delle riviste o delle operette.
L’espressione cinematografica nascente si costituiva intorno alla scena, una ripresa senza interruzione che abbracciava
frontalmente la totalità della scenografia dipinta. La macchina da presa non
aveva nessun ruolo creativo: essa era semplicemente lo strumento di
registrazione di uno spettacolo messo in scena sul palco che le stava di fronte
[17].
Piace des Cordcliers (Lione),
scena n. 128 del catalogo Lumière (1895). La «veduta» Lumière (1895)
I cataloghi
delle prime case di produzione durante questi primi anni del cinema, da Lumiére
ed Edison, da Gaumont a Pathé, sono elenchi di qualcosa che oggi chiameremo piano
sequenza [18]: una singola inquadratura di tale lunghezza e complessità da poter
essere assimilata a una vera e propria sequenza[19].
A rompere la
modalità di questi campi fissi è stato proprio il montaggio. Anche se molti
storici, analizzando L’arrive d’un train en gare deLa Ciotat, di
Lumière, ne hanno sottolineato la presenza di un’articolazione dell’azione
nello spazio, una sorta di montaggio
interno realizzato grazie all’intelligente posizionamento della macchina da
presa: Il treno che progressivamente si avvicina sino ad invadere
l’inquadratura; l’elegante signora e la bambina con l’abito bianco che,
partendo da fuori campo, giungono fino a un piano americano il
viaggiatore che passa davanti l’obiettivo e si sposta verso il fondo, creando
una grande sensazione di movimento e profondità.
Il primo
tentativo di montaggio venne realizzato
dal regista Edwin S Porterr , nei 14 tableau dal titolo The Great Train Robbery (La grande rapina al
treno) 1903, dove
compare il piano ravvicinato del fuori legge
che punta la sua arma verso il pubblico e poi spara. Questo celeberrimo primo
piano rimasto nella storia, ha spezzato la ripetitività dei tableau,
chiudendo il film tra lo stupore del pubblico [20].
Assalto al treno (Thè Great Train
Robbery, 1903) di Edwin S. Porter. Piano ravvicinato del bandito che spara agli
spettatori, Il primo esempio di montaggio aleatorio: gli esercenti
furono incaricati di integrarla o all'inizio o alla fine del film.
Le scuole di
pensiero in merito alla nascita del montaggio sono numerose, a lungo si è
attribuito il primato alla Scuola di Brighton
o ad alcuni cineasti come William
Poul e Gorge Méliès. Méliès, promotore
del cinema di finzione, utilizzava lo strumento del montaggio per la
realizzazione dei Trucchi ovvero delle sparizioni, riconoscendo come
spesso la casualità fosse all’origine delle sue scoperte.
L’idea infatti di sfruttare i trucchi nel cinema gli venne suggerita da un incidente di lavorazione, il blocco accidentale della pellicola nell’apparecchio, mentre stava girando Place de L’Opera. In occasione della proiezione un omnibus si trasformò in un carro funebre[21]. Nel giro di pochi anni ne avrebbe tratto grandi profitti. La tecnica dei trucchi è oggi conosciuta come “montaggio nascosto”. All’epoca Méliès lavora all’aperto; stendeva un telo dipinto sul fondo nel suo giardino utilizzandolo a seconda delle varie necessità scenografiche. Sfruttò il tema delle sparizioni per molti anni, perfezionando sempre di più le sue tecniche.
Attraverso il suo lavoro, si posero le basi per l’utilizzo tecnico espressivo della macchina da presa, momento d’importanza fondamentale anche per quanto riguarda la narrazione documentaristica. Gorge Méliès, diede un forte impulso al montaggio nel campo dell’informazione, infatti nelle sue ricostruzioni pseudostoriche inseriva grazie al montaggio sia elementi di fiction che momenti rubati alla realtà quotidiana. La storia della cinematografia, dopo il suo passaggio è cambiata, nonostante il suo lavoro avesse poco di documentaristico, egli ha di fatto aperto la strada a nuove formulazioni per il documentario moderno. Inserire la fiction all’interno di un documentario è stata una grande novità, attualmente utilizzata nelle ricostruzioni documentaristiche. Pensiamo, ad esempio, al documentario: La vecchia dell’aceto[22] del febbraio 2004, che ripercorre gli anni e i luoghi dell’inquisizione, nella città di Palermo.
Durante il montaggio sono state inserite delle scene di fiction come la strega ripresa in campo lungo, che scende le scale col suo mantello nero e la sua lanterna o il dettaglio delle mani mentre viene preparata la mistura velenosa.
Scene ovviamente rappresentate e realizzate grazie all’ausilio di attori ma finalizzate ad evocare determinati eventi storici, rendendo allo stesso tempo completa la ricostruzione documentaristica.
L’invenzione del montaggio è stata inoltre attribuita ai tecnici dei laboratori cinematografici, che per scherzo hanno provato ad unire insieme gli scarti della lavorazione.
E’ anche la pista della casualità che viene seguita da alcuni storici cinematografici. Si considera infatti che siano stati proprio gli operatori Lumière, impegnati a fondo nei grandi reportage internazionali, a introdurre in modo rudimentale ed inconsapevole il montaggio; sempre in modo empirico gli operatori Lumière inventarono la carrellata, così come impararono a riprendere al contrario [23]. Un’invenzione casuale, dunque, nata presumibilmente da un inceppamento della pellicola, così l’operatore del cinegiornale dopo aver riparato il guasto è stato costretto a spostarsi dal primitivo angolo di ripresa.
“Sono sempre gli operatori” - secondo il critico G. Brunetta - “che scoprono, ancora nell’ottocento, le possibilità di articolare l’azione lungo uno sviluppo temporale e logico che coordini fatti diversi[24]”. Eppure, come capita spesso nella ricerca delle prime origini di un’idea o di un’invenzione, si ha la sensazione che l’indagine non possa finire mai. Comunque siano andate le cose , quel gesto casuale o mediato che fosse ha fatto vedere il cinema con occhi diversi e più maturi, ha aperto alle immagini in movimento una nuova frontiera, creando un modo inevitabile per ridurre la durata dei filmati senza tradire il valore di rappresentatività del reale delle immagini riprese.
I primi esperimenti di montaggio si limitavano a creare una serie di “quadri”, spesso introdotti da didascalie esplicative, in un’identificazione completa tra scena e inquadratura [25]; ma non solo, spesso si assisteva ad una vera e propria articolazione di piani differenziati all’interno della medesima scena; fosse anche solo un avvicinamento sull’asse, oppure l’introduzione del dettaglio di un oggetto.
In questi antichi filmati si notano le difficoltà tecniche: primi piani sfuocati ai bordi, dettagli evidenziati da una tendina circolare. Difficoltà dovute in larga misura ai limiti degli obiettivi, delle pellicole e delle tecniche di illuminazione allora a disposizione. Si tratta di una ulteriore conferma della precisa volontà, da parte dei pionieri del montaggio di giungere ad articolare nel modo più complesso il linguaggio delle immagini in movimento, nonostante il mezzo tecnico fosse ancora inferiore alle esigenze espressive e comunicative.
Solo agli inizi del 900, compare un abbozzo di montaggio parallelo, con l’introduzione qualche anno dopo di panoramiche, carrelli, contro-campi. E’ evidente come sia stato il montaggio, ad aprire la strada agli audiovisivi come li conosciamo oggi: una successione di blocchi d’immagini in movimento (le inquadrature) la cui concatenazione (la sequenza) sviluppa un senso. Ma durante questi anni il montaggio, veniva effettuato nelle condizioni più difficili con i seguenti strumenti:
- un tavolo luminoso con un vetro opaco illuminato in trasparenza;
- un contafili, un riavvolgitore e un raccogli-pellicola .
Il responsabile del montaggio agiva su due fronti:
- redigeva il testo degli interi titoli, che venivano stampati tipograficamente o disegnati e poi ripresi in Truka.
- Tagliava con un paio di forbici la pellicola di prima stampa, un po’ più in qua del taglio d’inizio desiderato e po’ più in là del taglio finale, successivamente con l’aiuto di speciali spilli, incollava nel giusto ordine le inquadrature successive.
Un’operaia sostituiva poi gli spilli con delle giunte e successivamente veniva proiettato il film. Dopo una serie di proiezioni e correzioni si raggiungeva un risultato accettabile. Il negativo veniva in seguito conformato alla copia di lavoro e stampato in piccoli frammenti di 60 metri l’uno. Una volta avvenuta la stampa del film, sotto forma di bobine positive e il loro eventuale viraggio, si montavano le copie di serie incollandole una dopo l’altra, nell’ordine della edit-list, con gli elementi d’immagine per inserire gli interi titoli nella lingua desiderata.
Questa complicata pratica era giustificata dalle
condizioni dell’epoca: lo “sviluppo al quadro”, in cui la pellicola veniva
arrotolata intorno ad una semplice cornice di legno e immersa nelle singole
bacinelle che contenevano tutti i singoli bagni, permetteva di lavorare su
pellicole lunghe al massimo 60 metri; così l’edizione in lingue diverse
risultava agevole, la colorazione e il taglio facilitati. Nella seconda metà
del decennio, l’uso della macchina per lo sviluppo continuo, dove il film
esposto entrava da un lato della macchina e usciva, sviluppato dall’altro,
senza limiti di metraggio, rimise in discussione questo metodo artigianale;
l’avvento del sonoro vi pose definitivamente fine[26]. Successivamente grazie alla modernizzazione
delle centraline di montaggio il lavoro
è stato reso più semplice. Attualmente i dispositivi che consentono di
effettuare questa operazione si dividono in analogici e digitali. Il montaggio
digitale è ormai alla portata di tutti, infatti tramite il computer e gli
appositi software, è possibile acquisire immagini, montarle e
realizzare video multimediali.
2.2.
Il montaggio come nuovo strumento di
racconto
Durante il primo ventennio che ha caratterizzato la nascita del cinema, alcuni generi come il documentario o il cinegiornale devono ancora cominciare a parlare un linguaggio originale e ben codificato, sia da un punto di vista tecnico che teorico.
Nel 1922 grazie a Robert J. Flaherty, si può parlare per la prima volta in senso compiuto di cinema documentario. Robert J. Flaherty (1889-1951) cineasta di origini irlandesi, nato nel Michigan, ha contribuito con la sua tecnica di montaggio a nuovi input per articolare diversamente la narrazione[27]. Egli inseriva nei suoi filmati una o più inquadrature, chiave, che venivano riproposte più volte e da diverse angolazioni per accentuarne la carica emotiva. Ritorni finalizzati a dare ritmo, evocare ed accentuare particolari momenti.
Flaherty inizia la sua carriera con un colpo magistrale: Nanook l’eschimese (Nanook of the north, 1920-22), lungometraggio di 60 minuti che descrive nei dettagli la vita quotidiana di Nanook, non un attore professionista ma un vero e proprio eschimese, con il gruppo del quale, Flaherty divise per due anni le difficoltà della vita selvaggia nelle bianche distese artiche. Una comunità eschimese, dedita per lo più alla pesca, che lotta quotidianamente per il sostentamento. La documentazione è avvincente, curiosa, trapela l’uomo al suo stato di natura che non si lascia mai prendere la mano da facili drammatizzazioni. Si tratta di un cinema diverso, rispettoso dei tempi, della vita e della fatica fisica dell’esistenza quotidiana, da cui emerge, un’ammirazione nostalgica per lo stato di natura.
Flaherty stesso affermò: “Io volevo mostrare gli eschimesi e li volevo far vedere non dal punto di vista degli uomini civili, ma così come loro stessi si vedevano. Mi resi conto che per ottenere questo risultato, dovevo lavorare le immagini in una maniera diversa, riproporle più volte per sottolinearne il peso e la carica simbolica [28]”.
Nanook
riscosse successo sia negli Stati Uniti che in Europa, luogo in cui il
cineasta venne considerato il genio della macchina da presa[29].
Robert Flaherty, Nanuk l’esquimese (1922)
Fondamentale, per l’evoluzione della tecnica del montaggio anche l’esperienza di John Grierson (1898-1982), indiscusso fondatore del documentarismo britannico degli anni trenta e anche coniatore del termine documentario[30]. La sua abilità gli permise di organizzare il più agguerrito movimento documentaristico della storia del cinema, fucina di memorabili sperimentazioni. Il cineasta inglese giunse così a formulare, nel 1932, un manifesto nel quale si proclamava la necessità di una elaborazione e trasfigurazione creativa della realtà. Egli puntò a fornire una struttura più definita ai propri documentari, articolandoli attraverso un accorto impiego delle possibilità offerte dal montaggio secondo un principio di scansione narrativa [31].
Grierson vedeva nella documentaristica e nella tecnica cinematografica la pietra filosofare in grado di dare una nuova educazione al cittadino della società democratica e liberale. L’ispirazione propagandistica di Grierson, non dissimilmente da quella dei suoi colleghi documentaristi di altra estrazione ideologica, sottolineava un’educazione del cittadino fatta anche attraverso processi inconsci. Secondo il cineasta britannico, non era solo il contenuto del girato ad essere educativo in senso stretto, in maniera didascalica e didattica, ma anche il montaggio video e sonoro rappresentavano una risorsa per codificare un linguaggio nuovo, capace di parlare ai sensi e non solo all’intelletto, un linguaggio attraverso cui coinvolgere l’uditorio in un’operazione metalinguistica, fatta di sensazioni ed emozioni profonde e non solo di contenuti espliciti.
Grierson, era profondamente convinto che la manipolazione dell’immagine, relativamente alle fasi di montaggio e post-produzione era assolutamente lecita ed in parte auspicabile. Sosteneva, che il girato colto nella sua freddezza letterale, non era assolutamente in grado di rendere conto della realtà; al contrario essendo la lettura cinematografica della realtà una forma di mediazione, era necessario affiancare a questa, la possibilità di rendere attraverso l’artificio del montaggio e del suo ritmo, il senso del vero attraverso l’artificioso[32].
Grierson dimostra per la prima volta, nella storia del documentarismo, di non aver paura delle possibilità espressive offerte dal mezzo cinematografico. La parabola di Grierson, resta comunque esemplare di un modo d’intendere il documentario come momento educativo delle masse; le sue teorizzazioni circa l’uso del montaggio video e sonoro sono stati dei passaggi, che hanno animato il dibattito internazionale sulla forma documentaristica sino ai giorni nostri.
Da sottolineare, come Grierson riuscì a circondarsi di collaboratori eterogenei che portarono il cinema documentario inglese ai vertici della produzione mondiale. Tra questi il brasiliano Alberto de Almeida Cavalcanti (1897-1982), regista competente ed esperto scenografo, tra le sue opere più note, Coral Face, del 1936 , documentario di dodici minuti girato come denuncia sulle condizioni di vita dei minatori inglesi[33].
Cavalcanti segue con occhio esperto sia le soluzioni registiche che quelle legate al montaggio; in merito, crea un vero e proprio decalogo operativo composto dai seguenti punti[34]:
a) Non trattare temi generali in modo generale. Si può scrivere un articolo sul servizio postale, ma un film sarà migliore se tratterà il destino di una singola lettera.
b) Non dimenticare che il documentario si basa su tre pilastri: quello sociale, quello poetico e quello tecnico.
c) Non prendere sottogamba il soggetto scritto e non far conto sulla fortuna, quando giri. Una volta messo a punto il trattamento, il film in pratica è già fatto. Però al momento delle riprese sii pronto a rifarlo da capo.
d) Non affidarti al commento parlato per dare un senso alla tua storia. Le immagini e la colonna sonora debbono farlo. Un commento sovrabbondante e gratuito riesce solo ad irritare lo spettatore.
e) Quando giri non dimenticare, che ogni scena fa parte di una sequenza e che ogni sequenza fa parte di un arco narrativo generale. Una bellissima inquadratura, scollegata dal resto, spesso risulta più dannosa che utile.
f) Non eccedere nella ricerca di inquadrature originali a tutti i costi. Angolazioni elaborate possono raffreddare l’emozione.
g) Non abusare della rapidità del montaggio fine a se stessa. Un ritmo accelerato può risultare altrettanto manierato di un montaggio disteso.
h) Non esagerare con le coperture musicali. Se lo farai lo spettatore finirà con il non ascoltare.
i) Non sovraccaricare il film con gli effetti in sincrono. Suoni e rumori risultano efficaci quando sono impiegati in modo suggestivo e complementare.
l) Non affidarti ciecamente agli effetti ottici e non renderli troppo complicati. Dissolvenze e fondu equivalgono ad una punteggiatura, sono le tue virgole e i tuoi punti.
m) Non girare troppi dettagli. Conservali per i momenti cruciali. In un film equilibrato essi verranno fuori naturalmente per interna necessità espressiva.
n) Non esitare ad entrare nella psicologia dei personaggi e nelle loro reciproche relazioni: gli esseri umani possono essere belli come i più affascinanti animali o come le più intriganti macchine tecnologiche.
o) Non devi essere vago quando racconti una storia: il vero tema deve essere espresso chiaramente e con semplicità. Ciò non esclude però un certo livello di drammatizzazione e ricreazione.
p) Non perdere l’opportunità di sperimentare. L’attuale prestigio della documentazione visiva deriva dal coraggio delle sue sperimentazioni. Senza sperimentazione il documentario perde ogni valore e cessa di esistere.
Un decalogo, considerato ancora attuale. E’ interessante, la modernità di alcune affermazioni, relativamente a quanto “asciutta” dovesse essere la resa estetica finale. Pensare agli “stacchi” e agli elementi del montaggio come alla punteggiatura del discorso cinematografico, significa insistere su un’idea di cinema essenziale e consapevole del proprio ruolo. Ma significa anche avere perfettamente inteso che il media cinematografico, per poter essere considerato un veicolo credibile di realtà documentaria, non deve indulgere troppo in atteggiamenti stilistici leziosi.
Cavalcanti conosceva bene i mezzi di comunicazione di massa, e aveva anche compreso come il sonoro potesse risultare un’arma decisiva per entrare nella sfera emotiva delle persone parlando all’inconscio[35]. In un prodotto audiovisivo, il ruolo del sonoro è quello di creare atmosfere, suggestioni ed emozioni. Le stesse emozioni che solo il girato, non è capace di rendere, se lasciato a sé stesso, senza montaggio e senza aiuti di altro genere
2.3.Gli impulsi dall’Unione Sovietica
L’Unione Sovietica ha avuto una rilevanza
fondamentale, sia per quanto riguarda la tecnica cinematografica che l’arte del
montaggio, fu infatti terreno fertile per la sperimentazione di tecniche
innovative. Già nel 1918 a pochi mesi dalla rivoluzione, Lenin in persona
ordinò la creazione, a Mosca, della
prima scuola di cinematografia al mondo, con la finalità esplicita di fornire
alla rivoluzione un mezzo di propaganda ed informazione, per istruire e
documentare; contemporaneamente venne istituito anche il comitato del cinema.
In questo contesto s’inseriscono Dziga Vertov e Edouard Tissé, che il
Un treno del tutto particolare, partì quel giorno
dalla stazione di Mosca per dirigersi verso i territori del Kazan, che stavano
per essere occupati dalle forze controrivoluzionarie. I vagoni di questo treno
trasportavano una tipografia, una scuola per l’alfabetizzazione, una biblioteca
con 7000 volumi, la redazione di un quotidiano ed una strumentazione
cinematografica completa: proiettori, laboratori di sviluppo e di stampa, sale
di montaggio. Questo convoglio simbolizzava concretamente il concetto di
rivoluzione culturale, e Lenin gli riconosceva più importanza di un treno
blindato. Il cinema intervenne dunque
direttamente, come un’arma tra le mani della rivoluzione, nella lunga
battaglia per il trionfo di quest’ultima [37]. Tra il
Dizga Vertov ( Denis Kaufman
Vertov, respinse e svilì il cinema d’arte contrapponendo la cronaca filmata: il cinema arte della vita[39], egli era animato dalla convinzione che il cinema possedesse delle enormi potenzialità rivoluzionarie. Credeva fermamente nel fatto che la portata rivoluzionaria del mezzo dovesse andare oltre al semplice piegarsi alla propaganda. Una realtà rivoluzionaria, che aveva di conseguenza l’esigenza naturale di trovare un mezzo rivoluzionario capace di rappresentarla attraverso un linguaggio e una tecnica altrettanto rivoluzionari. Dziga Vertov fu un montatore geniale e un vero sperimentatore di linguaggi, tuttavia fu vittima della normalizzazione staliniana e perseguitato nella sua creatività da una burocrazia, che divenne nel tempo sempre meno tollerante di fronte agli arditi sperimentalismi dei pionieri della cinematografia sovietica.
La conseguenza fu per il cineasta, un’esistenza cinematografica travagliata sempre sul ciglio del dibattito e della polemica. Nel 1922 Vertov fonda il movimento battezzato “Kinoki” (cine- occhio).
“Io sono l’occhio” - affermava Vertov a proposito della sua filosofia del cinema - “ l’occhio meccanico. Io, una macchina, posso mostrarvi il mondo in un modo di cui soltanto io sono capace. Io mi libero oggi e per sempre, dall’immobilità; io sono il dispositivo che si muove nel caos del movimento; la mia strada e quella che porta alla creazione di un modo nuovo di percepire il mondo. Perciò sono in grado di vedere il mondo in una maniera a voi sconosciuta [40]”.
Cineocchio [Kinoglaz, 1924]
di DzigaVertov
L’“occhio meccanico” è il fulcro della cinematografia vertoviana. Il motto dei kinoki era quello di “cogliere la vita in flagrante”, tramite “l’occhio meccanico” (la macchina da presa), e organizzarne il racconto tramite il montaggio delle riprese effettuate.
Vertov era convinto della necessità di elaborare l’immagine per piegarla alle sue esigenze di comunicazione. Il montaggio insomma era il momento culminante del lavoro cinematografico vertoviano: un’operazione metalinguistica capace di dare non solo senso e vita alle immagini ma anche il senso del lavoro completo. Vertov era un esperto del “taglia e cuci”, capace di assemblare il materiale più diverso, compreso quello di archivio o di bassa qualità formale per piegarlo alle sue esigenze etiche ed estetiche[41].
Il materiale di repertorio rappresentava per Vertov una sorgente di inestimabile valore filmico. Facendo una digressione ad oggi, in merito all’utilizzo del materiale grezzo e di repertorio, ci accorgiamo quanto esso sia largamente utilizzato nei telegiornali, negli approfondimenti e nei documentari. Questi preziosi girati, raccolti lungo il corso degli anni sono appuratamene custoditi presso le cineteche elettroniche e gli archivi pubblici o privati dei diversi stati. In Italia “L’Istituto Luce”, costituito a Roma (1924) ne è un esempio. I suoi archivi divisi in più sezioni conservano migliaia di testimonianze: dalle prime proiezioni cinematografiche d’attualità sino ai giorni nostri (Giornale Luce, Settimana Incom, Combat Film e così via).
A tal proposito ritengo utile riferire una mia esperienza : circa un anno or sono ho collaborato alla realizzazione di un documentario, sulla seconda Guerra Mondiale in Sicilia [42], durante questa esperienza ho avuto l’occasione di fare una full - immersion tra gli archivi del Luce. Dovevo cercare di reperire, dai diversi cinegiornali, più girato possibile per il nostro documentario. Con stupore ho potuto constatare come, in quegli archivi sia racchiusa una parte della storia che, può rivive ammaccando PLAY sul lettore e successivamente prendere forma e carica simbolica, in un determinato contesto, grazie al montaggio. Questa preziosa esperienza mi ha fatto maggiormente apprezzare e comprendere quanto sia importante, a prescindere dalla qualità, il materiale grezzo e di repertorio: fondamentale per ricostruire la storia e raccontare il passato.
Dziga Vertov , in merito al materiale grezzo aveva una sua precisa teoria: egli non credeva nel bello cinematografico come valore assoluto, al contrario era convinto che il cinema dovesse trasudare verità e non bellezza. Servirsi di materiale grezzo, di scarto o girato male non era considerato disdicevole. Anzi, rappresentava uno sforzo filologico che aveva un duplice valore: documentario di per sé stesso ed etico, se inserito all’interno del contesto documentaristico vertoviano[43].
Tra i lavori dell’artista polacco ricordiamo : Il primo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, 1918, un assemblaggio di materiale girato durante la rivoluzione, che egli stesso considerava potente, forte della sua genuinità e del suo vissuto; La vita colta in flagrante nel 1924; L’uomo con la macchina da presa, 1929, opera che riassume tutte le sperimentazioni della cinematografia vertoviana, offrendo un’attenta analisi su un cinema che cerca di comprendere, quali sono i sui stessi limiti e il suo campo di azione.
L’uomo con la macchina da presa, è stato realizzato con un montaggio di archivio, estremamente complesso, che ha tentato di ordinare a posteriori il materiale girato per le strade, senza alcuna intenzionalità artistica.
In questo caso è stato il montaggio a restituire unità all’opera definendo, attraverso un sottile gioco di rimandi formali, di articolazioni metaforiche, di allusività compositive, quale sia il potere straordinario, non tanto dell’ uomo con la macchina da presa, ma dell’ uomo con le “forbici” in mano: il montatore-autore, l’unico artista che può donare significato alla materia informe della vita quotidiana [44] .
Dziga Vertov, morì nel 1954, dopo aver realizzato nell’ultima fase della sua carriera, molti numeri di cinegiornale. Oltre a Vertov e ai personaggi su citati, sono numerosi i cineasti che, lungo gli anni hanno dato forti input al montaggio, sino a farlo divenire un importante strumento narrativo, una sorta di linguaggio artificiale, fondamentale per l’articolazione di un racconto; e come ogni linguaggio, affinché ci si possa capire e “la Parola possa brillare”, occorre rispettarne la sintassi.
Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa (1929)
Capitolo III
Come per il linguaggio verbale, anche per quello audiovisivo, esiste una sintassi, ovvero un’insieme di regole, grazie alle quali si costruiscono frasi e periodi. Cinema e televisione, creano le loro storie secondo procedimenti paragonabili a quelli dei racconti e dei romanzi, seguendo una precisa grammatica.
Il montaggio crea le strutture sintattiche e le forme narrative del racconto audiovisivo giustapponendo scene, sequenze e parti che sviluppano il senso del prodotto finale[45].
- La scena: è paragonabile ad una frase o ad un periodo, risulta dall’unione di più inquadrature (quasi parole); questa riesce a trasmettere un senso compiuto, sebbene non concluso.
- La sequenza: è un insieme di scene che vengono a formare quasi un capitolo narrativo.
- La parte: è un grande arco filmico costituito da un insieme di sequenze.
E’ essenziale distinguere una “macrostruttura” e una “microstruttura”: il montaggio come stacco tra una sequenza e la successiva (macrostruttura) e il montaggio come creazione di una sequenza, tramite i cosiddetti raccordi o stacchi (microstruttura)[46].
Il primo tipo di montaggio, interviene sulla macro struttura; ha una funzione essenzialmente “narrativa” ed è determinato già in fase di sceneggiatura. Mentre il secondo tipo di montaggio, interviene nella costruzione “fisica” della singola scena, può essere considerato come il montaggio vero e proprio, quello che si realizza in moviola o sul computer di edizione [47].
Nella maggior parte dei film di finzione, il montaggio delle singole sequenze è meticolosamente deciso, in fase di pre-produzione, grazie a sceneggiatura e story board. Mentre per quanto riguarda news, documentari e reportage il lavoro di montaggio agisce spesso su tracce di sceneggiatura piuttosto labili, finendo col determinare sia la macrostruttura che la microstruttura. E’ chiaro come l’unità stilistica di qualsiasi produzione audiovisiva esiga che micro e macrostruttura “si tengano ”, si costruiscano insieme in un continuo gioco di rimandi e implicazioni reciproche. Questo connubio, in continua evoluzione, ha soddisfatto sempre più diverse esigenze: quella di “vederci meglio” dello spettatore, quella di “mostrare meglio” e con più intensità dell’autore e infine quella di “spendere meno” del produttore.
Si sono così sviluppate una serie di regole non scritte, che anno dopo anno si raffinano in quel particolare “laboratorio linguistico”: le sale di montaggio [48]. La vecchia arte del “taglia e cuci”, oggi non è più un caso o un’utile soluzione economica di problematiche produttive ma una straordinaria opportunità di articolare il racconto cinematografico, dandogli spessore e tensione, creando pieni e vuoti che modulano la risposta emozionale dello spettatore.
A questo punto sorge spontaneo interrogarsi in merito a quali siano le condizioni per tagliare e giuntare correttamente; queste sono moltissime, ma una è stata considerata alla base di tutte: le inquadrature che si giuntano devono essere campi e piani relativamente differenti[49]. Mostrare ad esempio, il primo piano di una persona seguito da un altro primo piano della stessa, ripreso da un punto macchina vicino al precedente, disorienterebbe lo spettatore; il quale, non penserebbe ad un attacco di montaggio ma ad un errore, che il suo occhio ha percepito come disturbo nella fluidità del racconto.
Per questo motivo, quando si monta un’intervista per un documentario convenzionale o per un contenitore d’informazione, si è sempre preoccupati di coprire i tagli con i così detti insert che comprendono una o più inquadrature: un dettaglio, un piano d’ascolto, un’inquadratura differente che illustra l’argomento affrontato dall’intervista e così via. Questa regola fa emergere l’estrema importanza del piano definito. Per piano s’intende :
“Sinonimo parziale e generale del termine inquadratura […]. Nell’uso italiano il termine piano va accostato al concetto di campo. Mentre piano riguarda inquadrature che hanno per riferimento diretto la figura umana, campo indica spazi più grandi di quelli per i quali il termine di confronto è l’uomo [50]”.
Il fruitore si aspetta che un taglio di montaggio lo porti ad un piano significativamente differente dal precedente. Pensiamo, ad esempio, ad un servizio televisivo in merito all’inaugurazione di una mostra di pittura, di un determinato artista. Il fruitore in questo caso, oltre ai quadri del pittore in questione, si aspetta di vedere: un totale della sala dove si svolge l’inaugurazione, la presentazione dell’evento, i diversi relatori, l’artista stesso magari mentre parla con gli ospiti o fa le foto per la stampa, il pubblico intervenuto in sala ecc.
L’unione delle immagini per raccontare questa news prevede indubbiamente un cambio di piani di ripresa: dal totale della sala, alla mezza figura del relatore, sino al primo piano e ancora, dettagli, e dislocazione del punto macchina. Ma affinché la narrazione sia fluida, il montatore deve tener ben presente di non esagerare nell’unire di seguito, troppi movimenti di macchina. Immaginiamo un’ipotetica scena, le cui inquadrature sono disposte nel seguente modo: zoomate a stringere, zumate ad allargare, panoramiche da destra a sinistra e viceversa e, ancora panoramiche dall’alto e dal basso che si susseguono senza sosta; sicuramente allo spettatore verrebbe il mal di mare!
Non bisogna esagerare con le panoramiche, perché non sono molto naturali per l’occhio umano: nessuno guarda un paesaggio girando la testa lentamente da destra a sinistra o viceversa. L’occhio ha un angolo di campo, o meglio, una visuale molto ampia di circa 220 gradi, differente da qualsiasi ottica grandangolare[51].
L’occhio umano ha un’ampia visione frontale e persino una laterale, sia pure non troppo definita, quando esplora un paesaggio lo fa a scatti, soffermandosi di volta in volta su dei particolari[52]. L’insistere troppo con lunghe panoramiche risulterebbe fastidioso, meglio staccare e alternare con dei campi più ravvicinati.
Da evitare inoltre l’unione di due panoramiche o due zoomate con movimento contrapposto, tuttavia le panoramiche si possono combinare con le zoomate ma, di solito, è preferibile inserire almeno un’inquadratura fissa tra due movimenti di macchina. Definire il montaggio come cambiamento di piani porta a pensare come qualcosa di inerente non solo al “taglio e cucito”, in senso stretto, ma all’intera realizzazione dell’audiovisivo. Quando si monta non occorre mai dimenticare che le inquadrature sono unità complesse ricche e dinamiche, non vanno trattate come se fossero dei tasselli uguali di un puzzle o come elementi inerti e omogenei.
Ogni inquadratura ha il suo “contenuto”, il suo “ritmo interno”, la sua “storia”, la sua “velocità”, la sua “vita”; tutto questo deve essere sentito come determinante, per decidere come collocare l’inquadratura nel montaggio e come accoppiarla con l’inquadratura precedente e con quella successiva. Non si tratta di una semplice sommatoria ma, di un’aggiunta che fa procedere la narrazione, fornendola di nuove informazioni, di nuovi oggetti, di nuovi spazi, di nuovi personaggi. Un’inquadratura che si lega alle precedenti, non si limita a seguirle ma le completa arricchendole di nuovi significati.
Il “taglio e cucito” operato in fase di montaggio crea un flusso significativo che procede anche a ritroso nel tempo. Nel montaggio non esiste solo un andamento lineare, sequenziale: il montatore può e deve far rivivere la relazione tra le due inquadrature in modo biunivoco, stimolando l’intuizione e la capacità dello spettatore di creare connessioni. In tal modo, il montaggio apre continuamente nuove porte, che non solo ci fanno entrare in una nuova stanza, ma illuminano anche con una nuova luce la stanza da cui siamo appena usciti.
Chi esegue il montaggio dispone di varie possibilità di scelta per passare da un’ inquadratura all’altra o per chiudere una sequenza; ogni diverso tipo di collegamento, trasmette allo spettatore un diverso significato. In un certo senso, i vari collegamenti equivalgono ai segni di punteggiatura nella scrittura. Vediamo quali sono i più usati:
Lo stacco (jump cut)
Lo stacco permette al montatore di fare il cosiddetto taglio per passare da un’inquadratura o per chiudere una sequenza. Ad ogni diverso tipo di stacco corrisponde un differente significato. A seconda dell’effetto espressivo che si vuole raggiungere lo stacco può essere mascherato, tanto da renderlo quasi invisibile allo spettatore o può essere realizzato in modo da risultare molto evidente. Nel primo caso (montaggio invisibile) si cerca di creare dei raccordi tra le inquadrature, in modo che lo spettatore non percepisca l’interruzione; è importante che tra le due inquadrature non cambi, la direzione del movimento degli attori o del loro sguardo. Deve esserci una continuità del suono, non deve mutare il tipo di illuminazione e via dicendo.
Il montaggio invisibile, è stato codificato ed imitato dal cinema americano classico degli anni ’30 e ’40 e dagli attuali generi cinematografici e televisivi che ad esso s’ispirano[53]. Mentre esistono altre tipologie di montaggio non convenzionali, dove regista e montatore scelgono di sottolineare gli stacchi, facendone largo uso e rendendoli evidenti attraverso dei raccordi “scorretti” e disarmonici costruiti in modo da violare palesemente le regole cui si accennava prima. Questa scelta, che spesso disorienta lo spettatore, è generalmente collegata alla volontà di svelare che il documentario o l’audiovisivo in questione, è sempre frutto di una elaborazione. Spesso degli attacchi “scorretti” svolgano funzioni evocative o metaforiche.
Dissolvenza
E’ un passaggio lento da un’inquadratura ad un’altra. Esistono diversi tipi di dissolvenza:
- dissolvenza in apertura: consiste nel graduale apparire dell’immagine dal campo nero (o bianco);
- dissolvenza in chiusura o fondù: sparizione graduale dell’inquadratura fino a che lo schermo diviene totalmente nero (o bianco);
- dissolvenza incrociata: consiste nel progressivo svanire dell’ultima inquadratura della scena A, a cui si sovrappone il progressivo emergere della prima inquadratura della scena B, in modo da far sembrare che una scena si trasformi in un’altra.
Tendina
E’ un artificio ottico grazie al quale un’inquadratura viene spinta via da quella che prenderà il suo posto, creando così dei buoni raccordi narrativi. Tendine e stacchi formano la base delle riprese televisive. Si hanno tendine lineari, circolari, a pagina, a orologio, e via discorrendo. Dissolvenze e tendine servono per indicare in vario modo un passaggio di tempo o di spazio.
Mascherino
E’ una sagoma di varia forma ritagliata da una lastra nera e posta in modo da coprire quella parte del campo che non si vuole riprendere. Spesso questo artificio ha lo scopo di imitare la visuale che si avrebbe in condizioni particolari, ad esempio spiando dal buco della serratura, o guardando attraverso un cannocchiale. Il suo uso, serve spesso a segnalare il passaggio da una visione oggettiva ad una visione soggettiva.
3.2. Funzioni del montaggio
E’ evidente che i vari stacchi e accordi, eseguiti rispettando la giusta “punteggiatura”, danno alla comunicazione audiovisiva la capacità di essere, appunto, comunicazione: carica di senso, con una forma specifica e un suo ritmo; con la capacità di creare un proprio tempo e un proprio spazio.
Il montaggio è senso
Il montaggio crea senso inteso come direzione, come percorso, come sviluppo di un racconto, come descrizione di un’azione e del suo progredire; ma anche senso inteso come significato e concetto. Il montaggio ha un ruolo complesso, che lo scrittore italo- americano D. De Lillo ha sintetizzato con queste parole: “E continui a guardare. Guardi perché questa è la natura del filmato, creare un percorso obbligato nel tempo, dare la forma e un destino alle cose .[54]”
Con questa definizione, lo scrittore ha evidenziato il senso ultimo e fondamentale della comunicazione audiovisiva e del montaggio, entrambi legati alla comprensione del contenuto. Il contenuto di una comunicazione audiovisiva, come in tutte le altre modalità di comunicazione estetica, non può che prendere vita assieme alla sua forma. Nel momento in cui il montaggio crea un senso, lo fa proprio in quanto è capace di dare forma; forma tipicamente cinematografica e audiovisiva agli elementi costituitivi della comunicazione stessa quali: immagini, suoni, gesti, parole, durata, movimenti, effetti, composizione e impaginazione delle inquadrature, luci e ombre.
Senso come narrazione
La scoperta della capacità narrativa delle immagini in movimento, cambia completamente il destino del cinema trasformandolo da quell’effimero fenomeno da baraccone , che suscitava stupore quasi più per l’invenzione tecnologica che per il contenuto delle immagini stesse, al grande cinema che si impone tra gli anni dieci e venti, proiettato in sale sempre più imponenti, succedaneo dello spettacolo popolare e dell’opera lirica. Uno spettacolo di nuovo tipo che via, via ha conquistato sempre più consenso anche nelle classi superiori e nel mondo intellettuale. Da quel momento, la vocazione narrativa ma anche pedagogica e propagandistica delle immagini in movimento non è stata più tradita, e ha trovato applicazione nelle più svariate tipologie produttive. Ne è un esempio il Vajont[55], recitato da Marco Paolini su un palco all’aperto di fronte alla diga maledetta, mentre la regia intercala al suo racconto immagini e foto di repertorio, con un montaggio serrato che mantiene viva l’attenzione dei fruitori.
Lo spettacolo, viene trasmesso in diretta dai canali RAI in un format nuovo: una commistione armonica di spettacolo televisivo, teatro e approfondimento giornalistico, che si esplica in un’attenta e minuziosa ricostruzione dell’evento. Dalla presentazione del progetto “Grande Vajont”, nel 1940, allo straripamento della diga che ha spazzato via Longarone e cinque paesi circostanti; nel 1963. Il montaggio costruisce il senso della comunicazione a partire dai materiali, audiovisivi più eterogenei per contenuto e provenienza.
“Cucire” un’inquadratura dopo l’altra, significa non solo creare la sensazione di uno spazio e di un tempo, ma soprattutto costruire un percorso, una narrazione, un significato.
Senso come descrizione
Descrivere un’azione con le immagini è il compito principale della comunicazione audiovisiva. Riprendere e ricostruire lo svolgimento di un’azione è la principale vocazione delle immagini in movimento, sin dall’epoca delle sperimentazioni di Muybridge [56]. L’analisi del movimento e dell’azione, fa parte della natura stessa del cinema e del suo essere fisicamente, nulla di più che la successione di 24 ( 25, 30 nel caso della ripresa televisiva) fotografie al secondo. In aggiunta a questo il montaggio offre un’ulteriore e fondamentale opportunità: portare istantaneamente il punto di vista dell’osservatore nel luogo, di volta in volta, più favorevole per esplorare l’azione nel suo svolgimento.
Senso come concetto
La capacità del montaggio di suggerire un concetto, comprende tutte quelle operazioni di post produzione cinematografica ed elettronica, volte ad ottenere un prodotto dalla perfetta uniformità: fotografica, coloristica e stilistica. Si tratta dell’aspetto, più propriamente tecnico, che dà all’audiovisivo continuità.
Forma
La forma per esistere ha bisogno di essere riconoscibile, associabile all’infinita moltitudine di immagini e processi che conserviamo nelle nostre complicate circonvoluzioni cerebrali; in più essa deve rivelare una chiara intenzionalità da parte dell’autore. Il montaggio ordina la sequenza delle immagini donandogli forma e significato. Che si tratti di adeguare un prodotto audiovisivo ad un format televisivo, ad un genere cinematografico o ad un particolare stile di regia, il montaggio in misura almeno pari alla ripresa, dà il suo contributo affinché il prodotto assuma la forma definitiva . E’ possibile distinguere due tipi di forma:
1) la forma come principio ordinatore, che comprende la struttura di due o più azioni simultanee, sulla cui base si sviluppa un montaggio parallelo;
2) la forma come schema, come modello che definisce l’immagine di una serie di prodotti. Un serial poliziesco d’azione avrà un montaggio più serrato, con tempi e ritmi più rapidi, rispetto, ad esempio, al serial Derrick. Così pure, un format giornalistico di approfondimento richiederà un montaggio più accurato e preciso che non una normale news.
Il montaggio ha contribuito e contribuisce tutt’ora a conferire nel tempo, lo stile che rende riconoscibile, a prima vista, la linea di un’emittente televisiva o negli anni d’oro di Hollywood, la Paramount piuttosto che la MGM o la Warner. Il montaggio è anche uno degli elementi determinanti per individuare uno stile di regia, al di là dei contenuti e della vicenda narrata. Osservando il montaggio iniziale di un audiovisivo si può capire la “forma” del prodotto . Le sequenze dei titoli di testa devono introdurre, esattamente, lo spettatore nel clima che avrà l’intero filmato.
In un programma televisivo, ad esempio, la sigla iniziale (mix di montaggio, compositing, impaginazione grafica e animazione) deve saper dichiarare in modo conciso ed esauriente, quali saranno i toni e i contenuti della trasmissione, ma deve anche essere in grado di avvertire il target di riferimento che il programma in questione è rivolto a lui. Lo stile di una documentazione audiovisiva, ha una storia; le inquadrature sono pagine di storia cinematografica, oltre che di storia tout- court. Il montaggio può quindi giocare liberamente al “cinema nel cinema”, costruire sequenze manieristiche, evocare con reverenza o ironizzare con allegria il cinema del passato o qualsiasi tipologia audiovisiva.
Ritmo
il montaggio è ritmo. Il ritmo è una cadenza, un’andatura, una pulsazione. E’ il suono di un tamburo lontano, quasi impercettibile, che guida la nostra azione imprimendogli una misura, una maggiore o minore allegria, un maggiore o minore controllo[57].
Il ritmo è una ripetizione ostinata, una vibrazione che sentiamo nella pelle e nelle ossa più di quanto non la si possa ascoltare con le orecchie. Il ritmo è un flusso ininterrotto, un’energia nascosta che sostiene ciò che è visibile. Il ritmo però può essere sincopato: può interrompersi in una improvvisa impuntatura, per poi distendersi nuovamente nella sua continuità. Il ritmo è musica ma il ritmo di un audiovisivo ha poco a che vedere con il ritmo di una musica. Negli ultimi anni siamo stati saturati da tanta produzione video piuttosto facile, in cui la soluzione data ai problemi del ritmo è stata semplificata con il seguente metodo: far coincidere il taglio fra le inquadrature con le battute musicali.
In alcuni casi questa scelta può essere anche gradevole e funzionale al brano musicale, ma non deve essere considerata la norma. Come ogni nota ha un suo “tempo” e un suo “peso”, così anche le inquadrature. Gli elementi che determinano il “peso” delle inquadrature sono diversi:
o il tempo di esplorazione necessario per prendere visione dell’immagine. Ragionando in astratto, un campo lungo dovrebbe avere un peso maggiore rispetto ad un primo piano; ma il primo piano può avere un’intensità tale da rendere necessario un tempo di lettura più lungo, ed ecco che gli equilibri s’invertono.
o Il contenuto dinamico dell’immagine ovvero l’azione che viene sviluppata al suo interno, che può essere più o meno significativa in assoluto e soprattutto più o meno significativa all’interno di un particolare contesto narrativo.
o L’importanza data dall’inquadratura all’articolazione del contenuto della comunicazione. Un’immagine vista isolata può apparire come anonima, mentre all’interno di un dato sviluppo narrativo, assume un’importanza emotiva formidabile; il suo “peso” viene accresciuto.
Le inquadrature di per sé assolutamente anonime, assumono un peso rilevante perché distolgono l’attenzione dello spettatore dall’avvenimento principale, suscitando attesa e inquietudine. Un’inquadratura si può presentare come “chiave” o leitmotiv (inquadratura riproposta più volte) di un intero montaggio, proprio come avveniva nelle sequenze documentaristiche di Flaherty[58]. Il peso di un’inquadratura può essere determinato: dal numero di volte che essa viene ripetuta, da dove viene ripetuta e se la ripetizione è identica o cambia di volta in volta .
Qualsiasi trasmissione contenitore, ha un suo ritmo che deve trovare corrispondenza in ogni parte della trasmissione: dall’impaginazione della sigla di apertura, alle riprese in studio, sino al modo con cui sono montati i singoli servizi; questo insieme di condizioni, determinano il peso e la durata di un’inquadratura[59]. Dietro il corretto ritmo di un audiovisivo, c’è sempre un bravo montatore, in grado di saper sentire, nel labirinto di tutte queste infinte variabili, il ritmo giusto di una sequenza: come un rabdomante sente l’acqua che scorre nascosta sotto i suoi piedi.
In merito al ritmo, il cineasta Jean Painlevé, nato in Francia nel 1902, realizzò circa 200 cortometraggi, di argomento scientifico, con un gusto tutto particolare per il montaggio sonoro, spesso giustapposto alle immagini lasciando che i movimenti degli animali creassero il ritmo della narrazione musicale, composta a posteriori[60]. Con Painlevé, si assiste ad un ribaltamento di prospettiva rispetto all’uso classico della colonna sonora, che spesso piega alle sue esigenze le sequenze del montaggio. Painlevé fu il primo cineasta che osò accostare la scienza alla fiction, tra i suoi lavori di successo: La quarta dimensione, girato nel 1937. Un film che utilizzava effetti speciali per rendere comprensibili alcuni arditi studi della fisica quantistica. In questo esperimento, Painlevé anticipò in maniera a dir poco profetica i confini del grande documentarismo scientifico televisivo del nuovo millennio, a metà strada tra la fiction, la ricostruzione digitale e il documentario tradizionale. Genere che oggi governa il mercato della produzione documentaria mondiale.
Il tempo
Il montaggio ha sempre “giocato” con il tempo; lavora il tempo “scolpendolo a grandi blocchi”, che si susseguono sovente con solennità lungo il percorso narrativo, scandendolo in una sorta di super ritmo. Questo sereno sviluppo lineare si può infrangere, si possono introdurre bruschi salti in avanti e indietro e si può navigare liberamente nel tempo. Durante il montaggio si può decidere se, raccontare i fatti in ordine cronologico o realizzare dei ritorni indietro nel tempo. I cosiddetti flashback , ad esempio, vengono utilizzati come proiezione audiovisiva del racconto di un protagonista o ancora, grazie all’uso di dissolvenze e tendine, si possono mostrare delle anticipazioni di fatti futuri, i flashforward [61] . Il montaggio domina il tempo nella creazione di azioni parallele e sincrone.
Il montaggio alternato o parallelo offre l’opportunità all’autore di costruire una durata assolutamente fantastica, senza che l’illusione della realtà di una scena venga scalfita. Inoltre il montaggio lavora con il tempo, soprattutto, di “cesello” trasformando il tempo cinematografico, in qualcosa di simile al tempo reale della durata di una scena. Questa capacità propria del montaggio di creare una specifica dimensione temporale, ci porta a scoprire quale è esattamente il tempo che vediamo sul piccolo schermo o sul grande schermo.
Dietro alle immagini c’è sempre una scena ripresa dalla cinepresa o dalla telecamera, così come alle spalle della durata di una sequenza, c’è sempre un tempo reale: la durata dell’azione che viene rappresentata. Si può trattare di una durata certa, magari scandita esattamente sul cronometro oppure di una durata puramente ipotetica e approssimativa, che lo spettatore valuta sulla base della propria esperienza . La durata della sequenza , intesa proprio come durata fisica: il tempo di proiezione che trascorre dal primo all’ultimo fotogramma della sequenza stessa, può rispettare esattamente, rispettare a spanne o non rispettare del tutto il tempo reale. E’ importante comprendere come, in ognuno di questi casi, il montaggio nel suo minuzioso lavoro di “cesello”, crea un terzo tempo definito: tempo cinematografico.
Il tempo cinematografico plasma il tempo reale, con lo scopo di catturare la percezione emotiva dello spettatore. Tra tempo reale e tempo cinematografico s’instaura così una continua dialettica che lo spettatore, anche se automaticamente incosciente, è in grado pienamente di dominare.
Il lungometraggio The city, 1929, dello statunitense Pare Lorentz, è stato uno dei primi esempi, nella storia cinematografica, di come il montaggio potesse manipolare il tempo[62]. L’opera tratta il tema del futuro della metropoli, che viene svolto su un doppio binario: da una parte un futuro ottimistico, fatto di case e giardini, in un ambito di urbanizzazione controllata e attenta alle esigenze di benessere del cittadino; dall’altra parte al contrario, si vede una città segnata pesantemente dall’inquinamento e da tutte quelle situazioni di negatività suburbana. In questo caso viene mostrato al fruitore un tempo immaginario: l’urbanistica delle grandi città americane viene anticipata e proiettata nel futuro, mostrando contemporaneamente due possibili realtà, due eventi paralleli e due spazi diversi che si avvicendano nel susseguirsi delle scene.
Spazio
il montaggio crea lo spazio; analizzando i problemi dello spazio cinematografico, diventa più evidente quel lavoro di frantumazione e ricomposizione della scena. Analogamente al tempo anche lo spazio, nella sua ricostruzione in montaggio, può subire un processo di “asciugatura” e sintesi . Le regole del linguaggio audiovisivo, studiano lo spazio delle scena: direzione degli sguardi e direzione dei movimenti.
Queste convenzioni oltre a consentire allo spettatore di riconoscere il legame spaziale tra due inquadrature, offrono al montatore un ampio margine di manovra per “barare”, per creare nella sequenza uno spazio diverso o addirittura assolutamente nuovo. Basta ricordare che quello che lo spettatore vede è esattamente ciò che è delimitato dal campo di ripresa, frutto di una selezione e di “una scelta morale [63]” .
Capitolo IV
Il significato di un’inquadratura è completato, arricchito o trasformato dall’inquadratura precedente o successiva. In genere fra inquadrature che esprimono la stessa azione esiste una continuità che si manifesta con la presenza di tratti comuni, complementari o corrispondenti: gli elementi visivi, scenografia, prospettiva, illuminazione, la direzione del movimento della macchina da presa e dello sguardo dei soggetti inquadrati, l’angolo di ripresa e così via.
Le diverse inquadrature che formano una scena hanno in comune l’elemento spaziale. Nella sequenza composta da varie scene, la relazione si basa sulla continuità dell’azione. A loro volta, le sequenze si integrano in un’unità narrativa superiore, costituita dal film stesso. Esistono, moduli narrativi che tentano di rompere simili schemi.
Il piano sequenza, sintetizza in una sola ripresa ininterrotta, senza stacchi o tagli, l’azione equivalente ad un’intera sequenza o più spesso a una scena, in cui il montaggio interno è determinato dai movimenti di macchina. Un esempio estremo di tale tendenza, nel campo del cinema di finzione è The Rope (Nodo alla Gola), 1948 di Hitchock, virtualmente girato in un’unica inquadratura, senza rinunciare alla varietà delle azioni o degli spostamenti di macchina[66]. A questo punto occorre analizzare meglio, quella che Ejzenstejn definì la “cellula del montaggio”: l’inquadratura nelle sue varie sfaccettature.
La macchina da presa partecipa alla vicenda del film come un testimone invisibile. Può penetrare inavvertita in posti ermeticamente chiusi o proibiti. Può mostrare un personaggio in un deserto dando l’impressione che sia veramente solo. Inquadrature di questo tipo registrate da una presenza inavvertita, si chiamano oggettive [67]. Le inquadrature oggettive si definiscono “reali”, se effettuate da punti accessibili all’occhio umano,“irreali” se riprese da punti normalmente inaccessibili (in corrispondenza di una parete mobile, dietro al fuoco di un camino, ecc.).
La macchina da presa può essere collocata anche al posto degli occhi di un personaggio della vicenda, sostituendosi ad esso e dando allo spettatore la sensazione di vedere attraverso di lui. Queste in quadrature prendono il nome di soggettive[68].
L’inquadratura è condizionata da tre elementi: la distanza reale di ripresa, la lunghezza focale dell’obiettivo utilizzato, la posizione della macchina da presa.
Distanza cinematografica: per distanza cinematografica s’intende la distanza tra soggetto e macchina da presa, così come appare sullo schermo, è determinata non solo dalla distanza reale ma anche dalle caratteristiche dell’obiettivo utilizzato[69].
Lunghezza focale: utilizzando due obiettivi di lunghezza focale diversa, per abbracciare lo stesso campo di ripresa sarà necessario allontanare o avvicinare la macchina da presa. Proprio in base alla loro capacità d’ingrandimento gli obiettivi sono divisi in tre categorie: normali, grandangolari, teleobiettivi. Si intende per normale un’ottica capace di riprodurre le distanze, così come appaiono all’occhio umano, mentre gli obiettivi che aumentano o diminuiscono la distanza apparente del soggetto si chiamano grandangolari e teleobiettivi.
Come regola generale, minore è la lunghezza focale, maggiore è il campo abbracciato[70].
Sembrerebbe quindi indifferente, per ottenere la stessa distanza apparente, spostare la macchina da presa, ad esempio, in avanti o inserire un obiettivo con focale più lunga; ma non è esattamente così, osservando il disegno in basso, dove la macchina in A monta un lungo fuoco, quella in B un grandangolare, si nota infatti che a parità apparente del personaggio cambia la porzione di sfondo alle sue spalle.
Col diminuire della lunghezza focale, aumentano le deformazioni prospettiche e la profondità di campo (zona entro la quale tutto è a fuoco) accentuando gli spazi fra i vari piani.
I grandangolari trovano ampia utilizzazione quando si vuole dare imponenza alle costruzioni, esaltandone le prospettive, aumentandone l’aria, il volume apparente. Un altro effetto si verifica quando il soggetto è in movimento; a lunghezza focale minore corrisponde una maggiore velocità apparente delle azioni, purché il movimento avvenga in direzione della macchina. Il contrario accade con le lunghe focali. L’intervallo tra i soggetti lontani e quelli vicini risulta compresso, inferiore alla distanza reale. I movimenti in asse macchina sembrano ritardati. Per i movimenti trasversali, invece, i lunghi fuochi producono una sensazione di aumento di velocità. Seguendo una corsa con un tele, gli sfondi scorrono rapidamente, accentuando il ritmo della fuga. Stabilito che la distanza reale ha un significato relativo nel campo degli audiovisivi, la pratica professionale ha introdotto le seguenti distinzioni, basate sulla distanza apparente: campi e piani. E’ proprio su questi ultimi, lavora il montaggio, dando vita a quello che sarà il prodotto finito: un susseguirsi di campi e piani da cui si sprigionano diverse emozioni.
C. L. L. Campo lunghissimo
Inquadratura da lontano, di paesaggi o panorami, dove si distinguono solo montagne, fiumi città ecc.
C.L. Campo lungo
Inquadratura simile alla precedente dove però si distinguono un maggior numero di particolari come strade, ponti, paesi e gruppi di case. In lontananza si distinguono anche le persone.
C.T. Campo totale
Inquadratura di un gruppo di case, di una piazza, di un monumento o di un palazzo ecc. Le persone sono visibili distintamente
C.M. Campo medio
Detto anche totalino, inquadratura di un gruppo di persone, di un vicolo, di una piazza e così via. Le persone sono riconoscibili per la loro fisionomia.
Piani:
F.I Figura intera
Inquadratura di una persona, dalla testa ai piedi.
P.A Piano americano
Inquadratura di una persona “tagliata” poco sopra le ginocchia (nasce storicamente nei film western, per far vedere le pistole).
M.F Mezza figura
Inquadratura della persona “tagliata” all’altezza della vita o del torace. E’ detta anche mezzo busto ed è spesso usata nei telegiornali per riprendere i conduttori.
(P.
P) Primo Piano
Inquadratura più ravvicinata della precedente, con “taglio” all’altezza delle spalle.
(P. P. P )Primissimo piano
Inquadratura di un volto che riempie lo schermo
Dettaglio o Particolare
Inquadratura che tende a sottolineare una parte del soggetto: gli occhi, la mano, la bocca e così via.
La scelta di un particolare campo o piano non deve essere casuale, ma determinata dalle esigenze narrative. In generale, i piani più ravvicinati hanno maggior forma emotiva ; i campi più vasti permettono di collocare l’azione in un determinato luogo. Quando si effettuano le riprese, si deve cercare di comporre le immagini, in modo da trasmettere allo spettatore la sensazione di trovarsi effettivamente immerso nella situazione che sta guardando sullo schermo.
La composizione di un’inquadratura dipende non solo da valutazioni di carattere estetico, ma anche dalla giusta collocazione degli elementi narrativi voluti nel centro di attenzione. Infatti è stato constatato sperimentalmente che l’occhio dello spettatore tende a concentrare l’attenzione in un solo punto, trascurando gli altri, tale richiamo al centro di attenzione può divenire così forte da lasciare il resto dell’inquadratura fuori dalla percezione [71]. Lo scopo dunque di una buona composizione è evidenziare gli elementi di maggiore importanza e consentire ai personaggi movimenti naturali senza impallarsi o ostacolarsi a vicenda.
I soggetti, salvo esigenze narrative particolari, debbono essere inquadrati in modo da risultare riconoscibili e da evidenziarne le caratteristiche peculiari. In linea di massima una buona inquadratura deve essere bilanciata, cioè gli elementi debbono essere disposti con equilibrio negli spazi del fotogramma, immaginato come una sezione aurea[72]. Ma, a volte, proprio una composizione sbilanciata può consentire il massimo effetto.
Gli spazi vuoti e quelli pieni devono avere una giusta proporzione non casuale. Infatti l’aria (spazio) attorno ai soggetti è sempre frutto di una scelta, determinata dalla distanza cinematografica, dalla posizione della macchina da presa e dal movimento. Un altro elemento che determina l’inquadratura è la posizione della macchina da presa rispetto all’orizzonte o all’asse ottico. Riprendere un volto in primo piano in asse (ovvero tenere l’obiettivo della telecamera allo stesso livello della faccia inquadrata), oppure un primo piano angolato, significa trasmettere due sensazioni molto diverse allo spettatore. Un’inquadratura dal basso, ad esempio, dove la macchina da presa guarda verso l’alto di solito si usa per ingigantire i personaggi, per accentuarne l’importanza o la forza del carattere; viceversa dall’alto si usa per sminuire i personaggi sottolineandone lo stato d’inferiorità. Variando dunque l’angolo di ripresa varia anche la prospettiva e il messaggio dell’immagine.
Movimenti di macchina
L’inquadratura in movimento, va concepita come un
elemento dinamico e i campi e i Piani di ripresa variano con lo svolgersi dell’azione. Se si sposta
soltanto il soggetto, la machina da presa va piazzata in modo da cogliere i
movimenti in tutta la loro successione o in modo che i movimenti essenziali siano messi in massimo
rilievo. La macchina da presa può muoversi da sola o contemporaneamente nella
scena.
Panoramica
La panoramica, stabilisce un rapporto tra due punti, partenza e arrivo, collegandoli attraverso il suo movimento, dando così una precisa relazione spaziale e scoprendo al termine del suo percorso un elemento nuovo, essenziale al racconto. Affinché avvenga questo movimento, la macchina da presa ruota intorno ad un punto fisso, grazie alla testata del cavalletto che consente un movimento uniforme su qualunque asse. La panoramica può essere:
Verticale : la macchina da presa rotea verso l’alto o verso il basso.
Orizzontale: la macchina da presa rotea verso destra o verso sinistra.
Obliqua : la macchina da presa è libera di roteare in varie direzioni.
A schiaffo: un movimento tanto veloce da unire la partenza all’arrivo senza rendere percepibili le immagini intermedie. In essa non conta il rapporto spaziale, quanto l’effetto di sorpresa.
Carrellata
Si ottiene muovendo la macchina da presa montata su una apposita piattaforma: il carrello (dolly), quest’ultimo in base all’effetto che si vuole ottenere può essere montato su ruote gommate o sui binari.
Carrello in avanti: la macchina da presa si avvicina al soggetto che diventa più grande, escludendo progressivamente gli elementi ai lati del campo. Evidenzia alcuni particolari e concentra l’attenzione in un punto dell’inquadratura.
Carrello indietro : la macchina da presa si allontana dal soggetto che diventa man mano più piccolo, includendo progressivamente gli elementi esterni al campo. Distoglie l’attenzione dal punto iniziale, mettendolo in rapporto con nuovi elementi. Un tipo particolare di carrelli, nel senso dell’asse ottico, sono quelli a precedere e a seguire, usati quando i soggetti sono in movimento:
Il carrello a precedere è in favore dei personaggi;
Il carrello a seguire in favore dell’ambiente.
Carrello trasversale : la macchina da presa si muove lateralmente al proprio asse. Si utilizza, soprattutto nei documentari, per le descrizioni ambientali o per seguire soggetti in movimento.
Camera Car: la macchina da presa viene montata su un auto mezzo. Generalmente viene usata per seguire azioni veloci e sottolineare l’effeto di fuga.
Gru: la macchina da presa, fissata su un braccio mobile, scorre verticalmente verso l’alto o verso il basso. Il braccio della gru, normalmente montato su una piattaforma con ruote, permette tutte le combinazioni di movimento esaminate in precedenza.
Trasfocatore (o zoom) : non è un movimento di macchina ma un obiettivo che può variare la lunghezza focale, creando effetti di avvicinamento o allontanamento. Il risultato è diverso da quello del carrello, che conserva nel movimento il senso di profondità e varia in modo naturale le prospettive, il punto di osservazione si sposta continuamente e gli elementi scenografici si spostano verso la linea di fuga. Generalmente, per le riprese di attualità destinate ai notiziari televisivi e ai reportage scottanti, viene usata la macchina a mano; la minor precisione è compensata da un senso di verità e dalla possibilità di compiere combinazioni di movimento altrimenti impossibili.
Movimenti “speciali”
SteadiCam: si tratta di un sistema di supporto stabilizzante per telecamera o cineprese, è in grado di ottenere riprese fluide e movimenti di camera morbidi; rimuove molto bene le vibrazioni impresse alla macchina, lasciando una certa libertà di azione all'operatore. I modelli più "professionali" consistono in un'imbracatura bilanciata da indossare o da fissare nelle vetture in movimento, in base alla ripresa che si intende effettuare.
ShakyCAM
E’ uno stile di ripresa reso popolare da alcuni video
musicali[73],
che mostra le immagini riprese sempre con un movimento irregolare (come una
ripresa fatta a mano libera), allo scopo di elevare la sensazione di
drammaticità. In realtà questo tipo di ripresa non è così semplice come sembra
e richiede molti "esperimenti" ed una certa esperienza.
4.2. La "continuità" nelle riprese
Quando si deve
girare una scena che sarà composta da più inquadrature, è fondamentale
assicurarsi che tutte le riprese fatte per una stessa scena, siano legate da un
senso di continuità ed equilibrio tali che lo spettatore non si trovi spiazzato
nella visione.
Azione e
direzione: quando il soggetto della
ripresa si muove o guarda verso qualcosa o qualcuno, si crea un senso di azione
o di direzione, che va mantenuto in ogni inquadratura successiva, ad es. una
persona che in un’inquadratura cammina da destra a sinistra, nell’inquadratura
successiva non può camminare da sinistra a destra perché darebbe l'impressione
di ripercorrere la strada al contrario.
Continuità di azione e di direzione
Assicurarsi che
ci sia continuità di azione e di direzione, spesso può risultare difficile e
complesso. Per semplificare questo processo è stato introdotto il concetto di Asse
dell'azione[74].
Se un soggetto si muove dalla posizione A a quella B, viene definito come asse
dell'azione la retta immaginaria che unisce i due punti. L'asse dell'azione
è determinabile anche tra due soggetti immobili che si guardano e coincide con
la retta immaginaria che va dagli occhi al punto verso cui è rivolto lo
sguardo.
La Regola dei
180° afferma che: “Stabilito un asse dell'azione tra due soggetti che si
muovono o si guardano, i punti macchina per le riprese durante l’intera scena,
devono trovarsi tutti dallo stesso lato rispetto all'asse dell'azione stesso[75]".
1)
Il movimento del soggetto permette
di tracciare la linea immaginaria; le riprese fatte con la telecamera in
posizione 1, 2 e 3 (figura 1) saranno corrette.
Possono essere primi piani,
campi lunghi, carrellate, riprese dal basso o qualunque altro
tipo di inquadratura; l'importante è che siano fatte tutte dallo stesso lato
della linea immaginaria, per garantire la stessa direzione del movimento (da
destra a sinistra), quando saranno visti in sequenza o “incollati” insieme. La
ripresa in posizione 4 (sempre fig 1), invece, dall'altro lato dell'asse di
azione, riprendendo i soggetti come se si muovessero in direzione opposta (da
sinistra a destra), se combinata con uno qualunque delle inquadrature 1. 2 o 3,
rovinerebbe il senso della direzione. Il suddetto errore , viene chiamato in
gergo: scavalcamento di campo.
Potrebbe essere necessario "saltare" l'asse per motivi operativi (ad es. motivi di spazio).
Per invertire il campo occorre qualche piccolo accorgimento:
• far cambiare direzione agli attori che si vedono nella scena, in modo da stabilire un nuovo asse dell'azione;
• far precedere un cambio di asse da una inquadratura neutrale,
un’ inquadratura in cui il senso di direzione sullo schermo non è rivelato, come nel caso di un soggetto che va verso la telecamera o che si allontana da essa.
• incrociare l'asse dell'azione con un movimento di
camera (panoramica, carrellata) ed effettuare le restanti inquadrature dal
nuovo lato.
Continuità
spaziale
L'inquadratura con la telecamera si effettua selezionando lo spazio e tale selezione, delimitata dai bordi dell'inquadratura, stabilisce una relazione tra due spazi: quello in campo e quello fuori campo[76]. Il primo è l'immagine ripresa dalla telecamera e recepita dallo spettatore attraverso lo schermo. La sua ampiezza è in funzione dell'obiettivo utilizzato.
Il secondo è tutto ciò che non è compreso nei bordi dell'inquadratura e che lo spettatore non vede, ma deve tenere sempre presente. Il fuori campo deve essere costantemente suggerito e richiamato dagli sguardi dei personaggi, dalla loro entrata ed uscita nel e fuori dal campo, dall'apertura di porte e finestre, e così via, affinché lo spettatore possa facilmente ricostruire tutto l'ambiente in cui si svolge il racconto video.
Poiché un soggetto può entrare e uscire da un campo, la logica visiva stabilisce che, se l'uscita avviene sulla destra dell'inquadratura, per dare l'impressione che il cammino prosegua naturalmente l'entrata nel campo successivo deve avvenire da sinistra. Diversamente, si avrebbe la sensazione che il soggetto abbia cambiato direzione, ripercorrendo il tragitto compiuto nello shot precedente.
Shot 1 Shot 2
Quando si riprende un dialogo è necessario che lo spettatore sia consapevole di quale sia la posizione reciproca degli interlocutori, anche laddove questi siano inquadrati solo con dei primi piani. Se sullo schermo appare uno solo dei soggetti del dialogo, la direzione del suo sguardo sarà l'unico fattore che permette di capire dove si trova l'altro soggetto. Per modificare l'equilibrio tra i due interlocutori, si può ricorrere ad una variazione dell'angolo di ripresa. Con una carrellata in avvicinamento e una riduzione dell'angolo di campo, si riprendono su ciascun soggetto dei primi piani. Anteponendo il primo piano di un soggetto con quello dell'altro e prestando attenzione alla direzione degli sguardi è possibile simulare un dialogo tra due persone anche se sono stati ripresi in momenti e luoghi diversi.
Montaggio
continuo
Le azioni filmiche che proseguono senza interruzione di tempo portano al montaggio continuo. Questo tipo di montaggio, risulta tecnicamente corretto quando le azioni, pur essendo composte da varie inquadrature, appaiono allo spettatore come un pezzo unico. Se questa continuità tra inquadrature viene interrotta, si ha il salto di montaggio, che disorienta lo spettatore interrompendone il rapporto con lo schermo.
Il salto di montaggio
Il salto di montaggio può essere provocato da diversi fattori: variazioni improvvise di tono fotografico, di costumi, di trucco, cambio di velocità o di direzione dei movimenti, incompletezza dei movimenti stessi, errate posizioni di macchina, ingiustificati spostamenti dal centro di attenzione. Per cui risulta importante durante le riprese, prevedere l’accostamento fra le inquadrature, poiché in questa fase nascono la maggior parte degli errori che non possono essere corretti in fase di montaggio[78].
Gli attacchi
L’attacco è la risultante di un complesso di elementi predeterminati in sede di realizzazione (ampiezza del campo, posizione di macchina, movimenti dei personaggi, ecc.)[79].
Attacco sull'asse
E' un attacco il cui centro di attenzione rimane nello stesso punto dello schermo nelle due inquadrature giuntate. Permette l'ingrandimento e la riduzione del soggetto mediante spostamenti di macchina in avanti o indietro, lungo l'asse ottico dell'obiettivo o mediante cambiamenti delle focali.
2)
Nell'attacco per ingrandimento o riduzione la macchina da presa può essere
piazzata in qualsiasi punto lungo l'asse ottico A B (figura 2). Il soggetto
principale viene ad avvicinarsi o ad allontanarsi, conservando la stessa
posizione nell'inquadratura, l'asse ottico resta parallelo a quello
dell'inquadratura precedente.
Perché l'attacco trovi una giustificazione e non risulti fastidioso, è bene che gli spostamenti avanti o indietro siano piuttosto sensibili.
Attacco per angolazioni contigue
Si definiscono contigue due inquadrature di cui l’una risulta la prosecuzione spaziale della altra[80]. L'applicazione abituale delle angolazioni contigue avviene con soggetti in movimento, che col progredire dell'azione, escono dal campo (Figura 3).
3)
Le inquadrature contigue sono caratterizzate dal parallelismo degli assi ottici e dalla costanza dell'angolazione del movimento del personaggio. E’ fondamentale che la velocità del moto sia sempre la stessa al momento dell'attacco. Le uscite e le entrate del soggetto debbono essere raccordate in modo esattamente inverso: ad una uscita a sinistra corrisponde un'entrata a destra e viceversa e ad un’uscita dall'alto corrispondono ad un'entrata dal basso e viceversa.
Controcampo
Per controcampo si intende letteralmente una inquadratura opposta alla precedente che ne conserva la direzione, ma ne inverte il senso[81]. Tale attacco presenta l'inconveniente di sconvolgere la geografia dell'ambiente, invertendone gli elementi. Gli oggetti che si trovano a destra passano, nella seconda inquadratura, a sinistra e viceversa (Figura 4).
4)
Le inquadrature finalizzate ad un servizio giornalistico su uno spettacolo teatrale, ad esempio, dovranno mostrare sia gli attori che recitano che il pubblico antistante il palco.
Angolazioni soggettive e pseudo - soggettive
Lo spettatore è ormai abituato al linguaggio delle immagini, può quindi riconoscere una soggettiva (vista attraverso gli occhi di un personaggio) anche da una sola inquadratura presa a sé stante, purché vi sia qualche riferimento. Normalmente, si può capire se una inquadratura è oggettiva o soggettiva a seconda di quella che la precede o la segue.
Ad es.: la panoramica sulla facciata di un palazzo è oggettiva, ma se si fa precedere o seguire da un personaggio che osserva sollevando lo sguardo, risulta "come vista" dal personaggio stesso.
Un caso del tutto particolare di film realizzato in
soggettiva, è THE BLAIR WITCH PROJET. Il mistero della strega di
Blair, inizialmente spacciato per un
documentario reale: nell’ottobre del 1994 tre studenti scomparvero in un bosco nei
pressi di Burkittsville, nel Maryland, mentre stavano girando un documentario
sul misterioso luogo. Un anno dopo fu ritrovato il loro filmato; da questa
premessa, uno dei film più interessanti nella storia della moderna
cinematografia horror .
The Blair Witch project rappresenta il top del minimalismo
registico, un esperimento di grande effetto, in grado di suscitare nel pubblico
una cospicua dose di paura. Il film è stato girato nel 1997 da
due registi: Eduardo Sanchez e Daniel Myrick ed è stato poi venduto ad una casa
cinematografica, la quale ha provveduto a proiettarlo nelle sale statunitensi,
lasciando intendere allo spettatore che fosse una storia vera[82].
Le soggettive, in THE BLAIR WITCH PROJET, come il resto delle riprese, non sono state realizzate dal regista né da un cineoperatore, ma dagli stessi protagonisti della vicenda, che in questo modo hanno mostrato non solo ciò che hanno visto e sentito, ma anche come lo hanno visto e sentito, accentuando ulteriormente la sensazione di realtà dell’audiovisivo in questione [83]. Nell’informazione audiovisiva vengono maggiormente usate inquadrature oggettive o pseudo soggettive, dove i fruitori solitamente, non avvertono la presenza di chi riprende gli eventi di cronaca, sport, spettacolo e via dicendo; cineoperatore e telecamera diventano dei testimoni invisibili.
Ma durante alcuni eventi (disordini nelle manifestazioni o guerriglie civili), può accadere che il cineoperatore venga coinvolto nella calca e per forza di cose, diviene un testimone diretto e percepibile, le inquadrature da lui effettuate saranno le sue soggettive. Inquadrature di questo tipo sono molto utili nella ricostruzione dei fatti e vengono spesso inserite nelle video inchieste, come per esempio in Maledetto G8 di Roberto Torelli, video inchiesta edita da L’Espresso[84].
Pseudo soggettiva
La pseudo soggettiva denominata in americano anche point of wiew [85] (punto di vista), riprende la scena quasi dal punto di vista del soggetto principale. La macchina da presa, va piazzata di fianco al personaggio fuori campo all'altezza dei suoi occhi, idealmente vicino alla sua guancia. Lo spettatore non vede gli avvenimenti attraverso di lui, ma come se stesse al suo fianco. E' l'angolazione oggettiva il più possibile vicina alla soggettiva.
Questo tipo d’inquadratura, viene effettuata generalmente per le interviste e i dialoghi, stabilendo una stretta relazione fra i due interlocutori. Affinché l’inquadratura sia corretta, il soggetto ripreso non deve guardare in macchina ma a filo dell’obiettivo.
Angolazioni corrispondenti o simmetriche
Le angolazioni corrispondenti o simmetriche sono inquadrature contrapposte, in cui ogni elemento del campo conserva la sua posizione (quelli di sinistra restano a sinistra, e quelli di destra a destra). Nel gergo abituale del cinema, per controcampo s’intendono proprio le corrispondenti [86]. Nel caso di scene statiche e in particolare di dialoghi, l’attacco per angolazioni corrispondenti è comunemente il più adoperato, perché riflette un maggior numero possibile di combinazioni.
La macchina da presa
viene collocata in posizione opposta e simmetrica in modo da formare
angoli uguali rispetto all’asse dell'azione (rappresentata dalla linea
immaginaria congiungente i due personaggi in campo). Gli sguardi dei
personaggi ripresi singolarmente debbono essere opposti e simmetrici. Se il
primo guarda verso destra l’altro deve guardare verso sinistra. La
corrispondenza degli sguardi vale anche in direzione verticale. Così se il
primo personaggio guarda verso l’alto a destra, il secondo deve guardare verso
il basso a sinistra.
Angolazioni-arbitrarie
Al di fuori degli schemi illustrati, esistono molti altri attacchi possibili, dettati dalla complessità delle azioni sempre diverse e dalle esigenze artistiche del racconto. Ciò porta ad angolazioni arbitrarie, comandate dalla necessità di piazzare la macchina da presa nella migliore posizione per inquadrare attori, ambiente ed azioni in ogni particolare momento narrativo.
A volte le angolazioni arbitrarie sono una necessità, come nel caso di riprese di attualità dove l'avvenimento va colto nel suo sviluppo, senza alcuna preparazione o possibilità di ripetizione. Per legare inquadrature, spesso senza relazione fra loro, si ricorre agli inserti e all'impallamento, espedienti di uso frequente anche nel cinema spettacolare, che permettono persino un corretto scavalcamento di campo.
L’inserto:
L'inserto è una breve inquadratura arbitraria posta fra due inquadrature che presentano un salto di montaggio. E’ bene che l'inserto sia collegato per spazio e tempo ai pezzi che deve congiungere, anche se può mancare di precisi riferimenti. Dato che esso non ha relazioni di angolazione con altre inquadrature, può liberamente essere ripreso dal punto più favorevole.
Non si deve considerare una soluzione ideale nel caso del montaggio continuo, perché spezza il rapporto di continuità fra le varie inquadrature. Ma proprio per questa caratteristica può trovare una valida utilizzazione quando si vogliono comprimere i tempi di un'azione. Ad esempio: un individuo inizia a percorrere una lunga scala; basta inserire un piede che sale qualche gradino o la mano che si appoggia, per ritrovare il personaggio in cima alla scala sul taglio successivo. Lo spettatore sintetizza idealmente il tempo di salita, che risulterebbe oggettivamente di gran lunga maggiore. Nelle riprese di attualità è essenziale girare una serie di possibili inserti liberi (applausi, spettatori, bandiere ecc.) per poter essere certi di collegare fra loro le varie inquadrature dell'avvenimento di cronaca. La stessa cosa è spesso consigliabile per il cinema a soggetto.
L’Impallamento
L’impallamento avviene, quando il soggetto principale dell'azione viene a scomparire coperto da oggetti o persone [87]. Questa copertura può accadere per movimento del soggetto stesso, degli altri elementi di scena, o della macchina da presa. Il soggetto principale dell'azione, quando viene impallato, può essere considerato fuori campo, viene liberato da qualsiasi rapporto spazio-temporale e l’inquadratura successiva può essere assolutamente arbitraria.
Attacco su movimento
L’attacco su movimento, si ha quando il movimento nell'inquadratura viene completato in quella successiva[88]. Condizioni essenziali sono: che la velocità apparente sia la stessa e che l'azione sembri continua. Affinché la ricostruzione del movimento dia la voluta sensazione di continuità, occorre che all'azione registrata siano sottratti alcuni fotogrammi sulla giunta.
Se questa quantità non viene tolta, si avrà la sensazione, che di scatto la figura torni indietro e prima di proseguire, ripeta l'ultima parte del movimento già vista. Così il movimento per sembrare completo sullo schermo deve essere oggettivamente incompleto sulla pellicola. La misura dei fotogrammi da tagliare sulla giunta è variabile (più o meno 8), e dipende in proporzione diretta dalla velocità angolare della figura, dalla velocità reale, dall'ingrandimento dell'ottica usata e dal fatto che l'attacco sia o meno in asse [89]. L'attacco su movimento favorisce la sensazione di continuità in ogni combinazione di angolazioni, anche se arbitrarie. La premessa teorica di questo attacco trae la sua origine dalle regole della meccanica dell'attenzione: quanto maggiore è l'interesse o la velocità di un’azione, tanto più ristretto sarà lo spazio percepito dallo spettatore [90].
Se, dunque, leghiamo un'inquadratura alle successive, per mezzo di un attacco arbitrario azzardato, sarà necessario fare in modo che il pubblico concretizzi la consequenzialità dello sviluppo narrativo e non percepisca la discontinuità oggettiva fra le inquadrature. Ciò si otterrà operando il passaggio in corrispondenza di un'azione forte che assorba interamente la sua attenzione.
Montaggio nascosto
Particolarissimo tipo di attacco è il montaggio nascosto, inventato da Meliès come trucco di sostituzione. Questo tipo di montaggio consiste nell'interrompere la ripresa e passare ad una seconda inquadratura da collegare alla prima, tenendo la macchina da presa assolutamente fissa, in modo che i punti di riferimento rimangano invariati. Ciò consente di far risultare tutte le variazioni sulla scena operate durante l'interruzione, come apparizioni, sparizioni e modificazioni senza che il pubblico avverta che si tratti di pezzi di montaggio distinti.
Un esempio di montaggio nascosto si trova nel documentario “L’Isola del Giglio[91]”, che narra storia e leggende di Isola delle Femmine, borgata marinara in provincia di Palermo. La prima scena del documentario si apre rievocando la leggenda di Lucia : “La donna, imprigionata nell’isola dall’uomo di cui aveva rifiutato la corte, decise di donare al mare il suo dolore…[92]”.
Nella suddetta scena viene mostrata una donna vista di spalle, dai lunghi capelli e vestita di bianco, che avanza verso un dirupo a strapiombo sul mare e poi scompare. L’effetto di sparizione è stato realizzato nel seguente modo: la prima inquadratura, con la donna che cammina verso il dirupo, è stata giuntata con la seconda inquadratura, che mostra il medesimo luogo, ripreso dallo stesso punto macchina ma senza il soggetto principale della vicenda.
Montaggio discontinuo
Per montaggio discontinuo si intende un cambio di inquadratura che crea una frattura narrativa per passaggio di tempo o di ambiente. Normalmente questo tipo di montaggio si verifica in coincidenza di una variazione di scena. Essendo lo spettatore portato a creare un legame di continuità fra le inquadrature, è opportuno, per evitare possibili confusioni, che la discontinuità venga accentuata anche visivamente. La sospensione narrativa è sempre evidente nel caso di stacco fra ambienti molto diversi, fra inquadrature con campi ed angolazioni nettamente differenziate ecc.. Un ottimo tipo di stacco si può realizzare con l’improvvisa variazione nel ritmo delle due azioni successive.
L'ingresso improvviso di un’immagine con movimento violento unisce all’automatica percezione dello spostamento narrativo, il vantaggio di stimolare l'interesse del pubblico verso la nuova situazione. Un tempo, mirando ad ottenere un discorso unitario, si tendeva a collegare l'ultima inquadratura di una scena con la prima di quella successiva. Alcuni registi russi, Eisenstein, Pudovkin, Timoscenko, formularono una completa casistica di attacchi fra due inquadrature, basando il passaggio su elementi contenutistici o formali[93]:
Analogia
- Di forma; due immagini simili fra loro; esempio: un ventilatore e l’elica di un aeroplano.
- Di contenuto: due immagini concettualmente simili; esempio: la sanguinosa repressione di una rivolta, e i buoi scannati al macello (Eisenstein).
Contrasto
- Di forma: due immagini in opposizione; esempio: un gigante e un nano.
- Di contenuto: due immagini concettualmente opposte; esempio: il ricco e il povero.
Le possibilità si complicano combinando gli elementi disposizione. Si avrà allora:
Analogia di forma e di contenuto
esempio: una signora grassa che divora avidamente un lauto pasto, e un ippopotamo che compie la stessa azione.
Contrasto di forma e di contenuto
esempio: una vecchia barca di pescatori nella tempesta, ed un lussuoso panfilo nel mare calmo di una splendida baia.
Analogia di forma e contrasto di contenuto
esempio: un bambino che lancia una palla per gioco e un soldato che lancia una bomba a mano.
Analogia di contenuto e contrasto di forma
esempio: due campioni che tentano un record, uno di salto con l'asta l'altro di tuffo.
E' tendenza del montaggio contemporaneo ritenere superati questi tipi di collegamenti. Attualmente, si mira sempre più ad una narrazione fratturata, che scorra rapidamente i cui significati scaturiscano dal contesto del racconto, piuttosto che dall’accostamento meccanico delle immagini. Tuttavia nei passaggi di scena è frequente ancora l'uso di analogie e contrasti che, se utilizzati con inventiva e parsimonia, possono risultare abbastanza efficaci. L'intuitiva capacità di comprensione dello spettatore attuale ha portato anche al superamento dei convenzionali sistemi di passaggio fra scena e scena.
Oggi il “taglio” si opera direttamente al vivo ed è la concreta progressione del racconto che fa intuire immediatamente, la voluta discontinuità di tempo, di spazio o d’azione.
Fermo fotogramma
L'ultimo fotogramma dell'inquadratura può essere ristampato più volte in modo da fermare l'immagine. Questo procedimento è spesso utilizzato per momenti drammatici, o per passaggi a quadri e illustrazioni combinati con dissolvenze. Per evitare un salto, l’unione fra disegno e fermo macchina si effettua in Truka (macchina per riprendere con precisione figure, disegni, contenuto di libri e quotidiani[94]) in modo che i punti di riferimento coincidano perfettamente.
Cartelli e grafici
Un netto passaggio si ottiene anche anteponendo alla nuova sequenza un cartello o un grafico. Generalmente questo sistema introduce una data, una località, magari con l'ausilio di una carta geografica. Chi realizza un audiovisivo può escogitare diverse soluzioni di passaggio da una scena all'altra più o meno suggestive: passaggi con l'immagine che sfuoca e rimette a fuoco nell'ambiente successivo, passaggi con panoramica a schiaffo che muta situazione dalla partenza all'arrivo e così via. E’ fondamentale che ogni soluzione adottata sia collegata con lo stile generale del racconto.
Titoli
I titoli presenti in un audiovisivo sono di diverso tipo:
I titoli di testa: Vengono posti all’inizio di un audiovisivo; danno informazioni al fruitore in merito: alla produzione, al regista, agli attori principali e al titolo dell’opera ;
Titoli di coda: Posti alla fine di un audiovisivo; servono per elencare i nomi degli attori, dello staff tecnico e di tutti collaboratori che hanno partecipato alla realizzazione del prodotto.
Sottopancia: Viene solitamente usato nei telegiornali per inserire all’interno di un servizio il nome del giornalista, dell’intervistato, di chi effettua delle riprese e di chi effettua il montaggio.
Titoli esplicativi: Vengono utilizzati per chiarire al fruitore alcuni passaggi: possono introdurre una storia, indicare luoghi o date.
I titoli, vengono scritti e inseriti nell’audiovisivo dal titolista tramite la titolatrice se l’audiovisivo viene montato in analogico, la tastiera del computer se il prodotto viene elaborato in digitale. Lo stile del carattere da usare per i titoli deve essere contestualizzato all’interno del prodotto audiovisivo.
Capitolo
V
Montaggio e suoni
5.1.Montaggio sonoro
Il sonoro, è una delle condizioni fondamentali affinché un prodotto audiovisivo esprima la sua capacità di coinvolgimento dello spettatore. Il sonoro di un audiovisivo è costituito dalla fusione di tre diverse tracce audio: il parlato (detto anche voce off, voce narrante o speak), la musica ed i rumori[95].
Poche cose sorprendono un montatore alle prime armi come la forza con cui l’ambiente sonoro impone la sensazione di continuità all’interno di una sequenza. Un attacco sul movimento può essere approssimativo, la continuità fotografica grossolana, i movimenti degli attori non esattamente correlati, la continuità scenografica dubbia ma se l'ambiente sonoro funziona, funzioneranno anche tutti questi attacchi. Uno dei più banali espedienti usati dai montatori, quando un taglio non scorre fluidamente, consiste infatti nel cercare di spostarlo leggermente, in modo tale da portarlo in un momento di forte continuità della colonna audio. Mascherare una possibile sensazione di discontinuità nel video con una forte sensazione di continuità dell’audio è un obiettivo raggiungibile con l'adeguata combinazione mix di voce umana, rumori e musiche. L'ambiente sonoro è uno degli strumenti essenziali della continuità nel montaggio; uno strumento che basa la sua forza sulla maggiore capacità analitica dell’orecchio rispetto a quella dell’occhio.
L'orecchio non si distrae mai, ha un campo di percezione assolutamente globale, è capace di focalizzare una particolare fonte sonora, mentre non cessa contemporaneamente di percepire ed elaborare tutte le altre [96].
L’età del cinema muto o meglio non parlato, ha visto fiorire grandi opportunità di lavoro per pianisti che accompagnavano dal vivo le proiezioni, per compositori che ispirandosi alla tradizione del melodramma e dell' operetta, scrivevano le melodie da eseguire durante i diversi momenti del film (la cui partitura veniva distribuita agli esercenti assieme alle pizze della pellicola) e anche per orchestre di medie dimensioni. Quello che mancava al cinema muto non era dunque l'audio, ma la sincronizzazione e il montaggio dell' audio: la possibilità di ascoltare un parlato in sincrono e di costruire una complessa colonna sonora composta da voci, rumori e musiche, adeguata ai diversi momenti della proiezione.
Tutto cambiò da quella fatidica proiezione del 6 ottobre 1927, quando il popolare showman Al Jolson apparve sullo schermo ne Il cantante di Jazz di Alan Crosland [97], da allora l'audio è diventato per l'immagine fondamentale. L’immagine audiovisiva senza audio perde buona parte della sua impressione di corporeità e di verosimiglianza. L'invenzione della registrazione e della riproduzione sonora in sincrono, ha offerto al montaggio dell'audiovisivo un nuovo straordinario strumento di continuità.
Il sonoro garantisce la più elementare, ma anche la più efficace, sensazione di chiarezza in particolare quando si tratta di una ripresa dal vivo, già arricchita di tutto lo spessore dell'ambiente sonoro caratteristico del luogo dove si è svolta la registrazione. Si può affermare che qualsiasi inquadratura anche se non correlata alle precedenti ma inserita in un determinato ambiente acustico, viene immediatamente collocata dallo spettatore nella continuità spazio temporale della scena; purché, ovviamente, possegga quel minimo indispensabile di continuità fotografica e di continuità logica tali da non renderla particolarmente stridente. Il sonoro può essere abbinato al video nei seguenti modi:
“Sincronismo”: si ha quando le sorgenti sonore sono comprese nell’inquadratura o se fuori campo, comunque presenti nella scena.
“Asincronismo”: quando il visivo e la colonna sonora non coincidono esattamente.
“Parallelismo”: quando il visivo ed il sonoro esprimono lo stesso concetto.
“Contrappunto”: quando i due elementi esprimono significati diversi.
Voci e rumori
Il rumore è fondamentale, soprattutto nella fiction per la sua capacità di moltiplicare la sensazione di verosimiglianza, della scena: la medesima sequenza, che montata con i soli dialoghi o con la sola musica può comunicare una certa sensazione di vuoto, di bidimensionalità, diventa corposa e tridimensionale alla semplice aggiunta di un singolo rumore contestualizzato: un’automobile che passa sul fondo, lo scricchiolio di una poltrona, un qualsiasi rumore ambiente. Mentre nell’informazione audiovisiva, l’audio ambiente è parte integrante dell’informazione stessa, in quanto viene “catturato” contemporaneamente alle riprese, arricchendole ulteriormente di dettagli. Nel montaggio audiovisivo di una notizia le immagini, sono accompagnate: dalla voce narrante o voce off del giornalista che spiega l’evento, dall’audio ambiente delle immagini stesse e dall’audio dell’eventuale intervistato.
La voce off rispetto all’audio ambiente, è una voce fuori campo audio ovvero registrata in un secondo momento rispetto alle riprese, in apposite sale di registrazione insonorizzate. La voce narrante, sopratutto nei telegiornali e nei documentari ha una particolare funzione narrativa e didascalica che guida il fruitore; spesso, può avere anche carica evocativa ed emozionale. In fase di montaggio, la voce narrante, viene normalmente regolata con un volume più alto, rispetto all’audio ambiente che accompagna le riprese. Mentre altre soluzioni di montaggio, preferiscono alternare le due tracce audio e non inserirle contemporaneamente.
Musiche
La musica, è un ottimo “collante narrativo”, utilizzato comunemente e abbondantemente in sequenze di sintesi costruite su grandi ellissi temporali. In questa funzione di “sfondo”, la continuità musicale può proporsi anche come l'unico “cemento” di una sequenza, che dal punto di vista dell'immagine può essere del tutto priva di continuità spazio-temporale. L’utilizzo della musica, come presenza assolutamente dominante nella colonna sonora, è un'eredità diretta del cinema muto: un accompagnamento musicale, che si sviluppa parallelamente alla sequenza di immagini creando un sostegno emozionale a tratti evidentissimo, a tratti invece sommesso e nascosto.
Sequenze di questo genere, garantiscono un’apertura, un allargamento dello sviluppo narrativo, trovano vasta applicazione sia nella fiction cinematografica che nelle diverse tipologie documentaristiche. Collocata all’interno di una normale sequenza, la musica può assumere il caratteristico ruolo di accompagnamento, di sottofondo e di sottolineatura emotiva di particolari momenti del dialogo e dell'azione scenica. Le sequenze musicali hanno un ruolo essenziale, nella costruzione del percorso narrativo di un audiovisivo: introducono momenti di sintesi e di decongestionamento dopo una parte particolarmente densa e dominata ad esempio da interviste.
Fuori campo audio
L’audio, inteso come musica, come rumore o come voce off, ha all’interno di un audiovisivo, una funzione genericamente unificante, che combinata con la tonalità fotografica scelta per la sequenza o per l’intera pellicola, porta a definire quello che sarà l’umore, l’ambience, l'atmosfera e il sapore di fondo che lo spettatore deve percepire[98]. Costruire in una certa modalità la colonna sonora porta a determinare come lo spettatore dovrà sentirsi nella sequenza. L’uso più comune del fuori campo audio è sicuramente rappresentato dalla voce off, che domina l'audio in una gran parte dei prodotti della comunicazione audiovisiva: necessaria nell'informazione, comunissima nel documentario, imbonitrice in tantissima pubblicità.
Woody Allen, autore cinematografico contemporaneo, in molti dei suoi film, mostra pienamente tutte le potenzialità: della voce fuori campo. In Zelig, ad esempio, Allen usa tutti gli strumenti della tradizionale consuetudine documentaristica, per raccontare e rendere verosimile un personaggio palesemente finto[99]. In questo film, l’uso dello strumento voce off richiama, lo stile e le tipologie proprie dei generi audiovisivi più comunemente associati alla cronaca e alla riproduzione della vita reale: la news e il documentario. In una delle prime sequenze della pellicola, il regista riunisce tutti gli elementi più noti e convenzionali che caratterizzano lo stile giornalistico di un pezzo di “colore”, realizzato con immagini di repertorio: le inquadrature inserite, cercano esplicitamente una simbiosi con il brano jazz scelto come accompagnamento musicale; il mix audio aspetta la fine dell'apertura musicale per dare il via allo speaker.
In un telegiornale un servizio come questo sarebbe collocato verso la chiusura, nella pagina dello spettacolo con l'intento di alleggerire lo spettatore dal peso delle notizie precedenti.
Saletta speak, insonorizzata per registrare la voce off
Il Ciak
Il ciak è una tavoletta di legno, munita di una asticella battente, su cui sono segnati i dati relativi al film in lavorazione, che si riprende all’inizio di ogni nuova scena. Lo scopo del Ciak è quello di sincronizzare il video con l’audio durante la fase del montaggio[100].
Il ciak nasce con l’avvento del cinema sonoro, quando la registrazione dell'audio veniva fatta mediante registratori a bobine in modo completamente svincolato dalla pellicola. Grazie a questo strumento, era possibile risolvere efficacemente il problema della sincronizzazione tra le immagini della pellicola e il sonoro del nastro magnetico durante la fase del montaggio[101]. Il funzionamento del ciak è molto semplice, è sufficiente posizionarlo davanti l'obiettivo della macchina da presa e far sbattere le due assicelle alcuni secondi prima dell'azione che si vuole riprendere; così durante la fase di montaggio, si avrà a disposizione la registrazione audio delle due assicelle che sbattono e la registrazione visiva delle due assicelle che si chiudono; in questo modo è possibile sincronizzare perfettamente le immagini con il sonoro.
Oggi, con l'aiuto dell'elettronica, esistono anche altri metodi per sincronizzare audio e immagini, per esempio l’utilizzo del time-code (orologio interno alla telecamera); pertanto il ciak potrebbe sembrare superato. Ma in realtà questo strumento risulta ancora molto utile e viene utilizzato nelle produzioni video/cinematografiche professionali, non tanto per sincronizzare audio e immagini, quanto per riconoscere le diverse scene durante il montaggio: il ciak riporta fondamentali indicazioni in merito alla scena che si sta riprendendo; questo modo permette in fase di montaggio, di ritrovare e riconoscere facilmente le scene buone e quelle da scartare[102].
Le informazioni del ciak vengono
riportati su un foglio di edizione, che diviene un punto di riferimento
fondamentale per regista e montatore. Osserviamo, in basso, un esempio
dettagliato di ciak con le varie voci di
riferimento.
Un esempio di ciak con le indicazioni di riferimento
Production Notes (Prod. No.) sono le note di produzione che saranno utili in fase di montaggio; esempio: "FL SEPPIA" per indicare che in fase di montaggio la scena deve essere filtrata con l'effetto seppia.
Date - indica la data in cui viene effettuata la ripresa.
Roll / Tape - indica il numero del rullo (o della cassetta) su cui è stata registrata la scena corrente.
Scene - indica il numero della scena.
Take - è un numero che indica quante volte è stata
ripresa la stessa scena;
esempio: il numero "1" indica la prima ripresa della scena X,
se la scena X fosse da rifare la seconda ripresa verrà indicata con il numero "2"
e così via.
Title - è il titolo del film per il quale si stanno effettuando le riprese.
Director - è il nome del regista.
Production Company (Prod. Co.) - è il nome della casa di produzione che finanzia il film.
Sound - indica il tipo di audio registrato durante la ripresa; esempio: "LIVE" indica che l'audio è in presa diretta.
Insieme al ciak , come suddetto, si utilizza anche un foglio di editing, dove vengono riportate le informazioni delle scene, delle riprese e quant'altro può essere utile per il montaggio. Osserviamo nella pagina seguente, un tipico foglio di editing (editing sheet) per riprese video.
Su questo foglio, la segretaria di edizione riporta: la
durata di ogni ripresa con i rispettivi codici temporali di inizio e di fine,
la riuscita o meno della ripresa video e audio ed eventuali note di produzione.
L’esito di ogni singola ripresa video
viene indicato nei seguenti modi:
BUONA - se la ripresa video è riuscita.
SCARTA - la ripresa video non è riuscita ed è da scartare.
RISERVA - la ripresa video viene tenuta di riserva.
Lo stesso procedimento vale per la riuscita della ripresa audio. Il fonico o la persona che si occupa del controllo audio, decide se la ripresa è buona oppure no usando le seguenti parole:
BUONA - se la ripresa audio è riuscita.
SCARTA - se la ripresa audio non è riuscita.
L'utilizzo del ciak e del foglio di editing per le produzioni video permettono di semplificare e velocizzare in modo considerevole il lavoro di post- produzione.
Capitolo VI
Progressi del montaggio
La moviola, apparve nelle sale di montaggio intorno al 1920 ma fu respinta da molti montatori dell'epoca, perché troppo costosa, rumorosa e perfino pericolosa (la pellicola era fatta di nitrato di cellulosa, una sostanza estremamente infiammabile) [104].
Rifiutata dall’industria cinematografica, la moviola venne offerta al pubblico come uno strumento per vedere i film amatoriali; a riscattarla, l’avvento del sonoro, nel 1927. Si è entrati così nell'era meccanica del montaggio, che lungo gli anni grazie all’elettronica si è arricchita di dispositivi sempre più pratici e veloci. Con gli anni novanta è subentrata l'era digitale, e il montaggio dei lavori audio-visivi viene eseguito fondamentalmente al computer. L’avvento del digitale, ha dato la possibilità di passare da un montaggio lineare (analogico) ad uno non lineare (digitale), ciò ha comportato un notevole risparmio di tempo, non essendo più necessario dover rimontare il video ex novo ad ogni nuova evenienza. Analogico e digitale, vocaboli che quasi per antitesi si accoppiano, rappresentano le due sponde di uno spartiacque nel campo delle tecnologie.
Il montaggio lineare avviene grazie ad un sistema di dispositivi analogici: centraline di montaggio, mixer video, mixer audio, titolatici, apparecchi di lettura e di registrazione. Questi strumenti s’interfacciano con monitor, videoregistratori e telecamere permettendo di lavorare in modo sequenziale il segnale video[106]. Il master è la macchina che raccoglie, cioè che registra in sequenza mentre le altre sono riproduttrici, di sola lettura. Il montatore tramite l’apposita centralina dei comandi, presenti nel mixer video, stabilisce il punto d’ingresso e uscita delle immagini da giuntare. Le centraline per il montaggio analogico, nonostante l’avvento del digitale, vengono attualmente impiegate in buona parte della produzione cinematografica e televisiva. In Italia, numerose reti televisive sfruttano il montaggio analogico sopratutto per le news, perché queste richiedono un tempo di lavorazione breve.
contrariamente al montaggio analogico, il montaggio non lineare permette di fare qualsiasi cambiamento nell'ordine delle inquadrature senza che questo influisca sul resto del materiale, perché garantisce un accesso casuale a quest'ultimo[107]. Quello che si crea effettivamente nel computer è qualcosa che viene chiamato un assemblaggio virtuale, le immagini in sé non vengono disturbate; tutto viene realizzato tramite i comandi del computer.
Con l'introduzione del montaggio digitale si sono
aperte una serie di possibilità assolutamente inedite per il regista ed il
montatore: l'intero materiale di ripresa è in qualche modo di fronte ad essi ed
è combinabile nei modi più diversi. Tutto ciò naturalmente vale anche per
l'audio, che una volta digitalizzato può essere sottoposto ad un processo di
mixaggio in relazione al montaggio video. Il montaggio digitale, avviene
tramite un processore (Pc o Mac) dotato di appositi software
di montaggio e di appropriate caratteristiche per l’acquisizione audio - video.
I programmi di montaggio digitale
possono essere molto diversi nei particolari che offrono. Infatti, tra quelli
utilizzati a livello professionale e quelli a livello amatoriale vi è una
profonda differenza di costi; tuttavia la concezione generale con cui sono
progettati è abbastanza simile; in entrambi si possono ritrovare gli stessi
elementi portanti come ad esempio il monitor di acquisizione, una
o più finestre a elenco in cui sono immagazzinate le clip, la timeline,
alcune finestre degli strumenti e il monitor di anteprima[108]. Tra i programmi di
montaggio più utilizzati: Avid, Adobe Premiere e Media 100.
Le immagini da montare, vengono acquisite tramite un lettore DV collegato al computer e salvate all’interno della cartella video, sottoforma di clip. Dopo l’acquisizione, le singole clip vengono trascinate tramite il mouse nell’area di lavoro, la timeline. Qui le immagini tramite gli appositi comandi, vengono virtualmente “tagliate” e “accostate” tra di loro. Inoltre è possibile applicare su ogni clip anche effetti cromatici e di movimento.
o Effetti cromatici: vengono utilizzati per regolare o modificare il colore, la luminosità o il contrasto dell’immagine;
o Effetti di movimento: consentono di cambiarne la velocità, la direzione, oppure di effettuare un fermo fotogramma (freeze frame) dell’immagine.
Montaggio
digitale su piattaforma windows Finestra lavoro- timeline
Capitolo VII
Durante i primi anni che caratterizzarono la nascita della televisione, i programmi televisivi venivano filmati e trasmessi in "tempo reale": in diretta. Il primo passo verso la registrazione televisiva avvenne nel 1956, quando l’azienda Ampex mise in commercio il registratore per stazioni televisive, Ampex VR-1000, che registrava immagini e suoni su nastro da 2 pollici; nel novembre dello stesso anno la CBS trasmise per la prima volta in differita un programma registrato[110].
Il nuovo sistema si diffuse rapidamente in quanto consentiva di preparare in anticipo programmi privi di errori e poi di trasmetterli nell’orario prescelto. Praticamente si cercò di creare la medesima possibilità di manipolazione delle immagini così come nel cinema. Il primo dispositivo, meccanico, per il montaggio televisivo risale al 1958, mentre il primo sistema di montaggio elettronico al 1961[111]. Un’evoluzione rapida che ha portato, in tempi recenti, al normale impiego di sofisticati apparati di editing gestiti dal calcolatore. Nella realizzazione dei prodotti televisivi, è possibile scegliere tra il sistema che utilizza lo studio nella sua complessità oppure quello simile alla tecnica cinematografica. Si tratta di: montaggio “in linea” e “fuori linea”.
Quando si effettua il montaggio in linea, le riprese vengono realizzate utilizzando un certo numero di telecamere, normalmente da tre a cinque, che riprendono contemporaneamente la scena: il regista dà gli stacchi al tecnico addetto al mixer video, tramite il quale si commuta il segnale delle camere sulla linea in uscita studio collegata al videoregistratore, seguendo una sceneggiatura dettagliata. Ma al minimo errore, sia di recitazione che di ripresa, l’intera sequenza viene rifatta da capo. Con questo sistema multicamera, le sequenze registrate a volte durano anche parecchi minuti e il loro assemblaggio può essere eseguito sugli stessi apparati professionali necessari alla registrazione del programma. In alcuni casi viene utilizzata anche la tecnica del premontaggio con la quale si mette “in fila”, sullo stesso nastro e nella sequenza che si prevede definitiva tutto il materiale valutato “buono” o “riserva” già in fase di registrazione. Con un successivo riversamento si esegue poi il montaggio vero e proprio: si ha una perdita di qualità tecnica, però risulta più agevole la ricerca e la scelta del materiale specie se la sua origine è da videocassetta. Mentre quando si ricorre alla tecnica cinematografica, la ripresa di una stessa scena viene ripetuta con una sola telecamera, in tempi diversi e da punti di vista differenti. In questo modo è possibile stabilire per ogni inquadratura la condizione di luce migliore ed una maggiore cura dei dettagli.
In questo caso verrà utilizzato il montaggio fuori linea: il materiale viene riversato su videocassette in standard semiprofessionale, (generalmente U-Matic) mettendo in sovrimpressione all’immagine il relativo codice temporale. Il regista, utilizzando questa “copia di lavorazione”, può stabilire la definitiva impostazione del programma e quindi compilare una tabella di editing segnando gli istanti esatti di commutazione delle scene. La fase successiva sarà il montaggio vero e proprio con apparati professionali gestiti da un calcolatore, nel quale verranno immessi tutti i riferimenti di codice temporale contenuti nella suddetta tabella.
Quello che nel cinema è un’ idea che prende vita
durante le riprese e si attua successivamente in montaggio, nello studio
televisivo è un hardware che determina tutta una qualità di produzione,
quella appunto della diretta televisiva multicamera: sia che si tratti
di una diretta reale o di una differita[112]. In tutte le situazioni
di ripresa televisiva (intervista in un programma d’informazione, dialogo
conduttore ospite, esibizione di una coppia di cantanti in un programma
musicale ecc.), lo studio viene
organizzato collocando le diverse
camere in modo da fornire l’opportuna differenziazione di piani.
La ripresa multicamera è stata introdotta nel cinema intorno agli anni ’30: veniva utilizzata da alcuni registi, per non interrompere sul set il naturale sviluppo della commedia[113]. La multicamera è dunque un’invenzione cinematografica; la televisione non ha fatto altro che aggiungervi la propria caratteristica specifica: la trasmissione in diretta. Per decenni, si è sempre pensato che la differenza tra cinema e televisione consistesse nel mezzo tecnico di ripresa: da una parte la pellicola e la cinepresa, dall'altra l'elettronica, la telecamera e il videoregistratore. Oggi, questi strumenti con l'aggiunta di quello informatico, convivono sempre più in una quantità di produzioni dalla tipologia diversissima, molti film ad esempio vengono girati con telecamere professionali, lavorate in digitale e infine nuovamente riversati in pellicola[114].
La vera differenza specifica tra cinema e televisione è la trasmissione in diretta. Diretta non significa eliminare il montaggio, ma inglobarlo nella fase di pre-produzione e produzione. Quando si lavora in diretta il montaggio viene realizzato contemporaneamente alla ripresa stessa, commutando col mixer video da un'inquadratura all'altra.
Tutto ciò porta a due conseguenze. In primo luogo, le scelte di montaggio vengono operate dal regista nel momento stesso della ripresa, sulla base di precedenti decisioni prese analizzando il copione; in secondo luogo, il tempo della ripresa coinciderà perfettamente con la durata dell'azione scenica, togliendo al montaggio qualsiasi possibilità di manipolazione della continuità temporale.
Per broadcast s'intende quel sistema dedicato ai network televisivi dove la qualità audio e video è assoluta. Un'altra definizione che si può abitualmente trovare per indicare la qualità del sistema broadcast è quella di “senza compromessi[115]”, che serve a spiegare nel miglior modo possibile come a questa realtà di produzione corrisponda sempre la più alta qualità disponibile su mercato. Conseguentemente anche le componenti strutturali (meccaniche, ottiche, parti elettroniche) sono al massimo dell'avanguardia tecnologica per consentire il miglior livello di resa visiva.
Con il termine professionale, si intende la categoria inferiore al broadcast. Ovviamente, essendo inferiore la qualità della resa, sarà differente anche il livello qualitativo dei macchinari a disposizione. Una produzione professionale di alto livello raggiunge comunque buoni risultati qualitativi, con un minor costo rispetto alla categoria broadcast, permettendo così di avere in mano degli audiovisivi concorrenziali, sul mercato documentaristico. Prima dell' avvento del digitale i formati video come il Betacam erano una prerogativa solo delle grandi emittenti, proprio per i suoi prezzi elevati. Oggi, invece, la situazione è differente.
Consumer è generalmente considerata quella categoria di prodotti a costo accessibile per uso amatoriale,VHS, Hi-8. Con l'avvento del digitale e di alcuni formati come il DV, queste differenze si sono approssimate in termini di qualità e di diminuzione di prezzo; ma il consumer difficilmente può accedere a livelli di qualità assoluta. La digitalizzazione dei supporti e la loro commutabilità ha comunque aperto degli interessanti spazi anche per la tecnologia consumer, specialmente se utilizzata in situazioni di emergenza o di grande difficoltà logistica. In questo caso, la cattiva resa dell'immagine può essere anche utilizzata in maniera espressiva, per sottolineare le difficoltà incontrate in sede di registrazione. La tecnologia consumer è molto usata per le trasmissioni alla real TV, ma anche in documentaristica, per eseguire quello che in gergo viene chiamato “footage file” : l'uso di filmati amatoriali all'interno di opere più complesse, quale testimonianza visiva dell'evento narrato[116].
I formati di registrazione attualmente in commercio sono i seguenti:
II sistema di registrazione a pellicola: 16 mm, 35 mm e 70 mm sono i formati tendenzialmente usati per produzioni cinematografiche o per spot televisivi. Per 16, 35 e 70 si intende la misura della diagonale di ogni fotogramma impresso su una pellicola (di tipo fotografico). Più questa diagonale è inferiore minore sarà la definizione dell'immagine e risulterà più evidente la grana della pellicola in ambito di visione[117]. Le pellicole cinematografiche per il loro sviluppo e trattamento hanno dei costi elevati e poco accessibili da strutture a low cost.
8 mm: Un formato quasi del tutto dimenticato. Spopolava negli anni Settanta sulle spiagge italiane e nei festini di compleanno prima dell'avvento dei supporti elettronici (VHS e Video8). Era la cinepresa amatoriale per antonomasia.
Betacam SP: (broadcast, professionale) standard di registrazione su nastro di video analogico; è tuttora lo standard di ripresa broadcast più diffuso. Molti documentari sono girati in Betacam, perché essendo un sistema diffuso si trovano facilmente le strutture di post produzione in grado di elaborare il girato fissato su questo genere di supporto.
Betacam SX: (broadcast, professionale) standard di registrazione su nastro video digitale. Utilizza la compressione audio video MPEG (Motion Picture Export Group); questo sistema si è sviluppato grazie anche all'avvento della televisione digitale di cui l'MPEG è divenuto lo standard di trasmissione. È molto probabile che la futura documentaristica on line possa avvalersi di questo formato[118].
DI, D2, D3 e D5: (broadcast) sono dei sistemi di registrazione in component e composito digitale lineare su nastro da 19 mm e 13 mm. Generalmente vengono usati solo per l'archiviazione o per la post-produzione.
Digital 8: (consumer) formato che registra in digitale sulle classiche cassette Hi-Band analogiche (come risoluzione dell'immagine e del suono è similare al DV).
Digital Betacam: (broadcast, professionale) è considerato secondo gli standard professionali uno dei migliori sistemi di registrazione in digitale.
Digital-S (professionale, consumer): sistema di registrazione digitale, generalmente chiamato mini DV.
DVCAM: (professionale) è la versione professionale dello standard DV, si differenzia soprattutto nella maggiore larghezza delle tracce e nella maggior velocità di scorrimento del nastro sulle testine. Per quanto riguarda la resa qualitativa dell'immagine è del tutto similare allo standard DV.
D-VHS: (professionale) evoluzione del VHS ma registra in digitale anziché in analogico.
DVCPro (professionale) come il DVCAM è la versione professionale del sistema DV; ma differenza del DVCAM ha una traccia più larga, il nastro è a particelle metalliche e la cassetta è leggermente più grande della mini DV.
DVCPro50: è una versione del DVCPro dove la velocità di scorrimento risulta raddoppiata per aumentare la capacità di immagazzinamento dati.
S-VHS: (professionale, consumer) detto Super VHS è simile al sistema VHS, con la differenza di una maggiore definizione.
VHS: (consumer) E’ il sistema di registrazione analogico consumer più diffuso al mondo. Utilizza un nastro magnetico e registra in formato composito. Oggi il sistema è in crisi, soppiantato dai lettori digitali.
Video-8: (consumer) sistema analogico su nastro da 8 mm simile, come qualità al VHS ma con una maggior risoluzione nella banda sonora. L'Hi-8 è una sua evoluzione con un miglioramento nella qualità dell'immagine.
Ad ogni supporto dunque corrisponde sia una macchina di ripresa che una macchina di lettura dell'informazione così registrata ed acquisita. La scelta del supporto, è strettamente connessa al tipo di videocamera che s’intende utilizzare nel corso delle riprese. In ambito broadcast e professionale, le variazioni tecnologiche non sono poi così evidenti: entrambe le realtà presentano strumentazioni di ripresa dotate di un corpo macchina, un obiettivo a ottiche intercambiabili ed un microfono, staccato dal corpo macchina, che consente una migliore definizione dell'audio, se a questo aggiungiamo la sensibile differenza qualitativa di ogni singola componente, abbiamo presto spiegato il perché delle differenze di prezzo tra una dotazione amatoriale ed una professionale.
Le Interviste
Intervistato: Roberto Faenza, regista
cinematografico
Palermo. 21/012005
D- Come definisce la tecnica del montaggio e quanto
pensa sia fondamentale nella ricostruzione di un film?
R- “Il montaggio è la seconda fase di fattura di un film; la prima fase comprende le riprese, la seconda il montaggio. Nella realizzazione di un film il montaggio è una fase molto importante ma anche la più bella. Perché, mentre le riprese creano sempre l’ansia di non sapere come verrà il prodotto finale, il tempo, gli attori, tutte le circostanze e le varianti possibili del giorno; il montaggio la pellicola è lì e quindi sai cosa hai in mano. Al tempo stesso il montaggio dà ritmo al film, donandogli quella fluidità e quella coerenza stilistica che le riprese da sole non riuscirebbero a dare. Quindi è la fase più bella, per me, quella più appassionante, quella che mi piace di più”.
D- Un film può essere ricostruito con diversi tipi di montaggio; c’è
un particolare modello che preferisce per la ricostruzione dei suoi film?
R- “Di solito scelgo un linguaggio tecnico che sfugga a soluzioni complicate, evito di inserire determinati effetti che spesso rischiano di appesantire il film. Preferisco un montaggio diretto che punta sulla semplicità in modo tale che i contenuti possano raggiungere immediatamente il fruitore”.
Intervistato:
Pippo Gigliorosso, telecineopreatore RAI e regista
Palermo.
28/04/2005
D- Successivamente alla
nascita del cinema, compaiono le prime bozze di montaggio una tecnica in
seguito inglobata anche nel meccanismo televisivo. Esiste secondo te una
differenza nell’utilizzo del montaggio tra il genere cinematografico e quello televisivo?
R- “Certo che esiste. In televisione il montaggio è estemporaneo in quanto lo specifico televisivo è proprio la diretta. Il regista televisivo sceglie l’inquadratura da mandare in onda, tra le tante proposte dai vari cameraman, in pochi secondi. Il susseguirsi di queste inquadrature danno origine ad un vero e proprio montaggio. Un montaggio in cui il tempo è reale. Nel cinema tempo e spazio sono ideali. In un’opera cinematografica il montaggio è pensato a priori. Roberto Rossellini diceva che un film si fa tre volte: quando si scrive, quando si gira e quando si monta”.
D- Nei documentari spesso
vengono inserite scene di fiction per rievocare determinati eventi, pensi che
questa introduzione possa inquinare la veridicità della narrazione?
R- “Fermo restando che la veridicità di un evento si può travisare montando anche immagini reali, non ci resta che affidarci alla buona fede del regista. A volte la ricostruzione di un evento realmente accaduto crea nello spettatore una maggiore emozione rispetto alle immagine reali. Altre volte invece le immagini reali di un avvenimento sono così forti che nessuna fiction può sostituire. Come in tutte le cose, bisogna trovare il giusto equilibrio”.
D- Quali secondo te i pregi
e i difetti del montaggio
R- “Io penso che esiste solo un buon montaggio o un cattivo montaggio. Il montaggio dei nostri giorni è frutto di una sperimentazione che dura da cent’anni. Oggi riusciamo a seguire una pubblicità di trenta secondi con quasi trenta inquadrature. Uno spettatore di cinquant’anni fa non avrebbe capito una mazza. Chi sa che tipo di montaggio avremo tra cent’anni? Comunque una cosa e certa: il montaggio è buono quando non si “vede”.
D- Cos’è fondamentale quando
si monta un prodotto audiovisivo?
R- “La chiarezza. Mettersi dalla parte dello spettatore”.
D- Per quanto riguarda
l’informazione audiovisiva, riprese e montaggio possono rivelarsi delle armi
manipolatrici della realtà sino a radicallizzarla?
R- Nel mondo dell’informazione la notizia e quasi sempre faziosa. In ogni caso non bisogna scandalizzarsi più di tanto. Basta sapere da quale parte viene. Il fatto grave è quando l’informazione è ingannevole. In fase di ripresa si può tranquillamente “falsificare” la realtà. Le tecniche sono tantissime e varie. Ad esempio: evitare di riprendere alcune scene oppure insistere su alcune immagini che danno una visione distorta dell’avvenimento o ancora intervistare solo persone che sostengono la tesi che si vuole dimostrare. In fase di montaggio si completa l’opera. Queste “sofisticate” armi manipolatrici sono in mano ai potenti. Un bel guaio”.
D- Quanto è fondamentale
nella realizzazione di un documentario la sceneggiatura e, quanto quest’ultima
è fondamentale per la realizzazione di un film di fiction?
R- “Parlo per esperienza personale. Penso che per girare un documentario non serve una vera e propria sceneggiatura (tranne per le parti di fiction). Sicuramente prima di iniziare le riprese bisogna avere le idee abbastanza chiare. La cosa più importante è riuscire a trovare la giusta chiave di lettura perché una storia si può raccontare in tanti modi rischiando anche di cadere nel banale e nello scontato. In un’opera cinematografica la sceneggiatura è la base su cui si fonda un film”.
D- Se dovessi racchiudere la
tecnica del montaggio in una frase come la definiresti?
R- “La stanza dove prendono forma i sogni”.
Intervistato: Roberto Macelloni, documentarista
Palermo. 21/01/2005
D- Quale, il ruolo del montaggio nel campo della
documentazione audiovisiva?
R- “Il montaggio è fondamentale principalmente nei documentari, perché quando vengono girati spesso non hanno una struttura né una sceneggiatura precisa; si costruiscono dopo cioè mettendo insieme i pezzi che sono sparsi e quindi grazie al montaggio. Per cui lavorare al montaggio è nello stesso tempo molto bello, molto difficile e faticosissimo; occorre avere una grande lucidità, che spesso viene sconvolta dalla quantità di materiale girato o dal seguire un filo che poi si rivela sbagliato. Io, nei miei documentari curo la regia e spesso realizzo anche il montaggio e devo dire che è una cosa che mi coinvolge moltissimo”.
D - Nel tuo ultimo documentario: L’uomo che sparava
dritto , che narra la storia di Padre Pugliesi, hai inserito numerose scene
di fiction, quale in questo caso il percorso seguito?
R - “L’uomo che sparava dritto è in realtà un audiovisivo un po’ ibrido che sta a metà tra un dietro le quinte e un documentario autonomo, cioè una via di mezzo.
Questa integrazione aiuta in un certo senso, perché la struttura del lavoro è data dalla struttura del film, quindi si segue il film e si cerca di aprire delle parentesi o di andare in qualche direzione suggerita dal film.
Ho seguito queste due strade parallele, quella del film del racconto del film e quella di un racconto autonomo che ho cercato di realizzare ripercorrendo i luoghi e cercando le persone coinvolte in qualche modo nella vicenda; sono due strade parallele che comunque si incrociano ed hanno molte cose in comune”.
D- Cosa pensi dell’uso di dissolvenze o di effetti
speciali all’interno di un audiovisivo?
R- “In merito non ho una buona opinione, sono comunque degli effetti non naturali, se usati eccessivamente rischiano di rovinare la fluidità del racconto”.
Se dovessi
racchiudere la tecnica del montaggio in una frase, come la definiresti?
“Metà dell’opera visiva o cinematografica in generale, l’atra metà quella che serve per fare il montaggio, sono le riprese”.
Intervistato: Marco Sacchi, telecineoperatore RAI
Palermo. 20/04/2005
D- “La parola più consueta, messa al posto giusto
assume un improvviso splendore. E’ di questo splendore che devono brillare le
tue
immagini.” Con questa metafora Robert Bresson definisce
la tecnica del montaggio, ma affinché le immagini posano brillare, non è sufficiente, solo un corretto montaggio.
Fondamentale è il modo in cui vengono effettuate le riprese. Perché?
R- “Come, spero ricorderai, ho
spesso paragonato il filmare al parlare, allo scrivere. Un linguaggio con tutta
la sua grammatica e le sue regole. La frase di Robert Bresson non mi stupisce,
anzi conferma ciò che ho sempre sostenuto.
E’ chiaro che
delle immagini ben fatte e, soprattutto, attinenti al tema del servizio siano
indispensabili per il buon esito del prodotto.
Negli ultimi anni, con l’avvento della tecnologia digitale e quindi con
i montaggi fuori linea, si è avuto un aumentare notevolissimo nell’applicazione
di manipolazioni delle immagini. Riprese certamente di qualità mediocre, se non
scadente, una volta manipolate, risultano di un certo impatto.
Se questa tecnica ha certamente aperto nuovi campi di
espressione, purtroppo è stata
contemporaneamente oggetto di un abuso notevole. Si è tentato in ogni
maniera di utilizzare riprese impresentabili, di manipolare inutilmente
immagini fuori dal contesto, spesso solo per un vorticoso ricorso alla
tecnologia fine a se stessa. Mi ricorda un po’ l’inutile utilizzo dello zoom,
una novità ai tempi, nei film degli anni
’70, quasi scomparso negli anni successivi.
In conclusione, per realizzare un buon prodotto certamente delle buone
immagini sono essenziali, soprattutto sono indispensabili immagini mirate a ciò
che si vuole esprimere”.
D- Per quanto riguarda
l’informazione televisiva, possono le
riprese audiovisive e il montaggio rivelarsi delle armi a favore della manipolazione
dell’informazione?
R- “Assolutamente sì. Attenzione però. L’informazione è nata con
la disinformazione. Il manipolare la “realtà” non è certamente una prerogativa
della TV, anzi… E’ certamente più facile
“mentire” su un giornale, tralasciando, travisando o riportando parte delle
interviste, piuttosto che alla televisione. D’altro canto quello che si vede è,
quello che non si vede non esiste. Per questo il piccolo schermo ha un potere
immensamente superiore agli altri mezzi di informazione. Tutto è rimesso nelle
mani degli operatori dell’informazione, alla loro professionalità, alla loro
serietà, alla loro bravura e perché no, alla loro umanità”.
D- Quale il rapporto delle
riprese audiovisive con la realtà?
R- “Con la risposta precedente ho già, in parte, risposto.
Particolarmente interessante è vedere come nascono certe notizie. Il
telecineoperatore (farò una petizione per cambiare questa ignobile definizione)
gira le immagini di un avvenimento con una sua interpretazione e sottolineando
ciò che ritiene più interessante. Molto spesso è l’unico giornalista (se è un giornalista)
sul posto. Il redattore, se presente, vive ed interpreta l’accaduto con suoi
parametri, con le sue sensazioni. Il tutto è chiuso dallo stesso redattore coniugando le immagini, i suoi appunti e le
notizie rilevate dalle agenzie con la mediazione di un montatore che non è
messo in condizioni di valutare ciò che è accaduto. Altre volte e non
raramente, il montatore è da solo ed è lui che chiude il servizio con la sola
direttiva di unire immagini ad un testo. Alla faccia della correttezza giornalistica”.
D- Quanto nella realizzazione di un documentario, è
fondamentale la sceneggiatura o il montaggio a priori?
R- “Tutti i documentaristi sognano di poter seguire
pedissequamente la sceneggiatura per realizzare un cortometraggio. Purtroppo
raramente ciò si realizza. Documentario è, appunto, documentare un avvenimento,
quindi seguirne i momenti e carpirne la storia e questo lo si può fare
solamente seguendo nel luogo, con i tempi e le condizioni che questo impone. E’
chiaro che in alcuni casi, come documentari su opere d’arte, con attori o di
ricerca storica su immagini di repertorio, il metodo cambia, ed il lavoro più
importante è realizzato a tavolino.
Comunque ne
corre tra il girare senza sceneggiatura ed il girare senza idee. Proprio perché
non si segue un’indicazione scritta e ferrea bisogna muoversi su un’idea
altrettanto decisa. Sarebbe impossibile o estremamente dispendioso, riprendere
per ore ed ore sperando, poi di tirarne fuori qualcosa di decente grazie al
montaggio. Insomma anche senza una precisa sceneggiatura bisogna seguire in
maniera drastica un piano di lavorazione che coincida il più possibile con la
propria idea iniziale del soggetto da realizzare. Solo sul campo, ed in maniera
ponderata, pensando sempre al prodotto finale, si potrà modificare anche l’idea
iniziale”.
Conclusioni
Dopo aver analizzato il montaggio audiovisivo nelle sue diverse sfaccettature, risulta evidente quanto esso sia importante per costruire il significato di una comunicazione audiovisiva. Esso ne definisce la forma e il ritmo utilizzando convenzioni e strumenti che sono stati sviluppati e che vengono continuamente aggiornati nel medesimo quotidiano lavoro di montaggio.
Porre l’accento su questa evoluzione è assolutamente necessario perché oggi come non mai, nel campo della produzione audiovisiva prendono sempre più piede nuove modalità e nuovi strumenti di post produzione. Si pensi infatti alla rapida evoluzione che ha trasformato quella reale operazione del “taglio” e “cucito” in una tecnica del tutto digitale.
Attraverso le ricerche e gli studi effettuati, possiamo ritenere il montaggio sia una tecnica sperimentale che si arricchisce giorno dopo giorno di nuovi input, che una tecnica in un certo senso interattiva, dove la giusta mistura degli elementi è data dalla capacità del montatore di “sapere ascoltare” quello che hanno da dirgli le inquadrature.
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[62] Alessandro Cecchi Pavone, Immagini dal mondo, storia, teoria e tecnica del documentario, UTET, Torino, 2004
[63]Cit: Francois Truffaut, taratta da: I telegiornali, istruzioni per l’uso, Omar Calabrese, Ugo Volli, Laterza
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