Odori e sapori
di Giuseppe Rocca

a cura di Paola Musarra

No, Paola, non mi disturba affatto la tua lettura del mio film. Anzi, mi ha molto divertito la frase del babà nel rhum. In una "motivazione artistica", che il Ministero ci aveva chiesto di accludere alla documentazione, motivavo la scelta di non usare gli studi di Cinecittà con queste parole:

Questo film si negherà molte cose. Innanzitutto la comodità degli studi, dove si guida come sulle autostrade: non ti troverai mai in mezzo a un gregge di pecore, lí, ma i formaggi tipici degli autogrill odorano sempre di supermercato.
E allora si faranno locations a lume di naso, per cosí dire: si fiuterà un paese dove si senta ancora odore di formaggio (o di qualunque altra buona cosa: vanno bene anche le puzze, purché non vengano da un tubo di scappamento).

Bene. Mentre stavamo girando, il direttore della fotografia (che non aveva letto la mia "motivazione artistica") mi disse: "Questo paese odora di formaggio", perché lí si vedono ancora donne che al mercato o anche fuori casa, mettono su una sedia una cesta con dei formaggi alle erbe fatti da loro e li vendono.

Anche dopo il film molti mi hanno detto che hanno sentito gli odori di una volta e io stesso ho ancora nel naso il buon profumo del laboratorio di Suor Agnella, che avevamo riempito di mazzi di lavanda, di origano, alloro, rosmarino e semi di ogni tipo.

Tu adesso aggiungi anche il profumo del babà e questo mi fa molto piacere.

Per essere veramente sincero, però, devo dire anche questo. Come andavo avanti nel lavoro, si faceva strada un bisogno imprevisto, che andava ad aggiungersi a questa iniziale volontà di coinvolgimento.

Mi sentivo spinto in senso opposto, mi convincevo che dovevo distanziare, accettare che il passato era passato, irrimediabilmente, che "l’anno vecchio se ne va e mai piú... mai piú ritornerà".

E' per questo che ho voluto cambiare il titolo. "Lontano in fondo agli occhi" mi pareva piú giusto: lontana è quell’Italia, lontane quelle persone e lontana (o forse sola) è anche l’immagine che ritrovi nell’occhio dell’altro.

Come ricorderai, nel film il bambino è attratto dal riflesso che vede nelle pupille della madre prima e di Rafilina (la servetta) dopo. Si sentirà, a un certo punto, anche una battuta, nella quale si riferisce l’idea platonica dell’amore: quando guardiamo un altro, vediamo nei suoi occhi la nostra stessa immagine.

Ma ecco: nell’altro vediamo e cerchiamo noi stessi. E l’altro? Quando lo incontriamo veramente?

Questo gioco continuo di cercare e di perdere (il passato, le persone, i ricordi) ho voluto ridarlo nel film con la divaricazione fra immagini e musica: le prime si sforzano di allontanare, l’altra fa sentire il dolore della perdita.

Con il musicista, Pasquale Scialò, abbiamo a lungo parlato di asincronismo, di divaricazione, di un rapporto non illustrativo fra azione e commento musicale.

Così come Antonio Grambone, il direttore della fotografia ha cercato di "invecchiare" i colori con un procedimento tecnico particolare, ma anche di illuminare con una luce palpitante, direi commossa.

Sono particolarmente grato a tutti e due: non sono stati dei collaboratori, ma dei veri e propri coautori, di rara intelligenza e sottile sensibilità.

Non so, Paola, se anche qui ritrovi quello che a te piace chiamare (e la cosa mi lusinga) il "modellato fine". Se lo ritrovi, il merito questa volta, è, in uguale misura, di Pasquale Scialò e Antonio Grambone.

Che altro dirti? Forse qualcosa su quel buco rotondo, che tu hai citato. E' una cosa che mi preme. La vera distanziazione dell'autobiografia...

disegni (storyboard) di Giuseppe Rocca

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