I RACCONTI DI CANTERBURY dalla Tesi di laurea di Fabio Frangini

1. Pasolini e Chaucer.

“Ho raccontato queste storie solamente per il piacere di raccontarle. Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per la ricostruzione di un periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore.” [159]

I ventinove pellegrini che Chaucer immagina di incontrare alla Tabard Inn di Southwark sono uno specchio fedele, nella varietà policroma delle attitudini e dei mestieri, della società Inglese della fine del XIV secolo. I rappresentanti di tutte le classi sociali, eccettuate la nobiltà e il proletariato contadino, si ritrovano attorno ad una stessa tavola in procinto di partire per il reliquiario di Thomas Becket a Canterbury; l'occasione “carnevalesca” del pellegrinaggio - così come la fuga da Firenze dell'«allegra brigata» - enfatizzata dall'atmosfera conviviale in cui si intrecciano e si contrappongono i dialoghi e i racconti, permette - con l'allentarsi dei vincoli sociali ed economici - il libero sovrapporsi del comico sul serio, del linguaggio alto su quello triviale, dell'eroico sul parodico, eccetera. Infatti, i Canterbury Tales, oltre ad essere l'affresco multiforme e fedele di un mondo a cavallo di due epoche, carico di fermenti innovatori così come di eredità imprescindibili, sono anche un repertorio esaustivo delle forme narrative più disparate: dal racconto comico e dalla farsa salace del fabliau fino al romanzo cortese (rovesciato, a sua volta, nella parodia di se stesso) e poi il lai bretone, l'exemplum, l'apologo, la favola animalesca, le leggende dei santi ed, infine, l'omelia sui peccati capitali del Racconto del parroco.

In questa galleria compendiaria di tutta la narrativa medioevale europea Pasolini opera la sua scelta. E sceglie in maniera analoga a quanto aveva fatto nei riguardi del Decamerone; cioè privilegiando quasi esclusivamente la narrazione sapida e immediata dei fabliaux e l'ambientazione popolare che li contraddistingue. Ancora una volta, dunque, il regista ritaglia un “suo” Chaucer, escludendo quanto non contribuisca al recupero della “corporalità popolare” vissuta nella sua autenticità. Ma mentre i personaggi di Chaucer, anche nel più piccolo particolare realistico (molto spesso mutuato dalla fisiognomica o dai lapidari e dai bestiari, e quindi frutto di erudita codificazione più che di freschezza realistica [160] ), rimandano ad un sistema di significati e convenzioni colto nel vivo della società inglese in cui lo scrittore viveva; il realismo di Pasolini non può che essere “ontologico”, perché slontanato al di là di ogni stratificazione e significazione storica; un “realismo cieco”, dunque, che non allude a nient'altro che a se stesso, alla propria presenza e alla propria fisicità.

Ma in questa operazione di inclusione ed esclusione Pasolini non può certamente prescindere in maniera assoluta da quelle che sono le caratteristiche peculiari di Chaucer, dei Canterbury Tales, dell'epoca e del contesto socio-culturale a cui appartengono.

“Chaucer si colloca a cavallo fra due epoche. Ha qualcosa di medievale, di gotico: la metafisica della morte. Ma spesso si ha l'impressione di leggere un autore come Shakespeare o Rabelais o Cervantes. È un realista, ma è anche un moralista e un pedante, e inoltre mostra straordinarie intuizioni. Ha ancora un piede nel Medioevo, ma non è uno del popolo, anche se raccoglie i suoi racconti dal patrimonio popolare. In sostanza, è già un borghese. Guarda già alla rivoluzione protestante e perfino alla rivoluzione liberale, nella misura in cui i due fenomeni si combineranno in Cromwell. Ma mentre Boccaccio, che era pure un borghese, aveva la coscienza tranquilla, con Chaucer si avverte già una sensazione sgradevole, una coscienza turbata e infelice.

Chaucer presagisce tutte le vittorie, tutti i trionfi della borghesia, ma ne presente anche il marciume. È un moralista, ma dotato anche del senso dell'ironia.” [161]

Un sintomo della “coscienza turbata e infelice”, e quindi del moralismo, di Chaucer potrebbe essere ritrovato nella tematica ricorrente dell'oro come fonte di corruzione corporale e spirituale; si consideri, ad esempio, l'omologia tra denaro e fecalità nel Racconto dell'Apparitore [162] o, più esplicitamente, tra denaro e morte in quello dell'Indulgenziere. Questa tematica era del tutto assente in Boccaccio e nella sua esaltazione (per quanto retrospettiva) dei valori della mercatura appartenenti al “periodo d'oro” della rinascenza medievale. L'epoca di Chaucer, invece, può essere espressa, significativamente, dal duplice segno del movimento protoriformatore di John Wycliffe e del fallimento della rivolta contadina guidata da Wat Tyler e John Ball [163] ; ovvero, come dice Pasolini, dal presentarsi, in germe, di quelle problematiche che faranno da sfondo alle tappe successive della progressiva “presa di coscienza” (e quindi “presa di potere”) della classe borghese.

Accompagnata a queste “straordinarie intuizioni” sulla rivoluzione borghese, però, ritroviamo in Chaucer una componente ancora legata al medioevo e al suo immaginario “gotico”, cioè quella che Pasolini definisce (un po' ambiguamente) come “metafisica della morte”, ma che in realtà deve essere intesa come compresenza di allegoria e di profondo realismo nella rappresentazione della stessa. Infatti, in un'altra intervista del periodo, Pasolini chiariva il concetto dicendo:

“La morte, l'aldilà, è sempre presente; una morte, però, medievale, quindi profondamente allegorica e allo stesso momento volgare fino all'abiezione” [164]

Questa presenza della morte percorre, in un certo senso, tutte le novelle scelte da Pasolini, ma risulta evidente nel Racconto del Frate e, soprattutto, in quello dell'Indulgenziere, dove “la Morte” è addirittura il personaggio cercato dai tre giovani per vendicare l'amico.

Nel Decameron, come si è visto, Pasolini aveva sostituito il fiorentino trecentesco di Boccaccio con la “materia viva e incandescente” del parlato contemporaneo napoletano e campano; nel caso de I racconti di Canterbury la scelta della lingua da usare fu abbastanza simile:

“Certo non potevo usare l'inglese di Chaucer, per cui ho fatto ricorso al più semplice vernacolo possibile, con alcuni elementi dialettali. Mi sono servito delle parole di Chaucer, ma le ho tradotte in un idioma moderno. Ad esempio, nel Racconto del venditore di indulgenze, che è quello sui tre ragazzi ai margini della società, che vivono di espedienti e così via, i tre ragazzi li ho trovati per strada. Per puro caso, erano tutti e tre scozzesi, per cui parleranno con l'accento scozzese. Girerò il Racconto del Cuoco, la storia di Peterkin o Pietruzzo, nei docks di Londra, e in questo episodio si parlerà in cockney, nel tipico dialetto londinese. (...) E poi, quando mi sono trovato giù vicino a Bath, e a Wells, il modo di parlare di quella gente mi è piaciuto moltissimo, e quindi in qualche brano userò l'accento del Somerset. Io mi servo della lingua viva, mettendo insieme i più disparati dialetti.” [165]

Dunque, ancora una volta, Pasolini sceglie di sovrapporre all'opera letteraria non un linguaggio arcaizzante frutto di una ricerca erudita, ma “la lingua viva” delle classi popolari, parlata dagli attori non professionisti scelti, letteralmente, dalla strada e chiamati ad interpretare i personaggi chauceriani prestando ciò che rimane di non ancora “colonizzato dal potere”: il corpo e, come si è appena visto, il dialetto.

Naturalmente, però, questa ricchezza linguistica non può essere mantenuta nel doppiaggio in italiano, che, pur non essendo accademicamente irreprensibile [166] , risulta privo di particolari inflessioni vernacolari; ad eccezione del Racconto del Fattore, dove Pasolini fa parlare ai due studenti un italiano con un'evidente calata bergamasca.

2. Il Film

2.0. La struttura

I racconti scelti da Pasolini per il suo film sono in tutto otto; anche se, in realtà, gli ultimi due episodi sono tratti, rispettivamente, dal Racconto dell'Apparitore (o del cursore) e dal Prologo al racconto stesso.

I Canterbury Tales, invece, sono costituiti da ventiquattro racconti (più un prologo generale all'inizio dell'opera), solitamente preceduti da un'introduzione, nella quale il novellatore di turno viene invitato a parlare (generalmente dall'Oste) o si impone forzatamente all'attenzione generale. Nei Tales vi è - a differenza del Decamerone, suddiviso nelle idilliache giornate vissute dall'«allegra brigata» - un susseguirsi continuo dei racconti fatti dai pellegrini, senza che sia stato fissato alcun tema o senza alcun ordine preciso [167] , ma con novelle spesso collegate fra di loro per opposizione o consonanza; infatti, la cornice chauceriana – formata dai prologhi (e dagli epiloghi) ai singoli racconti – non vive dell'atmosfera rarefatta e “separata” presente nell'opera boccacciana, ma è inglobata anch'essa nella multiforme rappresentazione del mondo appartenente ai racconti che introduce e scandisce. Le azioni, i dialoghi e i diverbi fra i pellegrini, dunque, diventano anch'essi materia di racconto e, in secondo luogo, “generano” racconto, perché può capitare che una novella sia la “risposta” risentita o il “controcanto” parodico di una novella precedente, in modo tale da creare, all'interno della cornice, una fitta trama di corrispondenze e richiami [168] .

Anche nel caso dei Racconti di Canterbury Pasolini abolisce quasi completamente la cornice presente nell'originale. Infatti i pellegrini compaiono (e parlano) solamente nel lungo prologo; quando, all'inizio del viaggio, vengono invitati dall'Oste a raccontare, a turno, una storia. Poi non si rivedono più; se non in un breve intermezzo mentre dormono, e alla fine, quando si inginocchiano davanti alla cattedrale del loro pellegrinaggio.

I racconti sono scanditi, invece, da brevi intermezzi con Pasolini-Chaucer; ma, mentre nel Decameron le sequenze inserite fra le singole storie appartenevano a due episodi più grandi (quello di Ciappelletto e quello dell'Allievo di Giotto) che caratterizzavano il primo e il secondo tempo; nei Racconti di Canterbury questi intermezzi sono poco più che degli sketch, delle notazioni, non appartenendo ad una storia coerente di ampio respiro. Più che di cornice, dunque (essendo scomparso “l'atto del raccontare” dei pellegrini e il gioco dei rimandi e dei contrasti tra racconto e racconto), si può parlare di parentesi, di inciso, che non caratterizza e quasi nemmeno introduce gli episodi (a differenza del Decameron), ma si limita a romperne, commentandolo, il flusso continuo.

La struttura generale del film può essere riassunta in questo modo:

          I.      Prologo generale

(Partenza dei pellegrini)

       II.      Racconto del Mercante [169]

     III.      Racconto del Frate

    IV.      Chaucer [170] I

       V.      Racconto del Cuoco

    VI.      Chaucer II

  VII.      Racconto del Mugnaio

  VIII.      Racconto della Donna di Bath [171]

    IX.      Racconto del Fattore

       X.      Chaucer III

    XI.      Racconto dell'Indulgenziere

  XII.      Racconto dell'Apparitore

  XIII.      Prologo dell'Apparitore

  XIV.      Epilogo generale (Chaucer IV)

(I pellegrini arrivano a Canterbury)

 

 2.1. Prologo generale

“Quando aprile con le dolci pioggette ha penetrata fino alle radici l'arsura di marzo e adacquata ogni vena dell'umore dalla cui virtù s'ingenerano i fiori: quando zefiro pure col molle suo soffio ingemma i teneri germogli in ogni bosco e brughiera, e il giovane sole ha percorso il suo mezzo tragitto in Ariete e fan melodia gli uccelletti che dormon la notte con occhi socchiusi, tanto li punge in cuore la natura, allor brama la gente d'andar pellegrina e i palmieri di cercare strani lidi e santuari lontani in fama per contrade diverse, e specialmente dai margini estremi d'ogni contea d'Inghilterra s'avviano verso Canterbury per visitare il santo martire benedetto che li soccorse durante le loro infermità”

Questo è il famoso incipit dei Canterbury Tales, in cui viene introdotto, nel risorgere panico della natura, il motivo del pellegrinaggio riconoscente verso una meta salvifica; in modo che al nuovo fremito vitale che percorre la stagione corrisponde il viaggio visto come elevazione morale, come purificazione (si ricordi il lungo sermone sui peccati capitali che conclude l'opera). A questo incipit Chaucer fa seguire la rassegna dei ritratti dei ventinove pellegrini della Tabard Inn, per poi presentare la proposta, fatta dall'Oste, di raccontare delle storie lungo il cammino.

I racconti di Canterbury di Pasolini, invece, si aprono calati direttamente all'interno di un “brulichio puramente esistenziale” fatto di risate, urla vivaci, e canzoni sguaiate; infatti (come già nel Decameron) la colonna audio dei titoli di testa è costituita da un vociare confuso in presa diretta, su cui si innesta una canzone popolare in lingua inglese. A questa canzone risponde, subito dopo i titoli, “Fenesta ca' lucive” cantata con accento inglese dall'Indulgenziere nello spiazzo vicino alla locanda.

Per la terza volta in un film di Pasolini (dopo il Decameron e, molto più lontano nel tempo, in Accattone [172] ) si ha la riproposizione di questa canzone popolare napoletana; e, ancora una volta, questa canzone (che già di per sé ha un testo “funerario”) viene accostata al fondamentale ed imprescindibile tema pasoliniano della morte. Infatti sarà proprio l'Indulgenziere colui che racconterà la storia dei tre giovani scapestrati che partono alla ricerca del ladro chiamato “la Morte”, per poi uccidersi a vicenda. Si può dire, dunque, che come i Tales di Chaucer si aprono alla vita rinnovata di un aprile rugiadoso, così i Racconti pasoliniani hanno impressa su di sé, sin dall'inizio, l'irresistibile vocazione alla morte [173] .

A conferma di quanto ho appena detto, cioè dell'intenzione di Pasolini di imprimere un segno diverso al suo incipit, si può aggiungere che, nell'originale, il “gentil Indulgenziere di Roncisvalle” cantava, assieme all'Apparitore, una canzone di tutt'altro argomento: “Vieni mio amore, vieni a me [174] .

Subito dopo, con la canzone dell'Indulgenziere in sottofondo, è collocata la scena della lotta del Mugnaio che riesce a vincere il capretto in palio. Questa lotta, nella sua greve fisicità (il corpo rudemente massiccio del Mugnaio, il bacio smanioso dato al capretto della vincita), può essere un'ulteriore chiave interpretativa del film, un suo ulteriore sigillo; cioè alla tematica della morte si associa quella (complementare) della corporalità, si potrebbe dire, “volgare fino all'abiezione” che rende la “medievalità” della morte allegorica di cui si è già parlato.

Un segno ancor più esplicito della poetica pasoliniana attorno al film si delinea nella scena seguente, dove è collocato il piccolo sketch tra Chaucer e il Cuoco che cozzano il naso uno contro l'altro nel passare sotto una porta. Più specificatamente mi riferisco alla risposta del Cuoco alle scuse di Chaucer:

Chaucer: [...] avete una mazza al posto del naso! (Il Cuoco ci rimane male) scherzo scherzo... spero di non avervi offeso, ho veramente scherzato.

Cuoco: Eh però, tra scherzi e giochi grandi verità si possono dire!

La frase è stata ripresa fedelmente dai Canterbury Tales, dove è pronunciata dall'Oste nel Prologo del racconto del Cuoco, ma con un senso ampiamente differente; infatti mentre nel film di Pasolini la frase, isolata dal resto, rimane sospesa ambiguamente tra il detto gnomico e la profezia; in Chaucer ha la più chiara e semplice intenzione di invitare il Cuoco, dopo alcune sapide frecciate sarcastiche, a raccontare la propria storia:

«(...) Nondimeno, per favore, non t'adirare di scherzi: tra scherzi e giochi gran verità si possono dire».

Questo peso diverso che ha la frase in Pasolini rispetto a Chaucer, e il fatto che sia citata in presenza dello stesso regista nei panni dello scrittore trecentesco, contribuisce ad aumentare l'impressione di trovarsi di fronte ad una espressione metafilmica che, a dir la verità, risulta un po' indebolita, rispetto agli altri “segni di poetica”, proprio dal suo palese carattere programmatico e dal suo “porgersi” all'attenzione e all'intelligenza dello spettatore. Molto spesso, infatti, proprio in virtù della sua allusività ma anche della sua genericità compendiaria, la frase è stata posta, in varie occasioni e da vari critici, come epigrafe ai Racconti di Canterbury e alla Trilogia della vita.

Ritornano nei Racconti, inoltre, alcuni elementi già ravvisati nel Decameron e che possono essere considerati, a pieno diritto, come una sorta di basso continuo in tutta la Trilogia [175] . Mi riferisco, nel caso di questo Prologo generale, ai campi medi che ritraggono - mentre la Donna di Bath fa erompere la sua logorrea senza argini - la folla fuori dalla locanda: le corse, i giochi sullo spiazzo fangoso, le oche che fuggono rapide, riprendono, ancora una volta, gli accenti bruegheliani che si erano notati, ad esempio, nelle scene delle nozze di Zita Carapresa nell'episodio di donno Gianni. Oppure si potrebbe citare il carattere conviviale delle scene all'interno della locanda che ricorda quello del brindisi finale dell'episodio dell'Allievo di Giotto, sia per la presenza di Pasolini (anche qui «diverso» in mezzo a tanti «simili») sia per l'allegro mescolarsi di voci e calici; oppure, ancora, l'invito fatto dall'Oste al racconto e al godimento derivato dal racconto (si notino i garzoni con i vassoi pieni di cibo alle spalle dell'Oste che fa la sua proposta) che non può che rammentare (anche per il montaggio a scatto che segue immediatamente sul Racconto del Mercante) i molti inviti al racconto che compaiono nel Fiore delle Mille e una notte.

2.2. Racconto del Mercante

Nei Canterbury Tales il Racconto del Mercante segue la novella sulla sottomissione e sulle virtù femminili del Racconto del chierico di Oxford con il chiaro intento di contrapporre al ritratto ideale di Griselda la trattazione di quali “astuzie e imbrogli si trovano in femmina” sulla scorta dei classici della letteratura misogina. Ma a placare e a ironizzare l'estro antimuliebre interviene l'altrettanto classico tema dell'unione oscena tra la vecchiaia e la giovinezza in fiore:

Quando la tenera giovinezza va sposa alla ricurva vecchiaia, è un'allegria così grande, che non si può descrivere: provatelo, e v'accorgerete se in un argomento come questo, io dico bugie o no.

In Pasolini il contrasto tra vecchiaia e giovinezza si radicalizza e acquista nuove valenze liberandosi del tutto dal fardello della riprensione moralistica (benché ironica) del tradimento e dell'adulterio. Questa radicalizzazione è evidente nel ritratto sovraccarico e manieristicamente grottesco di Gennaio (interpretato, non a caso, da un attore professionista, Hugh Griffith) che stravolge il volto nelle più laide espressioni della smania carnale o del trionfo del possesso. Al ritratto di Gennaio si oppone, naturalmente, quello di Maggio; ai broccati delle vesti sfarzose della corte dell'anziano cavaliere risponde la snella nudità della ragazza finalmente libera dalla costrizione dell'abito nuziale; alla vanagloriosa e ridicola verbosità del primo rispondono le linguacce e le risate spontanee della giovane sposa; la sessualità greve del vecchio che si accanisce lubricamente sulla carne è rovesciata nello smanioso ed incontenibile appagamento dei due giovani sopra il gelso [176] , eccetera.

Il contrasto di cui si è parlato, dunque, può essere considerato anche come opposizione tra la spontaneità e l'insopprimibilità del desiderio di fronte all'irrealtà coercitiva del potere e della costrizione sociale. Da una parte, infatti, si trova Gennaio, che vive nel suo palazzo imponente, attorniato da armigeri caricaturali con elmi ed alabarde sproporzionate, sovraccaricato dalle vesti lussuose e dai vani cerimoniali della sua corte ossequiosa e compiacente, eccetera; la “parte di Maggio”, invece, è quella della folla, del mercato chiassoso (non a caso collocato in uno scorcio di quartiere operaio dickensiano) dove un bambino, in mezzo ai cesti e ai panieri, scopre per gioco il sedere della ragazza. Si pensi, inoltre, alle parole (assenti in Chaucer) che dice Gennaio la prima notte di nozze mentre Maggio cede di malavoglia ai suoi assalti: ”Noi abbiamo la legge di Dio e degli uomini dalla nostra parte”; oppure al gesto che fa il vecchio, diventato improvvisamente cieco, quando stringe rapacemente il braccio della ragazza per tenerla legata a sé. Si confrontino, dunque, queste parole e questi gesti coattivi con il primo sguardo che si scambiano i due giovani al banchetto, quando Maggio dal tavolo rialzato degli sposi, imbacuccata nelle raffinate vesti nuziali ma con la bocca piena e unta dal grasso della carne, nota tra gli ospiti Damiano rimanendo attonita e rapita dal giovane che la fissa sorridendo eloquentemente.

La contrapposizione tra vincolo sociale e sessualità, tra potere e desiderio, è espressa anche dalle scene in cui Damiano, sotto la finestra della stanza da letto, ascolta gli amplessi del vecchio con l'amata, e si strugge per la smania amorosa appoggiandosi alle mura del palazzo e stringendosi il pene con un gesto ossessivo e reiterato. L'esclusione e la privazione imposte del potere si concretano, dunque, nelle dure pietre del palazzo, mentre il desiderio e la sessualità trovano il loro culmine rappresentativo, ancora una volta [177] , nel gesto della mano che si stringe attorno al sesso maschile.

Il confronto con l'appena citato episodio “dell'usignolo” del Decameron è interessante anche per un altro motivo. Nel Capitolo II mi soffermavo sul carattere idilliaco e, in un certo senso, “archetipico” dell'episodio e, soprattutto, sulla connotazione edenica che Pasolini aveva dato del giardino di Lizio da Valbona, quando viene illuminato dai primi raggi del sole che colgono addormentati i due novelli amanti. Ebbene, nei Racconti di Canterbury il riferimento al mito e, in questo caso, al locus amoenus classicheggiante si eleva al di sopra della mera suggestione poetica, per diventare esplicito nelle figure di Plutone e Proserpina [178] che passeggiano nel giardino recintato di Gennaio che, in questo modo, risulta essere un Eden “vero e proprio”, un mondo palesemente a sé stante e “altro” rispetto a quello del palazzo e del mercato.

Ma, paradossalmente, mentre il giardino di Lizio da Valbona subisce, all'interno dell'episodio, una sorta di “trasfigurazione verso l'alto”, che lo trasforma da comune boschetto mediterraneo in teatro consapevole e partecipe dell'amplesso\creazione tra Ricciardo e Caterina (che scopre il corpo di Ricciardo\Adamo “creandolo” con gli occhi [179] ); per converso, l'hortus conclusus di Gennaio risulta “trasfigurato verso il basso”, cioè da idilliaco e rarefatto ritrovo di dei si appesantisce e traligna in un fondale piatto e uniforme per un ben più prosaico incontro di due giovani amanti. La stessa nudità del re degli inferi e della sua consorte [180] se paragonata a quella di Ricciardo e Caterina, appare “dovuta” e funzionale alla pura rappresentazione, e quindi lontana da “quell'inno al corpo” da quell'esaltazione della sessualità che si era ravvisata nell'episodio del primo film della trilogia; e così pure l'incontro tra Maggio e Damiano, nel suo accanimento e nella sua smania di appagarsi (ma anche per la presenza di Gennaio che rappresenta, in un certo senso, la coscienza del peccato), perde la spontaneità e la freschezza dell'episodio decameroniano per acquistare in ossessione e consapevolezza.

Maggio e Damiano non possono ripetere ancora una volta la “creazione” del primo uomo e della prima donna sulla terra; già scacciati dal paradiso sono illuminati dalla cruda luce di quella “coscienza triste” (la coscienza del peccato) di cui Pasolini aveva parlato a proposito di Chaucer. Dunque, nei Racconti di Canterbury, l'Eden primigenio ed intatto dove cantava “l'usignolo” di Caterina non può che prendere le veci e diventare grottescamente simile al “doglio” dell'episodio di Peronella, dove due amanti prendono furbescamente sollazzo l'uno dall'altro alla presenza del marito cornuto. Né più né meno.

2.3. Racconto del Frate

Questo episodio esemplifica e riassume in sé le caratteristiche e le specificità dei Racconti di Canterbury nei confronti degli altri due film della trilogia; caratteristiche e specificità che, come si vedrà [181] , preludono direttamente a quelle dell'ultimo film di Pasolini: Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Inoltre, come già era accaduto per Ciappelletto nel Decameron, l'episodio interpretato da Franco Citti si contraddistingue sia per intensità drammatica sia per la fecondità delle tematiche che percorrono il racconto cinematografico.

Ma, mentre nel Decameron Franco Citti interpretava il protagonista dell'episodio (il crucciato Ciappelletto titanicamente solo di fronte alla morte), in questo caso l'attore ricopre, almeno nella prima parte, il ruolo del testimone silenzioso, dell'estraneo che guarda da dietro alle quinte, che indaga, che ricerca e che, alla fine, trae il suo giudizio di condanna.

L'episodio, infatti, si apre sull'inquadratura da tergo dello “Straniero” che, attraverso una finestra al primo piano, osserva all'interno di una stanza il Delatore che, a sua volta, spia da dietro una tenda la copula tra il pederasta povero ed un ragazzo di vita; dunque è introdotto sin da subito il tema dello sguardo, della testimonianza visiva (premessa fondamentale della denuncia).

In seguito, dopo aver “osservato chi osserva”, lo Straniero si sostituisce al Delatore e spia dallo stesso buco tra i panneggi della tenda, cogliendo l'attimo in cui il pederasta povero sospende per un momento l'atto sessuale per addentare una mela e per offrirla al ragazzo sdraiato. La scena si ripete specularmente quando il Delatore scopre in flagrante il pederasta ricco: identica è la successione de “l'osservare chi osserva” e del “guardare ciò che l'altro ha guardato”, come simile è il gesto che fa il pederasta ricco quando si ferma per bere da un boccale di birra (senza però offrirlo, a sua volta, al compagno).

Tra queste due scene è collocato il passaggio di una processione funebre, che incrocia la strada dello Straniero mentre questi sta pedinando il Delatore tra i portici della città. La presenza della processione in questa parte dell'episodio (rimarcata, oltre dal fatto che Franco Citti le ceda il passo, dall'inserimento di un canto liturgico) è chiaramente significativa; la morte, in questo caso, è come il pannello centrale di un trittico su cui si incernierano le due scene (speculari) del rapporto sessuale. Ma oltre ad un generico e risaputo accostamento di eros e thanatos qui abbiamo, più particolarmente, l'accostamento esplicito tra omosessualità [182] e morte; morte derivata, chiaramente (almeno da questo punto di vista), non dalla omosessualità in sé ma (come si vedrà tra poco) dall'aberrazione corruttrice e nefasta sul corpo e contro il corpo che il potere (ovunque e comunque repressivo) implica e richiede.

In seguito al pedinamento [183] del Delatore lo Straniero si imbatte nei “mandanti” di quest'ultimo: l'Apparitore e, soprattutto, l'Arcidiacono della città [184] . Il ritratto dell'Arcidiacono è dato con poche ma efficaci inquadrature: in piedi, con la veste viola cupo e con in mano il pastorale (“l'uncino” chauceriano del potere temporale), ghigna di soddisfazione di fronte ad un contadino che gli sta mostrando due oche portate in tributo. Le inquadrature, come ho detto, sono poche e, inoltre, di breve durata, ma definiscono con efficacia iconica la figura dell'Arcidiacono e, in modo particolare, le fattezze e le manifestazioni del Potere incarnato. Si potrebbe anche fare un passo ulteriore dicendo che il prelato, nel suo aspetto osceno e terribile, ricorda per analogia i quattro signori di Salò [185] ; in particolare quando questi esprimono la loro soddisfazione passando in rassegna il frutto dei rastrellamenti operati dai loro sgherri. Infatti, accanto all'Arcidiacono si trova l'Apparitore: giovane, con gli occhi azzurri e freddi che guardano nel vuoto da dietro un crocifisso di ferro; il “volenteroso esecutore” degli ordini della curia e il “fecondo procacciatore di carne di peccatori” [186] ricorda, per certi versi (non dimenticando, però, le caratteristiche del suo ritratto nei Tales), le pagine degli Scritti corsari e delle Lettere luterane (che Pasolini scriverà di lì a poco) che parlano della nuova generazione (“la nuova gioventù”) scaturita dai bassifondi del neocapitalismo: amorale fino all'anomia e quindi pronta manovalanza squadrista per la più repressiva delle dittature [187] .

Quanto ho appena detto sulle manifestazioni del potere e della sua capacità repressiva e “irreale” trova mirabile esemplificazione nella sequenza del rogo.

I campi medi delle tribune dei notabili che aprono la scena, danno subito lo spunto per un'interessante osservazione. Pasolini ha utilizzato, nel realizzare queste inquadrature, un espediente tecnico particolare; per cui le facce dei notabili sono inserite all'interno di buchi circolari ritagliati in un telo dipinto [188] (un po' come i pannelli per le fotografie nei luna park). Questa “bidimensionalità indotta” può essere vista anche solo come un ennesimo ritorno del riferimento e del gusto per la codificazione pittorica (dalle schiere dei santi delle pale prerinascimentali via via sino alla frontalità assoluta dei mosaici bizantini), ma mi sembrerebbe più appropriato, anche in virtù di questa “forzatura tecnica” così insolita, ravvisarvi anche una componente di più deciso espressionismo. La parata distante [189] e mostruosa dei volti appiccicati allo sfarzo multicolore delle vesti sembra alludere alla disumanità e alla scandalosa irrealtà che il potere imprime, in primo luogo, ai suoi tutori ed artefici [190] .

L'impressione di disumanità e di irrealtà aumenta man mano che procede e si attua il rito dell'esecuzione capitale, non essendo per nulla attenuata dalle notazioni, per così dire, sarcastiche che accompagnano l'allestimento del rogo e la presentazione del condannato a morte. Mi riferisco ai due sketch introdotti entrambi dall'urlo “un momento!» che sembra, solo per un attimo, voler interrompere provvidenzialmente l'esecuzione, ma che, in realtà, proviene solamente dallo zelo assurdo di quanti si affannano attorno al patibolo. Infatti il primo urlo introduce un ragazzo dai capelli lunghi che corre a capofitto per portare un'altra fascina per il rogo; il secondo, ripetuto due volte, è gettato dal frate confessore che, quasi allegramente, porta il crocifisso per l‘eventuale redenzione in punto di morte.

Anche il ritratto dello stesso condannato a morte appare allineato sullo stesso registro comico; si pensi al modo in cui scalcia e si dibatte quando è portato di peso sul patibolo o allo svenimento improvviso che lo coglie (in una scena precedente) quando l'Apparitore gli comunica la pena che lo aspetta per il fatto di non avere il denaro sufficiente per pagarlo.

Ma, come si è detto, nonostante queste apparenti divagazioni comiche (ma in realtà grazie – anche – a queste divagazioni) la rappresentazione del rogo del sodomita nel Racconto del Frate è una delle parti più intensamente drammatiche di tutta la Trilogia della vita.

Tutta la scena è dominata (e, in un certo senso, condizionata [191] ) dalla figura e, soprattutto, dallo sguardo dello Straniero che si aggira, spingendosi fra la folla attonita, scandendo il succedersi dei fatti con il roco reiterare del suo “frittelle… frittelle…”; parole che sembrano quasi distillare, a goccia a goccia, il dilacerante urlo di accusa che, di lì a poco, lo Straniero sembrerà lanciare. Quando il rogo viene acceso, infatti, mentre le urla del condannato si confondono al fragore delle fiamme, lo Straniero sembra attratto inesorabilmente verso il centro di quello spettacolo orribile, cerca ansiosamente un varco tra la folla fino, addirittura, ad appoggiare il mento alla spalla di una guardia. Ed è in quel momento che si commuove (lui, il diavolo) ed ha quello scatto repentino della testa verso l'alto, verso il fumo che si eleva contro la facciata della cattedrale, verso i notabili che si ritirano, soddisfatti ed un po' infastiditi, dalla loro loggia.

In quello scatto, in quello sguardo, si condensano l'urlo che si è detto, e la condanna.

Prima di procedere ulteriormente bisogna dire che la figura interpretata da Franco Citti (nel suo primo aspetto di osservatore silenzioso definito più sopra come “Straniero”) è assente in Chaucer; ma non solo, tutta la scena del rogo del sodomita è da considerarsi quasi esclusivamente come un'invenzione pasoliniana. Nei Canterbury Tales, infatti, la parte riguardante le estorsioni e le persecuzioni dell'Arcidiacono e dell'Apparitore vengono trattate in maniera piuttosto concisa, costituendo questa solamente l'antefatto dell'episodio dell'incontro con il diavolo; inoltre l'unico accenno esplicito alle pena capitale viene fatto solamente riguardo ai lussuriosi (eterosessuali però); mentre non si allude, neanche lontanamente, al peccato di sodomia [192] :

“Abitò un tempo dalle mie parti un Arcidiacono, uomo di alto paraggio, il quale arditamente infliggeva castighi a reprimere fornicazione, stregoneria, ed anche ruffianesimo, diffamazione ed adulterio, a correggere ufficiali ecclesiastici, testamenti, contratti e astensione dai sacramenti ed anche molte altre maniere di delitti che non è d'uopo ora di ripetere; e usura ed anco simonia.”

“Ma per certo il maggior danno lo fece ai lussuriosi; dovevano friggere se venisser presi…”

“Femmine pure teneva nella sua [dell'Apparitore] paga, le quali all'orecchio gli dicevano se ser Roberto, ser Ugo, o Gianni o Rufo o chi altri mai fosse avesse con loro giaciuto. Così egli e la femmina erano d'un animo solo. Ed egli metteva mano ad una citazione contraffatta, e chiamava a capitolo e lui e lei, per poi spogliare l'uomo e lasciar libera la femmina.”

Soprattutto grazie a quest'ultima citazione ci si può rendere conto di come Pasolini, invece, abbia incisivamente trasformato la materia del racconto facendo assumere alla prima parte dell'episodio la fisionomia sdegnata del vibrante atto d'accusa e quella cupa e apocalittica della profezia.

Lungi dall'essersi limitato ad una rivendicazione o ad una querimonia pamphlettistica di stampo libertario su i diritti degli omosessuali, Pasolini fa balenare, per un attimo, quelle tematiche che troveranno la loro più compiuta espressione sulle pagine delle Lettere luterane o degli Scritti corsari e nella sua ultima opera cinematografica. L'isolamento, la repressione e la distruzione della diversità, la nevrotizzazione e al degradazione del corpo e del sesso, e, soprattutto, l'avvento o l'imminenza di un “universo orrendo” costituito da pragmatici detentori del potere e da amorali manovali del crimine.

Dunque, le ragioni sottese all'introduzione del tema (anche) autobiografico dell'omosessualità e della sua persecuzione, vanno ricercate all'interno dell'urgenza di espressività e di “somatizzazione” proprie della denuncia e della profezia. Ancora una volta (ma sempre più fortemente) il poeta ritrova il suo ruolo nel pubblico martirio [193] , nella rappresentazione del proprio olocausto, in modo che alle urla straziate del condannato a morte si sovrappongano quelle di chi è continuamente vocato a “gettare il proprio corpo nella lotta”.

Nonostante i cupi presagi, quindi, l'atto d'accusa conserva ancora una forza ed una ragione d'essere; nello scatto commosso di Franco Citti verso la cattedrale e verso i potenti che appaiono sulla loggia brucia “quell'eroismo disperato” [194] che riapparirà ancora una volta (ma in un contesto ben diverso e, se possibile, ancor più disperato) nel pugno chiuso alzato da Ezio, prima di morire, davanti ai quattro signori di Salò.

Poco da dire sulla seconda parte dell'episodio che segue fedelmente il testo ma che, nell'economia del racconto cinematografico, ha una funzione accessoria e, come dire, “pretestuale” nei confronti della prima parte; sovvertendo, in questo modo, la struttura narrativa della novella chauceriana che, come si è visto, aveva il suo motivo di maggior interesse nel “tranello della guastada”, teso dal diavolo per far cadere nella sua rete il cinico Apparitore.

2.4. Chaucer

Se si esclude il Prologo generale (in cui Pasolini appare insieme agli altri pellegrini), il personaggio di Chaucer compare all'interno del film in quattro occasioni. Ma, a differenza delle parti che componevano il macro-episodio dell'Allievo di Giotto nel Decameron, le occasioni in cui il regista appare all'interno del film risultano decisamente ridimensionate sia dal punto di vista della durata sia da quello dell'importanza strutturale e “dell'impronta” lasciata sugli altri episodi.

Le quattro “apparizioni” del regista, inoltre, elevandosi raramente al di sopra della mera “notazione a margine”, sono assimilabili (e quasi interscambiabili) fra di loro. Si limitano ad accompagnare la narrazione dei fatti attraverso la loro registrazione passiva; quindi si può dire che ricoprano, in un certo senso, una posizione mediana rispetto alle manifestazioni dell'estro demiurgico dell'Allievo di Giotto e il risucchiamento del narratore all'interno del vortice del racconto proprio del Fiore delle Mille e una notte.

Silenzioso, quasi sempre nel suo studio, da solo, rintanato in uno scranno imponente che lo “avvolge” quasi ad isolarlo dal mondo esterno, il personaggio di Chaucer manifesta la propria appartenenza ad una fase ulteriore del divenire storico proprio nella sua separatezza, nella sua lontananza e nel suo disagio rispetto al “brulichio puramente esistenziale” dove, a suo tempo, l'Allievo di Giotto affondava a piene mani nella ricerca dei corpi e dei volti per le proprie creazioni artistiche. La ricerca di Pasolini\Chaucer, invece, è significativamente limitata al piano della memoria o della trasposizione letteraria; il sorriso che accompagna il suo lavoro è assorto, nostalgico, e l'unica “realtà” in cui affonda le mani è costituita dai pesanti tomi sotto cui nasconde una copia del Decamerone [195] , celata opportunamente allo sguardo censorio della moglie-tiranno.

Anche l'epilogo del film (soprattutto se confrontato a quello del Decameron e all'ambigua domanda che lo accompagna) risente di questa “marginalità” e di questo ripiegamento retrospettivo verso la memoria e la codificazione letteraria. Pasolini\Chaucer scrive in calce all'opera appena conclusa:

“Qui finiscono i Racconti di Canterbury raccontati per il solo piacere di raccontare.
Amen [196]

Si è ben lontani, dunque, in questa riproposizione del concetto del puro godimento dell'ontologicità del narrare, dal dubbio dell'artista di fronte al concretizzarsi della propria ispirazione.

Nonostante questa marginalità di cui si è appena detto, all'interno dei micro-episodi che hanno come protagonista Pasolini c'è spazio per il ritorno di alcuni temi “eterni” per la sensibilità poetica dell'artista. Mi riferisco al I frammento, in cui si lo scrittore, all'interno del dormitorio della locanda e in compagnia degli altri pellegrini, si appresta a scrivere il Racconto del Cuoco [197] . Mentre tutti gli altri dormono, Pasolini\Chaucer getta uno sguardo intorno; una lenta panoramica destra-sinistra inquadra i pellegrini assopiti mentre, dall'esterno, penetra nella stanza la melodia conosciuta di Fenesta ca' lucive; la panoramica percorre tutto il perimetro della stanza fino ad arrivare a soffermarsi su un ragazzo nudo che, ancora sveglio, tiene un gatto in braccio e guarda, assorto, verso lo scrittore.

La pulsante onnipresenza del sesso unita alla coscienza dilacerante della morte: ecco come un'apparentemente banale notazione si trasforma in un ricettacolo dolente delle ossessioni e delle maledizioni più private del poeta.

2.5. Racconto del Cuoco

2.5.1. L'hobby del sonetto

“Quando ho girato Canterbury era un periodo molto particolare, ero molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all'insegna della spensieratezza, dello «stile medio», del sogno, e anche del comico, per quanto astratto. E forse se non fossi stato così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e cappello” [198]

Qual è la causa di questa infelicità, che sembrerebbe mettere in crisi tutto il progetto (appena iniziato) della Trilogia della vita?

La sceneggiatura dei Racconti di Canterbury (dove l'episodio tratto dal Racconto del Cuoco possiede già ascendenze chapliniane [199] ) fu terminata entro l'inizio dell'estate del '71 quando iniziarono i sopralluoghi in Inghilterra per la scelta delle ambientazioni e dei personaggi del film [200] . Da pochi mesi, Ninetto Davoli si era fidanzato con una ragazza della sua età esprimendo chiaramente la sua intenzione di “fare sul serio”. È questo fatto, la scelta esclusiva di una compagna operata da Ninetto (l'amore casto di una vita), che fa precipitare Pasolini nel più cupo sconforto.

In agosto scriveva a Paolo Volponi, in risposta ad una lettera sulle impressioni di quest'ultimo alla lettura di Trasumanar organizzar:

“Avrei saltato di gioia leggendo quello che mi dici delle mie poesie – se non fossi in un periodo in cui sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c'è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta  una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui (…)” [201]

Sempre all'agosto del 1971, risale l'inizio di una raccolta poetica (a tutt'oggi, solo parzialmente edita [202] ) intitolata L'hobby del sonetto; costituita da 118 sonetti (più alcuni frammenti) scritti in Italia e in Inghilterra fino al febbraio del 1973. La maggior parte di questi componimenti [203] (stando almeno ai pochi pubblicati) è dominata dall'espressione del dolore annichilente che deriva dal forzato distacco (sentimentale, non fisico) da Ninetto; dolore a cui è strettamente intrecciato il rimpianto straziante della gioia che questo periodo, ormai concluso, portava con sé:

“Il vostro posto era al mio fianco,
e voi ne eravate anche fiero; dicevate,
del sedile della macchina presso il volante,
«Qua ci devo stare solo io». Le annate

che fanno una vita passarono in un istante.
Qualcosa che aspettava in agguato
accadde. Ma io non so che cosa. Siete distante
da me, pare per un amore. Vi ho dato

ogni potere sulla mia esistenza,
e voi, certo per umiltà, per obbedire
a un destino che vi vuole povero,

non sapete che farne: e io son senza
alcun diritto, nel consorzio civile,
di pretendere che non mi diate dolore.

Canterbury”

 

Penso a voi e mi dico: «L'ho perduto»
- con un dolore che potrei esprimere morendo,
non altrimenti. Dopo un minuto
 ripenso a voi: e lietamente riprende

forza la vostra immagine. Rifiuto
allora di piangervi, ricredendomi.
Poi di nuovo vi considero perduto.
Siete o non siete un altro, mio tremendo

Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.

Ma il conoscervi ha mutato
tutto: e se vi perdo vuol dire
che mi ritrovo, senza vita, dov'ero.

Bath, 24 ottobre 1971”

 

“C'era nel mondo – nessuno lo sapeva -
qualcosa che non aveva prezzo,
ed era unico: non c'era codice né Chiesa
che lo classificasse. Era nel mezzo

della vita e, per confrontarsi, non aveva
che se stesso. Non ebbe, per un pezzo
nemmeno senso: poi riempì l'intera
mia realtà: Era la tua gaiezza.

Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n'è rimasto

Un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.

Benvenuto, 3 Febbraio 1973” [204]

 

Ritengo che questa digressione verso una zona marginale della produzione letteraria e, soprattutto, verso la vita del poeta, sia non meno necessaria di quelle che sono state fatte, a suo tempo, a proposito dell'ideologia e delle espressioni artistiche “maggiori”. Già allora, infatti, si è cercato di mettere in evidenza come alla maturazione del pensiero ideologico e delle argomentazioni sociologiche corrispondesse, sul piano esistenziale, una “assunzione su di sé” (quasi una somatizzazione) dei punti dolenti delle problematiche affrontate. Pasolini non si limitava ad analizzare, a denunciare, a prendere atto del mutamento antropologico avvenuto nel cuore dell'universo popolare; ma lo viveva personalmente, nel suo peregrinare notturno e ossessivo per le borgate romane (o per una città dell'oriente arabo o dell'africa nera postcoloniale), ne soffriva gli effetti e le degradazioni negli aspetti più intimi e profondi della sua vita.

In questo caso, d'altro canto, si cerca di evidenziare come un episodio del vissuto del poeta (il “tradimento” innocente di Ninetto) si intrecci a doppio filo sia con l'analisi pasoliniana della metamorfosi sociale sia, e soprattutto, con la realizzazione di una sua opera cinematografica [205] .

2.5.2. L'episodio

Il Racconto del Cuoco, infatti, se fin da subito appare come un inno alla santa leggerezza e incoscienza della gioia di vivere (incarnati naturalmente, agli occhi di Pasolini, in Ninetto), d'altro lato si presenta immediatamente come un inno viziato e offuscato dalla straziante consapevolezza della irrimediabilità della perdita.

Il continuo ricorso alla citazione chapliniana, poi, talmente esplicita e ossequiosa da ricordare la puntigliosità dei vari tableaux vivantes, oltre a confermare per l'ennesima volta l'attitudine pasoliniana al pastiche, può essere visto come un espediente atto a distanziare la materia del racconto attraverso la figura ironizzante dell'Auctor, che viene posto come un'intercapedine tra l'opera e le sue scaturigini poetico-esistenzali. Le varie gag “alla Charlot”, dunque, fortemente stilizzate e come racchiuse all'interno di una rigida e codificata successione, permettono a Pasolini di affrontare e filmare ciò che altrimenti (ovvero preso di petto senza il ricorso a Chaplin) sarebbe stato quasi intollerabile [206] .

La trama del racconto (che nei Canterbury Tales è lasciato ambiguamente sospeso ed incompleto) ha come unico filo conduttore il peregrinare erratico e gioioso di Perkin\Ninetto tra i bassi e le architetture paleoindustriali dei Docks londinesi. Perkin è di un'incoscienza sublime e innocente [207] , alle prese con la necessità dell'appagamento dei bisogni primari (naturalmente il cibo ed il sesso), canta una medesima canzone sguaiata sia quando Bill gli presenta la moglie sgualdrina sia quando è posto sulla gogna al pubblico ludibrio; in modo che ogni cosa risulta illuminata e nello stesso tempo dissacrata dalla sua inscalfibile allegria.

Ma, come si è detto, questa allegria è come contagiata e snaturata dalla febbrile ossessione pasoliniana, che si accanisce verso qualcosa a cui sa di dover presto rinunciare. E allora la luce che scaturisce da questa allegria è una luce che illumina ma non scalda, perché riflessa dalla nostalgia e dal ricorso inevitabile alla citazione che, come uno “scudo di Perseo”, permette di sopportarne il peso della perdita..

Si pensi, ad esempio, alla scena iniziale, quando Perkin viene spinto dal padrone sul pavimento della locanda in cui lavora; sul viso del giovane appare, come stampato, un sorriso radioso ma immobile, tirato stancamente ai lati del viso, come se rimanesse l'immagine mentre ne è scomparsa la vita. Oppure si pensi al ritorno della consueta inquadratura pasoliniana [208] di Ninetto, che fa capolino con gli “occhi ridarelli” da dietro un cesto di uova, questo ricorso di Pasolini ad un immagine così cara in un contesto carico dei flebili umori della nostalgia, appare fortemente come lo struggente vagheggiamento del tempo passato, da parte dell'amante, di fronte al suo “tremendo Signore\ che non sa cosa gli capita”.

2.6. Racconto del Mugnaio

Sono davvero poche le osservazioni che si possono fare a proposito di questo episodio. E questo non tanto per una mancanza o una cattiva riuscita dell'episodio in sé, ma perché in esso ritornano e si confermano (non assumendo, però, caratterizzazioni o coloriture particolari) tematiche e modalità comuni ai Racconti di Canterbury, su cui ci si è gia soffermati [209] .

Dunque il sesso visto come antagonista, come via d'uscita dalle prevaricazioni del potere costituito (il matrimonio della bella Alison con il repellente legnaiolo) ma, contemporaneamente, potere prevaricante egli stesso, con le sue leggi, le sue coercizioni, le sue violenze.

Si pensi all'ossessione erotica di Nicola, lo Studente di Oxford, concentrata, nonostante le accorate dichiarazioni di amore profondo [210] , nell'incontenibile prorompere del pene eretto che appare, continuamente impugnato e stretto per placarne le urgenze [211] , come la principale preoccupazione e il vero pungolo del tranello inventato dallo Studente.

L'incontro amoroso dei due giovani, inoltre, nella loro smaniosa ricerca del sesso dell'altro, assume le caratteristiche di una lotta - scherzosa e accesa dalla libido, ma pur sempre lotta - quindi connotata da quelle tendenze di dominio e prevaricazione di cui si è parlato. Se, dunque, da un lato il sesso vissuto da Alison e Nicola può apparire intriso dal desiderio cupo del corpo e della carne (con cui si esprime il mondo eterno ed ancestrale al centro della poetica pasoliniana); d'altro lato appare già illuminato dalla “cattiva coscienza”, repressiva e straniante, nata con l'affacciarsi di quel mondo alla storia e alla prassi borghese. C'è l'appagamento senza la gioia, la passione muta che non scopre nulla, ma che nevroticamente e caparbiamente chiede ciò che le è dovuto per “diritto sociale”, poiché, come si è visto, il sesso non è più evasione dalle coercizioni del potere costituito, ma ne è divenuto una delle manifestazioni, assumendone principi e modalità.

Si discosta parzialmente da quanto ho appena detto il ritratto di Assalonne, il sacrestano innamorato di Alison, che si aggira assieme al sorridente amico Martin nei vicoli oscuri di Oxford, nella ricerca, ansiosa ma serena, dello sfogo d'amore. Mi riferisco, in particolar modo, al canto notturno fatto sotto le finestre del legnaiolo o alla scena in cui il ragazzo, strappato dal calore dei balli della festa a palazzo con la speranza di un incontro con Alison, attende fiducioso la comparsa del viso della ragazza, effondendo copiosamente le sue “smancerose litanie da innamorato” (che poi avranno, nell'inversione bocca-ano della beffa, un compenso così ingrato). In queste inquadrature [212] , nel volto assorto del ragazzo che, immerso nel blu intenso della notte estiva, mormora tra sé:«Ormai sono un signore. Dopo questo [il bacio] verrà sicuramente qualche altra cosa…», vive (o sopravvive) ancora il mistero e l'occulta sacralità che caratterizzano l'eros primigenio e incosciente di quegli “adorabili” che “non sanno di avere diritti”, ma che vivono (contumaci rispetto alla storia) nel loro universo chiuso ed immutabile [213] .

2.7. Racconto della Donna di Bath

In questo episodio le sovrapposizioni e le contaminazioni tra potere e sessualità diventano ancora più esplicite e cogenti, trovando la loro oggettivazione esemplare nella figura della Donna di Bath che, con la sua vertiginosa logorrea castrante [214] e mortifera, imperversa e domina tutto il racconto.

Pur ricordando quanto si è detto a proposito della scarsa rilevanza della cornice chauceriana nel film di Pasolini, non si può far meno di notare come l'oggetto del racconto della Donna di Bath (la quale compare sia nel prologo [215] che nel racconto vero e proprio) è la Donna di Bath stessa [216] : lei parla di se stessa che parla; e prolunga, dunque, la narrazione in vertiginose prospettive da mise en abyme, che costituiscono (al di là delle vicende narrate) il vero punto focale del racconto. “Il piacere di raccontare”, in questo modo, si avvolge mostruosamente su se stesso, creando iperboliche spirali di parole che debordano in ogni direzione ricoprendo e soffocando la materia del narrare; che, così, appare completamente prona e docile alla volontà tirannica della donna.

La forza della Donna di Bath risiede nel denaro, nei suoi possedimenti caparbiamente ammassati matrimonio dopo matrimonio, e che ora le permettono di porsi in una posizione del tutto insolita per le donne del tempo [217] : la posizione di chi esercita il potere e, strumento, ne è espressione tangibile.

Come si è detto, la parte della vita in cui il potere della Donna di Bath trova la sua manifestazione più evidente (e deleteria) è la sessualità; basti pensare alla scena in cui la donna “chiede” a Giannozzo (lo studioso) di sposarla; i due si sono appartati durante una festa popolare e la donna ha iniziato con noncurante disinvoltura a masturbare l'uomo (dopo che questi, con altrettanta noncuranza, aveva piazzato sul pene la mano della donna):

Donna di Bath: Sono venuta qui per parlarti, Giannozzo!

Giannozzo (assolutamente assente, perso dietro quanto gli sta succedendo tra le gambe): Parla!

Donna di Bath: Tu Giannozzo mi hai fatto un incantesimo, e inutile che lo neghi!

Giannozzo: Ah?

Donna di Bath: Sì, tutta la notte ho sognato di te. Volevi uccidermi mentre stavo distesa a pancia in alto e il mio letto era coperto di sangue… Tu mi hai stregata e perciò dovrai sposarmi, Giannozzo! (mentre dice questo affretta i movimenti)

Giannozzo: Sposarti?… Ma sono troppo giovane!

Donna di Bath: Uhm! Ma vedi, mio marito poveretto sta crepando e tutti sanno bene, quelli che se ne intendono, che il mio sogno è di buon augurio perché «sangue» significa «oro»!

E subito dopo la parola «oro» inizia, significativamente, la scena del funerale-matrimonio; in cui la Donna di Bath si inginocchia davanti al sepolcro del marito defunto, per poi correre immediatamente davanti all'altare per sposare Giannozzo; il tutto senza soluzione di continuità, persino il prete che officia i due sacramenti, il funerale e la cerimonia nuziale, è lo stesso.

Dal letto coniugale - su cui era apparsa, all'inizio dell'episodio, la Donna di Bath insieme al quarto marito – si è passati direttamente alla tomba, per poi ritornare ancora al letto coniugale, ai piedi del quale sono collocati in fila i pitali di tutti i mariti defunti della donna e, naturalmente, quello nuovo di zecca dello sposo novello; quasi a voler dire che la serie dei coniugi (e delle morti) non è certo conclusa.

L'oro, che anche nella pagina chauceriana è legato simbolicamente al sangue, esprime la sua forza degradante sul sesso, contaminandolo, come si è detto, e legandolo perversamente alla morte; una morte che deve essere intesa, ancora una volta, in senso lato, cioè come morte del sacro di fronte alle trasformazioni e alle esigenze della storia.

2.8. Racconto del Fattore

Poco da dire anche nel caso di questo episodio. Anche qui, come nel Racconto del Mercante e (soprattutto) come nel Racconto del Mugnaio, il desiderio sessuale viene presentato come un'incoercibile volontà prevaricante e caparbia; i due ragazzi ottengono l'appagamento di ciò che vogliono considerandolo l'adempimento di un diritto, un procacciarsi ciò che gli spetta; l'amore di una notte con la giovane Tilde è ritenuto dai giovani studenti il giusto risarcimento per le ruberie del Mugnaio: il sesso degradato a merce di scambio.

Opposta a questa degradazione, però, sta la giovinezza “santa” di Alano e Giovanni e la “santità” del loro impulso erotico (nella sua parte inconscia e “animale”, mentre, come si è visto, l'eros viene svilito e “adoperato” consciamente come beffa e sopraffazione). Si pensi, ad esempio, all'allegro inseguimento del cavallo nel tardo pomeriggio della rorida campagna inglese; oppure al gesto, che fanno i due giovani, di toccarsi reciprocamente il membro per verificarne l'erezione [218] . Ma soprattutto si pensi al tenero ed ingenuo amore che prova Tilde per l'amante quasi sconosciuto, al suo rifiuto e alla sua sfida all'autorità paterna quando prepara la torta ai due giovani con la farina rubata, ai suoi primi piani silenziosi in cui, per un attimo, si addensa lo stupore e la soggezione sacrale di fronte al mistero della sessualità.

2.9. Racconto dell'Indulgenziere

“Radix malorum est Cupiditas. Ad Thimotheum VI”

Nei Canterbury Tales il Racconto dell'Indulgenziere è, in realtà, un discorso articolato secondo le norme classiche dell'Institutio oratoria quintilianea; la narrazione delle avventure dei tre ragazzi e della loro ricerca del ladro chiamato “la Morte” corrisponderebbe, quindi, all'exemplum, l'aneddoto illustrativo atto a corroborare e a dimostrare quanto viene asserito nel tema che apre l'orazione.

La citazione di S. Paolo dalla prima lettera a Timoteo posta all'inizio del Racconto dell'Indulgenziere, dunque, costituisce il tema discorso, ovvero l'enunciazione del principio che informa il resto della narrazione. In questo modo, l'exemplum risulta approntato a mostrare come “la Morte” (metaforica e reale) che incontrano i tre amici, derivi dalla loro fame d'oro e dalle azioni malvagie che questa li spinge a compiere.

Non importa se alla fine il discorso viene vanificato, con un procedimento comico-parodico, dallo stesso Indulgenziere che, con una disinvoltura disarmante, tenta di vendere le sue false reliquie per spillare un po' di denaro ai compagni di viaggio; ciò che importa è che tutto il racconto è pervaso da quella tensione cupa e moraleggiante che Pasolini aveva individuato tra le specificità chauceriane rispetto alla “coscienza tranquilla” del Boccaccio.

Anche nell'episodio cinematografico dei Racconti di Canterbury permane l'atmosfera plumbea e tormentata dei Tales; atmosfera che trova, negli improperi paolini [219] declamati da Rufo mentre orina sulle teste dei clienti nell'osteria, la sua espressione più compiuta e pregnante:

Rufo: Eh… eh, ha proprio ragione San Paolo: Dio distruggerà il cibo del ventre e il ventre del cibo!

[…]

Rufo (Orinando su una donna impellicciata): Ah! Ah! Tieni prendi questo, donna mandata dal diavolo ad accendere il fuoco della lussuria e a soffiarvi dentro, con le tue sgualdrine!

[…]

Rufo (Orinando su dei vecchi ubriaconi): All'inferno! Nel fuoco eterno pagherete questo peccato! Ah, viziosa cosa è il vino, e l'ubriachezza è causa di sventure. Ah, ubriaconi, la vostra faccia è stravolta, il vostro fiato acre, siete schifosi da abbracciare! Vorreste fare tutti come Sansone [220] . Ma Dio sa se Sansone bevve mai vino! Leggete la Bibbia, cretini!

[…]

Rufo (Continuando c. s.): Ah… E adesso che vi ho predicato della crapula, voglio mettervi in guardia contro il gioco!

[…]

Rufo: Il gioco è il padre della menzogna e dell'inganno, amici miei, il padre del maledetto turpiloquio e della più indegna bestemmia di Cristo! Uh! Principe che ha il vizio del gioco perde il suo prestigio di regnante! Imparatelo, ignoranti!

Ma il furore apparente di tutta questa sequela di invettive viene dissolto dall'ironia con cui vengono lanciate [221] , Rufo, infatti, non è altro che un appartenente a quella compagnia di giovani che vive “ai margini della società” e che è appena uscita dalle stanze del bordello al piano superiore della locanda.

È da notare il rilievo particolare che Pasolini dà alle diverse modalità del rapporto erotico dei cinque giovani con le prostitute; con cinque sequenze all'interno di altrettante stanze, il regista sembra quasi voler stilare un “catalogo delle perversioni” che sembra anticipare, lugubremente, l'ordine chiuso sadiano della villa di Salò. C'è l'impotente, il masochista, quello che tratta la ragazza alla stregua di un Juke-Box [222] infilandole dei soldi in bocca, oppure quello che “sublima a comando” l'atto sessuale coprendo di dolci parole la ragazza con cui fa l'amore, per poi staccarsene con indifferenza una volta che l'atto è concluso, eccetera.

Ma bisogna dire che nonostante lo svilimento del sesso che queste perversioni comportano, i cinque giovani sono ancora in possesso della loro realtà fisica; cioè non vivono ancora l'eros come dissociazione o nevrosi, ma lo fanno ricadere all'interno del loro vitalismo incosciente ed animale. Seppur degradato, il corpo non è ancora negato, non è ancora stato distrutto e annientato da quel “genocidio” epocale che è la premessa necessaria “all'universo orribile” di Salò e del neocapitalismo.

Infatti la morte che colpisce improvvisamente Rufo è quella morte che ha sempre accompagnato, come un assiduo compagno di viaggio, la nozione di “vita” e di “vitalità” [223] lungo tutta l'opera del poeta; si può dire che respiri ancora l'aria delle “piccole morti” di Ragazzi di vita, oppure dei versi luminosi e strazianti delle prime Poesie a Casarsa.

«La Morte» cercata dai tre giovani per vendicare l'amico, invece, ha una colorazione tutta chauceriana, poiché, come si è detto, è il frutto diretto dell'azione corruttrice delle monete d'oro e dalla smania del loro possesso. Ma mentre nel caso di alcuni episodi precedenti (il Racconto del Frate e il Racconto della Donna di Bath su tutti) il motivo della nefandezza del potere era interiorizzato o addirittura introdotto da Pasolini stesso, questa volta il motivo “rimane sulla pagina” e permette al regista una rappresentazione estetizzante del racconto di Chaucer che, giustamente, Adelio Ferrero vede proficuamente contaminata da echi del teatro elisabettiano [224] .

Si pensi, su tutte, alla sequenza dell'omicidio e dell'avvelenamento reciproco dei tre amici, quando - in un controluce che ricorda il finale del Racconto del Frate – si profilano le sagome dei tre ragazzi, in un primo tempo intente all'azione violenta dell'accoltellamento, quindi piegate su se stesse negli spasmi della morte subitanea, che le fa cadere riverse sulle monete d'oro a cui tutto il male viene ricondotto (Radix malorum est Cupiditas).

2.10. Racconto dell'Apparitore e prologo [225]

Il Racconto dell'Apparitore è solamente uno sketch, poiché Pasolini ha riportato solamente la scena “dell'offerta” lasciata da Tommaso morente sulla mano dell'avido frate, tralasciando quella parte (invero un po' stucchevole) in cui Chaucer si dilungava sul metodo escogitato per dividere (come era stato promesso) tra tutti i frati del convento quanto era stato donato dal malato.

Paradossalmente, ciò che rimane del racconto vero e proprio serve in realtà ad introdurre il Prologo sul viaggio del frate nell'oltretomba; nel primo infatti si delinea la personalità cupida e profondamente miscredente del frate, che poi si troverà a ricevere la visita, per lui davvero importuna e maleaccettata, del messo divino.

La stessa rappresentazione dell'inferno ha qualcosa di “empio” e di dissacrante; il messo divino non ha nulla di angelico, è solamente un ragazzaccio dallo sguardo ottuso al quale vengono appiccicate delle ali e a cui viene fatta ripetere (parafrasandola) una citazione dantesca completamente (e volutamente) fuori luogo:«È stato deciso così là dove si può ciò che si vuole e non chiedere di più!»; le torture ai dannati e i demoniacci multicolori [226] , inoltre, appaiono connotate da una pesantezza “fisica” che fa svanire la delirante follia del modello boschiano, in favore della greve rappresentazione di un inferno stralunato che trova il suo culmine nel boato della scoreggia finale di Satanasso e nell'espulsione dei frati dall'ano del mostro.

Si è ben lontani dalla rappresentazione, teofanica e lancinante, del Giudizio giottesco del Decameron; mentre in quel caso l'artista sapeva ancora porsi di fronte alla pura sacralità dei corpi e delle cose, nei Racconti di Canterbury l'artista si ripiega su se stesso, sulla propria erudizione e sulla tradizione letteraria [227] , ed inizia a percepire dietro l'angolo la scomparsa e il rifiuto di quei corpi e di quelle cose (l'abiura).

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