IL FIORE DELLE MILLE ED UNA NOTTE dalla Tesi di laurea di Fabio Frangini

1. Il florilegio sinfonico [228] .

Mentre per i primi due film della Trilogia della vita è stato proficuo un confronto tra l'autore del testo letterario e il regista del film, nel caso delle Mille e una notte ci si trova, fin da subito, di fronte “all'impossibilità materiale” di un tale confronto. Come è noto, infatti, il novelliere non è frutto del lavoro di un unico autore, né tantomeno di un'unica età storica o di un'unica zona, bensì è il risultato di una lunga stratificazione e di una secolare rielaborazione in senso popolare di molteplici fonti appartenenti a diverse culture e a epoche diverse.

Su una base indubbiamente indiana [229] , infatti, si innestano componenti persiane, irachene ed, infine, egiziane; in modo tale che alla disparità delle origini corrisponde una diversità degli stili, dei generi e persino degli esiti letterari. Le Mille e una notte - come è logico aspettarsi data la molteplicità degli strati, delle fonti e il diverso talento artistico dei vari (e anonimi) autori e rimaneggiatori – “sono un'opera composita e di diseguale valore, in cui accanto a parti eccellenti ve ne sono altre mediocri e altre insignificanti e scadenti [230] . A tale tendenza “disgregatrice” si contrappone, però, la valenza unificante ed assimilatrice che hanno avuto i secoli di tradizione e rielaborazione popolare; infatti, sempre il Gabrieli dice:

“Tanta e così disparata materia d'origine aria e semitica, indiana e iranica, mesopotamica ed egiziana (e potremmo anche aggiungere giudaica e sirio-cristiana, e perfino, in qualche parte più recente, occidentale), è livellata se non fusa sotto una patina unitaria, che le dà un aspetto letterariamente abbastanza uniforme.“ [231]

Inoltre:

“Questa patina conguagliatrice potremmo chiamarla assai più musulmana che araba, nonostante che la lingua sembri suggerirci quest'ultima denominazione. In realtà, il genuino spirito ed ethos dell'antico arabismo è estraneo alle Mille e una notte, per quanto in verso e in prosa esse volentieri parlino d'Arabi, di beduini, di deserti. (…) nel loro complesso le Mille e una notte sono il prodotto di una matura civiltà cittadina, etnicamente assai composita e lontana non solo dalla primitiva vita del deserto (gli Arabi beduini compaiono per lo più in veste di predoni e banditi), ma anche dalla grande storia dei primi secoli dell'Islam, dei califfi e delle conquiste, di cui nelle nostre novelle non restan più che vaghi anacronistici ricordi.” [232]

Il punto di vista espresso da questa civiltà cittadina, poi, è un punto di vista prevalentemente popolare; il mondo splendido e abbacinante dei palazzi principeschi, come quello popolato dalle apparizioni fantastiche dei ginn e delle fate, sono visti attraverso “gli occhi avidi e curiosi del popolo”, infatti:

“…appena si incrina la stilizzazione del fantastico e del meraviglioso, ecco far capolino l'autentica vita popolare di una metropoli medievale d'Oriente (…) i suoi veri protagonisti sono sensali, bagnini, cambiavalute, asinai e barbieri, sarti e tintori, cuochi e acquaioli che si urtano per la strada e il suq, si affollano nelle botteghe e i khan, ed intessono fra loro le trame delle novelle realistiche, o mettono tocchi di realismo nelle scialbe e monotone storie d'amore e avventura dei figli di re e dei magnati.” [233]

Per la prima volta, dunque, all'interno della Trilogia della vita e nel confronto con un testo carico dei secoli della tradizione letteraria, Pasolini si trova di fronte, in primo luogo, ad una “scomparsa dell'autore”, ad un suo dissolversi nelle mille mani e nelle mille bocche e orecchie della tradizione orale e scritta; quindi ad un venir meno di quel fecondo incontro tra due personalità e due sensibilità diverse (quella dell'Auctor e quella del regista) che aveva caratterizzato i primi due film, in favore di un'immersione nella magmatica e ribollente stratificazione di più epoche e di più culture che caratterizza il novelliere musulmano. Inoltre, in secondo luogo, nella scelta delle novelle che avrebbero composto la sceneggiatura del film, Pasolini non dovette operare una scelta paragonabile a quella fatta a suo tempo per il Decameron e per i Racconti di Canterbury, cioè non dovette ritagliarsi delle “sue” Mille e una notte epurandone gli elementi cortesi o borghesi in favore delle più schiette ambientazioni popolari. Infatti, come si è visto, tutte (o quasi tutte) le Mille e una notte possono essere considerate come riunite ed assimilate da una visione popolare “dal basso”; così il più umile dei mendicanti e lo splendido califfo Harún ar-Rashíd, passando per i mille mercanti ed artigiani che compongono il mosaico versicolore dell'opera, partecipano di una stessa cultura, uno stesso linguaggio, in un certo senso anche di una stessa dignità.

Questo non vuol assolutamente dire che, in occasione del Fiore delle Mille e una notte, Pasolini rinunci ad una “sua” visione dell'opera accettandone acriticamente i contenuti senza rielaborarli alla luce della propria sensibilità [234] , ma che, nel porsi di fronte all'opera da trasporre cinematograficamente, il regista rinuncia a quella visione parziale e fortemente angolata che aveva contraddistinto il suo approccio a Chaucer e a Boccaccio, in favore di un approccio frontale che non trascura né privilegia nulla (almeno a priori). Ed è questo approccio che, secondo me, ha indotto Pasolini a preporre quel “Fiore” al titolo del suo film, poiché solamente l'opera tratta dalle Mille e una notte può essere considerata un'antologia esemplare [235] del novelliere a cui fa riferimento; mentre gli altri due film, pur ispirandosi ad opere relativamente meno vaste, ne escludevano elementi fondanti e cruciali (ad esempio l'epopea borghese del Decamerone e la forte componente moraleggiante ed esortativa dei Canterbury Tales).

1.0.  La struttura

“L'inizio del film è diventato graffiato e un po' sommario anche perché ho tolto un quarto d'ora. Per esempio, alla scena della vendita della schiava, che è «rubata», ci arrivavi in un disegno più pacato, più costruito. Questo accorciare ha reso l'inizio più impressionistico. Nella seconda parte, e questo non è più casuale, scatta l'invenzione a scatole cinesi. Una serie di figure realistiche, che man mano vedi essere incastrate in altre figure realistiche, diventa serie di figure di finzione” [236]

Rintracciare le singole novelle su cui si basano gli episodi del film non è del tutto agevole. Innanzi tutto perché, come si vedrà fra poco, la struttura del film non è costituita, come nei primi due film, da una rigida successione di episodi a sé stanti, ma da un'elaborata struttura ad incastro di alternanze e di racconto nel racconto; in secondo luogo per la trasformazione e il riadattamento che subiscono singoli brani di novelle all'interno del film; infine, anche se hanno rappresentato una difficoltà minore, il cambiamento di molti nomi dei protagonisti e il ricorso sporadico (per alcuni aspetti marginali di alcune novelle) ad un testo diverso rispetto all'edizione Einaudi (che considero, come ho detto, l'edizione base [237] ).

Il lungo episodio di Zumurrud e di Nur ed-Din è tratto dalla Storia di Alì Shar e della schiava Zumurrud [238] , con l'aggiunta del piccolo aneddoto di Harún ar-Rashíd e le tre schiave [239] nella scena in cui Nur ed-Din viene massaggiato dalle tre ragazze che lo hanno sollevato con una carrucola, e con l'inserimento di una parte della Storia del facchino e delle ragazze [240] nelle scene del lavoro di Nur ed-Din come facchino e de “l'indovinello della piscina”.

Il gruppo dei tre piccoli episodi che hanno come elemento unificatore il sovrano Harún ar-Rashíd si rifanno rispettivamente (dal primo all'ultimo) alla Storia di Harún ar-Rashíd e di Zobeida [241] , alla Storia di Abu Nuwàs e di Harún ar-Rashíd [242] , e ad una novella che non compare nell'edizione Einaudi ma che si rifà, probabilmente, ad una parte della Storia del principe Camaralzaman che compare nelle edizioni [243] tratte dalla traduzione francese del Galland.

Infine, le storie di Tagi e di Azíz sono tratte (rispettando le modalità dell'inserimento dell'una nell'altra presenti nell'originale) dalla Storia dell'amante e dell'amato: Tagi al-Mulúk e Dúnya e dalla Storia di Azíz e Aziza [244] , con l'inserimento dei racconti dei due monaci che in realtà appartengono alla già citata Storia del facchino e delle ragazze.

Come ho già accennato più sopra, è l'episodio di Zumurrud e di Nur ed-Din quello che in questo film ricopre la funzione di cornice unica, su cui si innestano “per geminazione” gli altri racconti che, a loro volta, ne generano altri; quindi, a differenza del macro-episodio dell'Allievo di Giotto nel Decameron che era legato agli altri episodi del secondo tempo da un rapporto “creatore-creazione”, gli intrecci tra “l'episodio-base” e gli altri si moltiplicano e diventano più intricati per la molteplicità dei piani narrativi e del rapporto “narrante-narrato”.

Ed è per questo motivo che ho definito come “sinfonico” (mutuando l'aggettivo – come ho detto – da un'affermazione di Lino Micciché) il florilegio che costituisce il film; infatti i rapporti e le cesure tra i singoli episodi - che possono permanere in sottofondo quando inizia la narrazione di un nuovo racconto, per poi ripresentarsi riprendendo il “il filo melodico” dove era stato interrotto [245] - possono ricordare in maniera affascinante le successioni e i ricorsi dei vari temi melodici all'interno dei movimenti di una sinfonia.

La struttura del film può essere riassunta in questo modo:

 

- Zumurrud e Nur ed-Din [246] I

 


- Zeudi e Harún ar-Rashíd

 

(Zumurrud legge a Nur ed-Din)                - Sium

 

- Bershame e Giana

 

 

- Zumurrud e Nur ed-Din II

 

 

 


- Dúnya

 

- Tagi I

(Azíz racconta a Tagi)        - Azíz e Aziza

(Munis legge a Nur ed-Din)

- Tagi II                                          - Shazaman

(I due monaci raccontano a Tagi)     

- Yunan

 

- Tagi e Dúnya

 

Zumurrud e Nur ed-Din III

 

 

Un altro elemento notevole del Fiore delle Mille e una notte rispetto agli altri film della trilogia è la mancanza del personaggio dell'Autore interpretato dal regista stesso. Apparentemente, questo sembrerebbe dovuto esclusivamente alla mancanza effettiva di un autore per tutte le Mille e una notte, quindi dell'impossibilità pratica di introdurre un personaggio simile al Pasolini\Allievo di Giotto o al Pasolini\Chaucer (e con le stesse valenze metafilmiche).

Ma questo non è del tutto vero.

Infatti a questo punto è opportuno fare una breve digressione sulla sceneggiatura originale e sul tipo di cornice e di struttura che Pasolini aveva, in un primo tempo progettato.

Il film si sarebbe dovuto aprire con delle riprese ambientate nel Cairo contemporaneo, “città immensa e informe, in cui la tradizione e la modernità si mescolano in modo caotico, come fango e polvere [247] ; in questi squarci di una città del terzo mondo affacciata al mondo neocapitalista si aggirano quattro ragazzi, “giovinetti sottili come spade, e se non proprio «belli come lune», quasi [248] che si recano, infine, in un palmizio ai margini della città. In questo posto isolato, i quattro (Mohamed, Ahmed, Alì e Nur ed-Din) dapprima giocano una partita a pallone, quindi, continuando a parlare il loro “incomprensibile arabo”, si distendono all'ombra di un cespuglio di fichi d'india ed iniziano a masturbarsi:

“Infine, con un sorriso leggero, ma senza colpa, quasi come una abitudine, una segreta tradizione, Mohamed slaccia la cinta dei blue-jeans, e faticosamente, dalla cerniera rotta, tira fuori il suo membro già eretto, secco, pulito, potente. Anche gli altri, sempre parlando fra loro, a frasi interrotte, e con risa leggere, fanno come lui; e cominciano a godere da soli guardandosi l'un l'altro.

Mohamed si getta con la testa indietro, posando i ricci sulla terra rossa, e continua a masturbarsi, guardando in alto (nel cielo spietatamente azzurro, dove esalano i rumori volenterosi della città, e le sue musiche ingenuamente strazianti dai motivi eternamente uguali).

Gli occhi di Mohamed, neri e opachi che sembrano effondere la loro luminosità nella pelle trasparente, sono fissi i un'immagine. Un'immagine ricca e immobile come un cristallo.” [249]

E in questo momento inizia la “visione di Mohamed”, ovvero il primo episodio del Fiore delle Mille e una notte. Tutti gli episodi del primo tempo, infatti, dovevano essere introdotti come visioni, come apparizioni dei fantasmi di un'epoca remota che si presentassero agli occhi “fissi e concentrati nel vuoto” di ciascuno dei ragazzi.

In questo progetto della cornice del primo tempo del film, si sarebbero presentati, con ugual forza e uno di fianco all'altro, gli elementi e i simboli su cui si è visto essere fondata tutta la Trilogia della vita [250] : il rapporto antitetico ed esorcizzante nei confronti della cultura (o postcultura) e del mondo neocapitalista (rappresentato dal Cairo moderno), ma anche l'angosciata e disperata constatazione della irrimediabile “vittoria” e “colonizzazione” di questo mondo ai danni del retaggio secolare della cultura del popolo (i jeans che avvolgono i corpi dei “giovinetti sottili come spade”); il recupero del mondo scomparso attraverso il sogno, la visione, ma, soprattutto, attraverso la centralità assoluta di quel “membro già eretto, secco, pulito, potente” visto come il  simbolo per eccellenza del corpo e della sessualità.

Inoltre, Pasolini aveva progettato di collocare al centro del film un lungo intermezzo basato sul gruppo di novelle appartenenti alla Storia del sarto, del gobbo, dell'ebreo, del soprintendente e del cristiano [251] , novelle che, come si è visto, non sarebbero comparse nella versione definitiva del film.

Ma è nel progetto di sceneggiatura del secondo tempo su cui si addensano i motivi di maggior attenzione, e di maggior fascino.

Nel prologo di questa parte del film, sarebbero ritornati i quattro ragazzi del primo tempo che, ancora discinti, stanno distesi all'ombra del palmizio mentre il sole sta lentamente calando. Nella descrizione del regista si delinea con più nettezza il panorama della periferia della città moderna (così simile ma anche così straziantemente diverso dalle borgate romane degli anni Cinquanta):

“Il sole è calato un po', la sua luce, più radente, illumina il povero palmizio, coi mucchi di rifiuti, e le casupole di periferia, di una molle luce rossastra.

Più acuti e accorati giungono i suoni dei clacson e le canzoncine della radio: coperti per qualche istante dal rombo di un aereo che solca il cielo azzurro, così azzurro da sembrare irreale, come il cielo di un mosaico o di una miniatura” [252]

Quand'ecco che si avvicina al palme si avvicina uno straniero “che si aggira come se cercasse qualcosa, o osservasse qualcosa con assorto interesse”, è l'autore del film che, grazie ad alcuni particolari inconfondibili, si deduce sarebbe dovuto essere impersonato da Pasolini stesso:

“È l'autore del film, vestito del resto quasi come i quattro ragazzi cairoti. Egli cammina eccitato e assorto. Guardando intorno a sé così avidamente che quasi ha un'espressione stanca e esausta nel viso.

A un tratto tira fuori un bloc-notes a quadretti, da poche lire, e prende disordinatamente appunti indecifrabili, buttati giù con nervosismo esaltato.

Poi gira ancora intorno il suo volto magro e il suo sguardo febbrile.” [253]

Tipico di Pasolini è anche il dialogo che, di lì a poco, l'autore instaura con i ragazzi, chiedendo ad ognuno il lavoro che fa; quando però la domanda gli viene rivolta da uno dei ragazzi, ecco che inizia la parte più scopertamente metafilmica della sceneggiatura originale e, se Pasolini l'avesse mantenuta nel film, di tuta la Trilogia della vita:

“L'autore allora accarezza anche il più grande, Nur ed-Din sulla cadopa nera.

Nur ed-Din (accettando la carezza): E tu, che lavoro fai?

Autore: Lo scrittore…

I ragazzi lo guardano ammirati.

Nur ed-Din: E che cosa scrivi?

Autore: Poesie, racconti…

Nur ed-Din: E di che cosa parlano?

Autore (sorridendo): Di niente: sono fiabe!…” [254]

A questo punto inizia una vera e propria dichiarazione di poetica, in cui risuonano (un po' forzatamente) le argomentazioni del regista attorno all'impegno e al ruolo dell'artista nella società (e con una punta – ironica - della polemica “anti-neo-zdanovista”):

“Poi li guarda un po', come scrutandoli, oppure come se li conoscesse da sempre.

Autore: Voi pensate che uno scrittore debba solo scrivere cose che aiutino il popolo nella sua lotta?

Nur ed-Din: Sì!

Autore: Siete tutti d'accordo su questo?

Anche gli altri acconsentono, con dignità e con timidezza.

Autore: Ma voi pensate che… mettiamo, anche un feddayn che fa la guerra… durante le pause della guerra… col fucile tra le gambe… non abbia diritto a sognare o ad ascoltare anche storie che non riguardano la sua lotta?

I ragazzi sono incerti, non capiscono bene il problema, e aspettano…

Allora l'autore, sorridendo, come scherzando con loro, fa un gesto retorico, che non farebbe mai se non sorridendo e scherzando: alza il pugno chiuso.

Autore: Io sono comunista, e nella vita sono insieme con gli operai che lottano per la loro libertà e i loro diritti.

Però non posso per questo rinunciare alla mia libertà e al mio diritto di raccontare fiabe!

I ragazzi sorridono, comprendendolo abbastanza, e assentendo…

(…)

L'autore resta sempre, scherzoso, col pugno chiuso teso in alto…

Autore: E raccontando le mie libere fiabe, non voglio scandalizzare solo i piccolo-borghesi, ma anche i piccolo-borghesi comunisti!

(…)

Autore: I giovani che disapprovano da sinistra il sesso e la gioia di vivere sono figli dei vecchi che li disapprovano da destra…

(…)

Autore: Bisogna avere la libertà di raccontare storie politiche, non l'obbligo di raccontare storie politiche!” [255]

Dunque, in queste parole, si ha il riconoscimento della propria matrice politica (sicuramente scherzoso ma senza aver portato l'antifrasi fino in fondo) fatto attraverso il gesto del pugno chiuso e il ricorso ad una affermazione intrisa (forse anche qui un po' scherzosamente) dalla “pura luce” degli anni Quaranta (“Io sono comunista, e nella vita sono insieme con gli operai che lottano per la loro libertà e i loro diritti.”); ma, accanto a questo, si ha anche la rivendicazione della libertà dell'artista e, soprattutto, la constatazione che, accanto ai soliti piccolo-borghesi, ora sono sorti i piccolo-borghesi comunisti, ugualmente da scuotere e da scandalizzare attraverso il sesso e la gioia di vivere presenti nell'opera dell'artista.

Finita questa parte che, come si è visto, è quella più esplicitamente connotata dal punto di vista metafilmico e programmatico, inizia una parte in cui le ragioni della poetica tornano ad essere meno scoperte, ma non per questo meno forti (anzi), calandosi all'interno di quel linguaggio delle cose, dei gesti e dell'eros che Pasolini individuava (nel bene e nel male) come il più forte e pregnante [256] :

“[subito dopo la fine delle enunciazioni suddette] È indubbiamente un grido conclusivo. E tutto scende ilarmente di tono, alle cose normali e sempre leggermente peccaminose della vita.

Autore (a voce bassa e con tono leggero): Come vi chiamate?

Ragazzi: Mohamed… Ahmed… Nur ed-Din… Alì…

Autore: Come siete belli! Uno più bello dell'altro!

E accarezza con ancora maggiore tenerezza la lieve guancia bruna e imberbe di Alì, stringendoselo un po' a sé. Alì lascia fare come un innocente cucciolo.

Ma l'autore si rivolge per primo al più grande, Nur ed-Din, e, forse con un po' di batticuore, gli chiede:

Autore: Nur ed-Din, posso darti un bacio? Vuoi?

Nur ed-Din trova la cosa naturale, e sorride socchiudendo gli occhi e stringendo la testa appena tra le spalle, come a dire: «Eccomi qua!».

L'autore si stacca da Alì, e si avvicina a Nur ed-Din, lo prende per le spalle, lo rovescia appena sulla polvere rossa, e posa le labbra sulle sue labbra carnose: dapprima leggermente, poi premendo sempre più forte. Nur ed-Din chiude gli occhi.” [257]

E su questo bacio tra l'autore e il ragazzo si sarebbe inserita (come una visione di quest'ultimo) la novella di Zumurrud e Nur ed-Din, alla cui fine si sarebbe ritornati al palmizio alla periferia del Cairo per un nuovo bacio ad un altro ragazzo e per l'inizio di un nuovo episodio; in modo tale che queste inquadrature avrebbero costituito (analogamente a quelle delle masturbazioni del primo tempo) una sorta di proto-cornice al film.

Anche questa volta la visione trasognata della novella delle Mille e una notte è legata al motivo erotico, ma ad esso si aggiunge la presenza (al tempo stesso affascinante e inquietante) dell'autore “reale” del film.

In questa presentazione, incontestabilmente intrisa di dichiarato e coraggioso [258] autobiografismo, di uno dei probabili incontri di cui era colma la vita di Pasolini, si manifestano soprattutto (aldilà dell'autobiografia, ma senza ignorarla) elementi significativi dal punto di vista dell'espressività artistica. L'autore, infatti, conosce e può recuperare alla sua arte il mondo di cui piange la scomparsa, immergendosi nell'esistente, ricercando e “vivendo su di sé” ciò che ancora rimane al di fuori del nuovo mondo (quest'ultimo rappresentato simbolicamente dal Cairo nuovo che si allunga verso la periferia, con i suoi clacson e i suoi aerei).

Di questa cornice, nel film, non è rimasta alcuna traccia evidente, forse perché la presenza di un Autore così nettamente definito sarebbe risultata pesante nei confronti dell'economia del film e avrebbe costituito un'inutile zavorra per quel lieve gioco di sogni che è Il fiore delle Mille e una notte; io ho preferito comunque riportarne le caratteristiche e i motivi perché in essi risiedono molte chiavi interpretative del film e della trilogia.

2. La folle umanità del potere e la liberazione del sesso [259] .

Nei capitoli prercedenti si è tentato di dimostrare come, soprattutto nei Racconti di Canterbury, alla presenza e all'azione del potere nella storia, corrispondesse una tendenza corruttrice e degradante che agiva sul rapporto dell'individuo con il proprio corpo e con la propria sessualità, facendo assumere a questo rapporto l'aspetto di una manifestazione del potere stesso, con le sue violenze, le sue prevaricazioni, le sue castrazioni, la sua irrealtà.

Nel Fiore delle Mille e una notte, invece, questa incombente presenza carica di presagi ferali (si era parlato di un'anticipazione di Salò) sembra scomparire del tutto, lasciando il posto in favore di un diverso tipo di potere che, invece di rappresentare un “altro” irreale e distruttivo, partecipa della stessa realtà delle cose, degli uomini e dei corpi, e non ha più, verso quest'ultimi, una valenza nevrotizzante o repressiva.

Questo tipo di potere, in quanto espressione della stessa cultura barbarica del popolo a cui è applicato (e non più, quindi, antagonista implacabile e dalle aspirazioni egemoniche su questa cultura), può manifestarsi anche con crudeltà e dispotismo (vedi, ad esempio, le due spietate crocifissioni ordinate da Zumurrud\Wardan), ma senza mai venir meno a quella concezione sacrale della vita (e della morte) su cui questa cultura si fonda; in poche parole la violenza, la tortura, persino l'assassinio non implicano mai la dissacrazione del corpo e la sua riduzione a vile merce di scambio o a materia inerte nelle mani del potere [260] (Salò).

Quanto ho appena detto risulta evidente se si prende in considerazione il gruppo di piccoli episodi che può essere chiamato, riassuntivamente, come “gruppo di Harún ar-Rashíd” e di cui fanno parte le tre novelle, legate tra loro, lette da Zumurrud a Nur ed-Din nella prima parte del film.

In questi tre episodi, ambientati in un'Etiopia annegata nel sole subequatoriale, il potere barbarico e astorico di cui si è parlato si manifesta nella persona di Harún ar-Rashíd [261] , il sovrano perennemente sorridente che nel primo episodio, mentre si avvicina di soppiatto per spiare Zeudi che fa il bagno, sembra un vecchietto spiritato tutto preso dal suo folle e gioioso desiderio del corpo della moglie. Questa gaia follia sembra essere il tratto distintivo del sovrano, sembra guidare i suoi innocui capricci, la sua insaziabile curiosità, e fanno ritrovare al potere una qualità che gli era finora sconosciuta: l'umanità [262] .

Umanità del potere che non si limita al solo ritratto di Harún ar-Rashíd, ma può essere estesa a tutti i sovrani che compaiono all'interno del Fiore delle Mille e una notte (il padre bonario di Yunan e il re che ospita Shazaman trasformato in scimmia); così come il suo aspetto folle, leggero, demistificatorio (e demistificato) che ritorna, ad esempio, nella processione in pompa magna per la presentazione a corte della scimmia, oppure alle risate che accompagnano il disvelamento (dagli ingombranti ornamenti regali) del corpo nudo di Zumurrud\Wardan ad Hayat, la sua novella sposa [263] , eccetera.

Di pari passo con questa trasformazione radicale del potere, procede una conquista che fin'ora era anch'essa ignota, la conquista del corpo e la liberazione del sesso, in particolare della sessualità omosessuale. Il fiore delle Mille e una notte, infatti, più che per l'amore eterosessuale pieno e pacificato di Zumurrud e di Nur ed-Din o di Tagi e Dúnya [264] , si distingue dagli altri due film della trilogia per i rapporti omosessuali finalmente liberati dalla cappa ossessiva del peccato (Ciappelletto) e della repressione (il Racconto del Frate). Difatti, già nel Decameron, l'amore eterosessuale poteva realizzarsi compiutamente al di fuori di ogni nevrosi; mentre è solo nell'ultimo film della Trilogia della vita che l'omosessualità può raggiungere questa pienezza e riassaporarne la realizzazione [265] .

Le parti del film in cui il rapporto omosessuale viene trattato esplicitamente sono in tutto quattro, ma di queste solo due sono in qualche modo significative.

La prima è la piccola storia del poeta Sium (nell'originale Abu Nuwàs) che invita tre giovani ad un banchetto nella sua tenda (“Mangiamo, beviamo, poi voi riprendete piacere l'uno dall'altro e, se volete, tutti insieme date piacere a me”); ma, mentre nel testo delle Mille e una notte l'allegro banchetto veniva interrotto dal sopraggiungere sdegnato di Harún ar-Rashíd (che poi avrebbe minacciato di condannare a morte il poeta), nel film il sovrano non compare e l'episodio rimane come sospeso nella contemplazione del sereno godimento di Sium.

Questa mancanza dell'arrivo di Harún ar-Rashíd (quindi questa mancanza del momento repressivo del potere) conferma quanto si è detto a proposito della liberazione del sesso e della piena realizzazione dell'omosessualità.

In questo episodio, inoltre, nel personaggio del poeta Sium, sembrerebbe ritornare in germe – e come fantasma – la figura del regista che, come si è visto, era presente nella stesura della sceneggiatura originale; basti pensare alla scena dei baci e delle poesie dedicate ai tre giovani che potrebbe ricordare le scene analoghe dei baci all'ombra del palmizio che erano previste nel progetto originario del film; ma, soprattutto, ci si dovrebbe soffermare su una battuta del poeta:

Sium: Ehi voi, ragazzi! Posso leggervi questi miei versi? Li ho scritti tanti anni fa quando ancora ero giovane quasi come voi: (apre un libro e legge) «Un annoso vecchio con voglie giovanili ama i bei ragazzi, ha la passione dei divertimenti. Si alza la mattina nello spirito di Mossul!. Ah, città della purezza! Ma non sogna altro tutto il giorno che la vita peccaminosa di Aleppo!

La battuta non è interessante per la poesia in sé, che non è invenzione pasoliniana ma è presa dal testo del novelliere, ma per il fatto che questi versi, introdotti come “scritti tanti anni fa quando ero giovane quasi come voi”, ricordino nel loro contrasto tra purezza e peccato molte composizioni di Poesie a Casarsa (scritte, appunto, in gioventù), tra cui:

“Ciantànt al mè spiéli
ciantànt mi petèni…
al rît tal mè vùli
il Diàul peciadôr.

Sunàit, més ciampànis
paràilu indavòur
(…)

Cantando al mio specchio, cantando mi pettino… - ride nel mio occhio – il diavolo peccatore – suonate mie campane – cacciatelo indietro…”

Il secondo [266] momento in cui si ha la rappresentazione di un rapporto omosessuale è all'interno dell'episodio di Yunan (uno dei due monaci che lavorano al mosaico nel giardino di Dúnya) quando il giovane incontra il ragazzo nascosto sottoterra, e fa un bagno insieme a lui per poi addormentarcisi insieme. Il fatto che Yunan, in seguito, accoltelli nel sonno l'amico appena incontrato, non deve essere considerato come una negazione della felicità del rapporto o della possibilità della sua realizzazione; ma solamente come un realizzarsi dell'ineluttabilità di un tragico destino avverso. Se l'appagamento sessuale è solo sfiorato, o toccato per qualche istante, per il sopravvenire della morte, esso rimane intatto e autentico, e quindi non represso né degradato, nella pura bellezza del corpo di Yunan più volte inquadrato (quasi a volerlo preservare) nella fissità dell'inquadratura frontale.

Un'ulteriore ritorno del tema dell'omosessualità (seppur all'interno di una beffa) si ha alla fine del film, quando Zumurrud travestita da re Wardan fa credere a Nur ed-Din di voler avere con lui un rapporto contro natura; alle iniziali comiche schermaglie del ragazzo segue, dietro scherzosa minaccia di morte della ragazza, l'altrettanto comico cedimento rassegnato alla volontà del sovrano, che ben presto rivela la propria identità facendosi toccare il pube. Se, da un lato, sembrerebbe esserci una contaminazione tra coercizione e omosessualità [267] , la rivelazione e le risate finali alleggeriscono immediatamente il racconto, e permettono al film di chiudersi, all'insegna del ritrovamento e della consolazione, con il sospiro di Nur ed-Din: «Che notte! Dio non ne ha creato di eguali! Il suo inizio fu amaro, ma come dolce la sua fine!»

3. Leggerezza e Fedeltà.

“La fedeltà è un bene, ma è un bene anche la leggerezza.”

Questa frase non compare nel testo delle Mille e una notte, dove la parole pronunciate salvifiche dette da Azíz a Budur la pazza [268] sono un banale: “La fedeltà è buona e l'inganno è cattivo”; ma, d'altro canto, la frase è assente anche nella sceneggiatura originale, dove si legge: “La fedeltà è bene, la leggerezza è male”, dunque la sistemazione definitiva di questa frase, nella forma con cui compare nel film, deve essere avvenuta in un momento ulteriore del lavoro pasoliniano.

Questo vuol dire che, almeno in una fase preliminare, il rapporto tra leggerezza e fedeltà – che, in un certo senso, informa tutto l'episodio (e forse tutto il film) svelandone il significato e la morale interna – non era ancora un rapporto complementare (seppur di una complementarietà che sfiora l'ossimoro) ma era tutto giocato su una netta opposizione tra le due qualità. Di questa “tardiva modificazione” del testo delle Mille e una notte bisogna, dunque, tener conto qualora si voglia interpretare l'episodio ed analizzarne le dinamiche interne.

All'interno del racconto la fedeltà è chiaramente impersonata da Aziza - che nasconde il suo divorante amore per il cugino e la lenta morte a cui questo la conduce, per aiutarlo a conquistare Budur e ad essere felice - mentre la leggerezza si manifesta, altrettanto chiaramente, nel comportamento di Azíz, che si macera nell'amore per la bella sconosciuta e persegue ansiosamente il suo sogno, senza accorgersi minimamente delle condizioni della cugina.

L'indifferenza di Azíz, però, non è così candida come apparentemente potrebbe sembrare, ma risponde ad una precisa scelta morale: Azíz, in realtà, decide consciamente di fingere di ignorare l'amore di Aziza e di lasciarla a struggersi nella propria sofferenza. Illuminante, a tal proposito, è una scena che altrimenti apparirebbe piuttosto enigmatica. Azíz è appena ritornato da un ennesimo incontro con Budur e trova inaspettatamente sua madre:

Azíz: Dov'è Aziza?

Madre: È su in terrazza, tutta sola, che piange.

Azíz (meravigliato): Cos'ha?

Madre: Ma che cuore hai di lasciarla così, senza nemmeno chiederti di che male soffre!

Azíz resta per un attimo sovrappensiero, poi esce correndo in terrazza.

Come vede Aziza, Azíz fa finta di ignorarla. Si siede col viso rivolto verso i tetti della città.

Aziza (dolcemente): Azíz! Azíz! Allora Azíz, le hai recitato quei versi? [si riferisce a quei versi che Aziza chiede, ogni volta, ad Azíz di ripetere a Budur]

Azíz: Sì! E lei mi ha risposto con questi versi: «Chi ama deve nascondere il proprio segreto e rassegnarsi».

Aziza (chinando la testa come se proseguisse il discorso): «Egli ha cercato di rassegnarsi, ma non ha trovato in sé che un cuore disperato dalla passione». Domani mattina, quando la lasci, recitale i versi che ho detto ora. Hai capito?

Azíz: Sì… sì…

L'attimo in cui Azíz resta pensieroso, e il modo quasi risentito con cui sopravanza Aziza e va a sedersi sul limite della terrazza per gettare uno sguardo panoramico sulla città, tradiscono la “malafede” del giovane e la mancanza di innocenza da parte della sua leggerezza.

Ma questa leggerezza, comunque, è fonte di bellezza, è fonte di grazia e permette ad Azíz, quando Budur decide di ucciderlo, di salvarsi la vita per ben due volte (anche se la seconda gli costerà la perdita della virilità).

A questa leggerezza, come si è detto, ribatte la fedeltà disumana di Aziza, che immola se stessa nel tentativo di appagare il desiderio del cugino per la bella sconosciuta. Nel suo sentimento assoluto e silenzioso, e nella struggente mansuetudine delle sue azioni, Aziza ricorda il personaggio di Lisabetta del Decameron; come per la ragazza innamorata di Lorenzo, infatti, il pianto di Aziza rimane concentrato e nascosto nella limpidità dei suoi occhi azzurri, e nella lucida constatazione (liricamente intensissima) di quel “Io morirò” pronunciato, con voce sommessa ma chiara, mentre sta vegliando sul sonno di Azíz.

Questo discorso sulla fedeltà e sulla leggerezza si complica ulteriormente se ci si sofferma a pensare, anche per un attimo, che la parte di Azíz è interpretata da Ninetto Davoli; e se si ricordano i versi (già citati, a proposito dell'episodio del Racconto del Cuoco nel capitolo precedente) di due sonetti scritti solo pochi mesi prima delle riprese del Fiore delle Mille e una notte [269] :

             (…)
Siete o non siete un altro, mio tremendo

Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.

                (…)”

 

             (…)
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n'è rimasto

un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.”

È davvero piccolo lo sforzo che si deve fare per immaginare questi versi pronunciati dalla piccola Aziza, così come compare all'interno del film; e altrettanto piccolo è lo sforzo che occorre per vedere in quel “tremendo Signore che non sa cosa gli capita” e che, “leggero”, distrugge “gaiamente” quell'amore “così casto”, il ritratto di Azíz che, gaio e nel contempo crudele (perché non innocente), è trascinato via prepotentemente dal desiderio per Budur.

Ma mentre nei Racconti di Canterbury Pasolini aveva interposto tra sé e Ninetto lo schermo codificato della citazione chapliniana, in questo caso il regista riesce ad affrontare senza filtri interposti la materia del racconto, e ad approdare al lucido e sublimato riconoscimento che, se la fedeltà è un bene, allora lo è anche la leggerezza; e, dunque, se è vero che Ninetto ha scelto di “obbedire” - come dice Pasolini rivolgendosi a lui in un sonetto qui non riportato [270] - a un destino che vi vuole povero”, è altrettanto vero che non è “scomparso dalla vita” del poeta, ma gli rimane accanto con la sua “lieve gaiezza” così diversa, ma anche così necessaria, alla “fedeltà” pasoliniana verso “quel nostro amore così casto”.

Sotto il segno duplice della leggerezza e della fedeltà (ma solo fino a un certo punto) può essere vista la vicenda di Zumurrud e Nur ed-Din; infatti, alla costante resistenza che la ragazza oppone a chi vuole dominarla e possederla, sembrerebbe contrapporsi la leggerezza di Nur ed-Din nel soddisfare le richieste delle donne che incontra nel suo peregrinare in cerca dell'amata schiava. Dico “sembrerebbe” perché le azioni dei due giovani sono, in realtà, guidate dal diverso e contrario presentarsi della fortuna e dal diverso atteggiamento richiesto da ciò che è tratto in sorte. Zumurrud, infatti, deve continuamente affrontare personaggi o situazioni ostili: il furioso Rashid, Giawan il ladro curdo, il pericolo di essere uccisa qualora venisse scoperta la sua reale identità quando si spaccia per Wardan, eccetera; mentre tutti gli incontri che fa Nur ed-Din (a parte il malvagio Barsum il cristiano all'inizio dell'episodio) sono di donne benefiche che lo aiutano nella sua ricerca di Zumurrud o che lo accolgono quando è prostrato dalla stanchezza e dalla sofferenza. Il rapporto sessuale con queste è visto come un gioioso ringraziamento e un temporaneo risollevamento dell'animo a cui segue, ben presto, l'angoscia per la mancanza dell'amata.

Significativo, in tal senso, è un brano della sceneggiatura originale, in cui si descrive il risveglio di Nur ed-Din dopo l'amore con Munis e le sue sorelle:

“Dopo l'amore si sono addormentati. Anche Nur ed-Din: ma solo per poco.

Infatti quando è ancora buio e non si sentono più rumori, si sveglia d'improvviso come per un cattivo sogno.

Si guarda intorno. Vede le tre donne addormentate. Vede il suo corpo nudo, i suoi vestiti sparsi per la stanza. L'ubriachezza gli è passata, il sogno è finito ed egli si mette a piangere.

Si alza, afferra i suoi vestiti, se li infila in fretta e furia e scappa fuori singhiozzando e chiamando a voce alta Zumurrud.” [271]

La leggerezza di Nur ed-Din, dunque, è molto relativa e i suoi numerosi incontri sessuali (per altro assenti nel testo delle Mille e una notte) non sono altro che delle tappe verso la sua fedele ricerca della schiava amata solo per una notte.

La fedeltà di Zumurrud, d'altro canto, è resa live dalla prontezza d'animo con cui risponde ai mutamenti della sorte; basti pensare, ad esempio, al mutamento repentino che avviene sul suo viso quando, portata da Giawan al covo dei ladri, il suo rapitore si allontana lasciandola sola con l'anziano padre dei curdi: solo un attimo prima coperta dalle lacrime, solleva il volto sorridente (per ingraziarsi il vecchio) e dice: «Scommetto che hai la testa piena di pidocchi… eh? Se vuoi, ti spidocchio un po' Vuoi? Eh? Vuoi?»; oppure si pensi al dialogo che intrattiene (spacciatasi per un uomo) con il Visir della città in mezzo al deserto, quando questi gli chiede di sposare la figlia:

Zumurrud sta per passare la soglia del palazzo, quando viene fermata dal Visir.

Visir: Prima di essere incoronato, dovrai prendere moglie. Eccola lì, mia figlia. (la indica)

Zumurrud (imbarazzatissima): E chi ti ha detto che ho voglia di prendere moglie?

Visir: L'usanza vuole così. Se disobbedisci sarai gettato dall'alto della torre.

Zumurrud (convinta): Allora sia fatta la volontà di Dio!

Si può dire, dunque, che nell'episodio di Zumurrud e Nur ed-Din il rapporto dialettico e complementare tra leggerezza e fedeltà si complichi ulteriormente intrecciandosi profondamente alle figure dei due protagonisti, secondo le modalità tipiche della sineciosi pasoliniana:

“La libertà sessuale è necessaria alla creazione? Sì. No. O forse sì. No, no, certamente no. Però… sì. No è meglio no. O sì? Ah, incontinenza meravigliosa! (Ah, meravigliosa castità.)” [272]

4. La dimensione onirica e fantastica [273] .

“[parlando del Fiore delle Mille e una notte] Il film che ne è venuto fuori è l'unione di due elementi che ci sono anche nel libro, ma che io ho un po' occidentalizzato: realismo e visionarietà. C'è tanta polvere, ci sono tante facce povere, ma c'è anche un ritmo ampio, l'illimitatezza dei sogni” [274]

“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”

Nella citazione da Le mille e una notte posta, da Pasolini, nei titoli di testa del film, si delinea un altro aspetto fondamentale del film: l'importanza del sogno, e il continuo ricercare la verità da un sogno all'altro.

Se, su un piano più ampio, tutti gli episodi del film (anche quelli, per così dire, “realistici”) possono essere considerati dei sogni, delle visioni di un mondo ormai perso irrecuperabilmente [275] , ciò che interessa ora è analizzare il rilievo che hanno i sogni, nel senso proprio e ristretto del termine, nell'economia interna dell'opera.

La vicenda sognata di una colomba che muore da sola dopo aver liberato un compagno dalla rete, ad esempio, guida le azioni della bella Dúnya che rifiuta di prender marito per aver constatato, proprio attraverso la visione, quanto sia fallace la fedeltà degli uomini. Cambierà idea solamente quando il suo sogno verrà completato [276] dalla nuova visione che prende vita nel mosaico, fattole costruire da Tagi, che le appare nel padiglione del suo giardino.

Le scene che seguono questa “rivelazione”, le lunghe sequenze silenziose dell'amore tra Dúnya e Tagi, conservano, nella loro limpidezza sospesa, il sapore del sogno della ragazza [277] che trova il suo centro onirico, ancora una volta, nell'immagine consueta del pene del ragazzo accanto al quale, significativamente, la ragazza si addormenta felice.

Un altro episodio in cui le immagini del rapporto sessuale appaiono distillate in un'atmosfera onirica, è quello di Azíz e Aziza, dove si hanno le scene, accumulate e ripetute, degli incontri amorosi tra Azíz e Budur la pazza. Queste immagini, che apparentemente sembrerebbero sondare estenuantemente le possibili varianti del rapporto erotico, in realtà debbono essere viste come una celebrazione del rapporto sessuale attraverso la citazione e la codificazione colta. Infatti, stando alla sceneggiatura originale, queste immagini (in particolare quella di Azíz che lancia una freccia a forma di fallo nella vulva della donna) dovevano appartenere all'orgia che il padre di Yunan preparava per il figlio nel tentativo di dissuaderlo dal viaggio in mare; quest'orgia, nello testo pasoliniano, è descritta come una rappresentazione a metà tra lo spettacolo e il rito iniziatico di matrice religiosa, mentre le scene di sesso sfrenato sono mutuate dalla produzione miniaturistica e scultorea indiana:

“Yunan coi suoi abiti preziosi, che lo rendono bello come un Dio, è seduto su uno sgabello, con accanto un giovane schiavo e una giovane schiava che lo servono, baciandolo e accarezzandolo. Intorno c'è la sua piccola corte.

Davanti a lui si svolge l'orgia, che il visir ha preparato come uno spettacolo o una funzione sacra. I musici suonano infatti una musica che potrebbe essere orgiastica ma potrebbe anche essere sacra.

Una trentina di coppie si congiungono davanti agli occhi del principe, nei modi più folli e impensati: così come esse sono rappresentate nelle miniature indiane o nelle sculture dei templi di Kajurao o di Madras.

Sono coiti di uomo e donna, di uomo e uomo, di donna e donna. Ma ci sono anche coiti bestiali: un cavallo, un asino, un orso possiedono donne e ragazzi.

Ma tutto avviene in una eleganza e in un raccoglimento di azione rituale.

Una donna vestita di abiti d'oro è in ginocchio, con un arco e una freccia: sulla punta di questa freccia è fissato un fallo di legno dipinto. Un'altra donna vestita d'oro è accanto a lei, col ventre scoperto e le gambe alte: con le mani sotto le cosce, essa si apre il sesso, perché la donna con l'arco possa scoccare la freccia e infilarle il fallo nel ventre.”

Pure se ci si trova di fronte ad una rassegna di tutti gli eros possibili, quanto appaiono distanti i perversi cataloghi sadiani dei quattro signori di Salò!

Il fatto di avere accennato sommariamente alla vicenda di Yunan, offre il destro per parlare del ruolo che ricopre il sogno e la visione all'interno di questo episodio.

Mentre nel caso di Dúnya il destino parlava alla protagonista attraverso le immagini, nel caso di Yunan le rivelazioni giungono, mentre questi tiene gli occhi chiusi, portate da una voce fuori scena [278] che, dapprima, gli ordina di partire per mare, quindi gli descrive il modo per abbattere il soldato di bronzo. Gli occhi chiusi, infatti, sono il motivo dominante di questo episodio; tutte le azioni decisive e scritte nel destino del giovane sono compiute come in uno stato di sonnambulismo, di veglia apparente; si pensi ad esempio alla scena dell'accoltellamento del ragazzo appena incontrato, sulle immagini dell'uccisione è sovraimpressa (espediente tecnico usato da Pasolini assai di rado) l'inquadratura in dettaglio degli occhi di Yunan immersi nel sonno, come per esprimere il dominio assoluto che ha la visione onirica sulle azioni cui il giovane era predestinato.

Accanto alla dimensione onirica, anche il fantastico ha un ruolo all'interno del film. Questo risulta evidente nell'episodio raccontato da Shazaman.

L'apparizione di un ginn, il volo sul deserto, la metamorfosi in scimmia, l'incantesimo liberatorio pronunciato dalla principessa Ibriza, tutti i motivi del meraviglioso appaiono concentrati in quest'episodio, accanto ai temi consueti del sesso e della tragicità dell'amore [279] . Ma questi motivi, in realtà, appaiono piuttosto estranei ed accessori nei confronti del nucleo centrale del racconto; sembrano più un omaggio stilizzato all'universo fantastico delle Mille e una notte.

Infatti gli elementi di principale interesse dell'episodio sono si stringono attorno all'intensità drammatica della scena della mutilazione della ragazza e alla figura del demone interpretata (ovviamente) da Franco Citti. Ancora una volta, infatti, il personaggio interpretato dall'attore romano appare come uno dei più nettamente delineati e dei più affascinanti del film. Un demone fosco e spietato, dall'aspetto terribile e vagamente zingaresco, doppiato con la stessa voce baritonale dalla vaga calata emiliana che aveva il Diavolo nel Racconto del Frate; si aggira per la città in cerca di Shazaman come un lucido assassino che insegua la sua vittima, tenendosi un velo tra i denti [280] e brandendo davanti a sé le scarpe del “traditore”, come se fossero la sentenza di una spietata condanna.

Ma, come il Diavolo del Racconto del frate poteva commuoversi ed essere giusto nelle proprie azioni o come Ciappelletto poteva sacrificarsi in punto di morte per il bene dei due usurai, così il demone del racconto di Shazaman, pur se metodicamente e barbaramente crudele nel punire la ragazza, conserva un certo senso della giustizia e conserva la vita al giovane (trasformandolo, però, in scimmia) non avendo la prova certa della sua colpevolezza.

Anche in questo caso si è ben lontani dalla cieca anarchia del potere (l'unica autentica anarchia) che vige nella villa chiusa di Salò, dove viene creato un codice di leggi con il proposito perverso di seguirne la lettera e, nel contempo, di sovvertirla continuamente.

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