Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

tesi di laurea

 

 

La “Trilogia della vita”
 di Pier Paolo Pasolini

 

 

 

 

 

 

Laureando:

Fabio Frangini

 

Relatore:

Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anno accademico 1999-2000


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

alla dolce ardente memoria
di Pier Paolo Pasolini

 

 

 

a V. F.,
che mi ha insegnato cosa c’è di più bello
di una notte d’estate

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Ah… Straziante e meravigliosa bellezza del creato»
Da Che cosa sono le nuvole?

 

 

“…and thus we beat on, boats against the current,
 born back ceaselessly into the past.”
F.S. Fitzgerald, The Great Gatsby

 

 


Sommario

 

CAPITOLO I: PERCHÉ LA TRILOGIA DELLA VITA?

1.    Introduzione.

2.    Profilo del pensiero politico-sociale di Pasolini negli anni della Contestazione e negli anni Settanta.

2.1.    La Contestazione.

2.2.    La scomparsa delle lucciole.

3.    La sopravvivenza scandalosa del sacro.

4.    Tetis – Il sesso come simbolo nudo della realtà. La perdita di ogni speranza.

4.1.    Contro l’irrealtà.

 

CAPITOLO II: IL DECAMERON

1.      Pasolini e Boccaccio.

2.      Il film.

2.0.  La struttura

2.1.    Ciappelletto (I, 1)

2.2.    Andreuccio (II, 5)

2.3.    Masetto (III, 1)

2.4.    Peronella (VII, 2)

2.5.    L’allievo di Giotto (VI, 5)

2.6.    “L’usignolo” (V, 4)

2.7.    Lisabetta (IV, 5)

2.8.    Donno Gianni (IX, 10)

2.9.    Tingoccio e Meuccio (VII, 10)

 

CAPITOLO III: I RACCONTI DI CANTERBURY

1.      Pasolini e Chaucer.

2.      Il film.

2.0. La struttura

2.1. Prologo generale

2.2. Racconto del Mercante

2.3. Racconto del Frate

2.4. Chaucer

2.5. Racconto del cuoco

2.5.1.         L’hobby del sonetto

2.5.2.         L’episodio

2.6. Racconto del Mugnaio

2.7. Racconto della Donna di Bath

2.8. Racconto del Fattore

2.9. Racconto dell’Indulgenziere

2.10. Racconto dell’Apparitore e Prologo

 

CAPITOLO IV: IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE

1.      Il florilegio sinfonico.

1.0. La struttura

2.      La folle umanità del potere e la liberazione del sesso.

3.      Leggerezza e Fedeltà.

4.      La dimensione onirica e fantastica.

 

CAPITOLO V: LA TRILOGIA DELLA VITA

1.      Il Genocidio, l’Abiura e Salò.

2.      Trilogia della vita o Tetralogia della morte?

 

APPENDICE: ABIURA DALLA TRILOGIA DELLA VITA

 

BIBLIOGRAFIA

 

FILMOGRAFIA

 

RINGRAZIAMENTI

 

 


CAPITOLO I

Perché la Trilogia della vita[1]?

1. Introduzione.

Secondo una tesi affascinante (ma discutibile) di Nico Naldini[2] la scelta del cinema, all’inizio degli anni Sessanta, da parte di Pasolini fu la naturale conseguenza di una crisi personale e soprattutto ideologica; in particolare, riferendosi ai tre progetti di romanzo che erano sul tavolo dello scrittore all’inizio del 1960 (Il Rio della grana[3], a completare la trilogia costituita dai due romanzi romani; La Mortaccia[4] e Storia burina[5]) Naldini dice: “Nessuno di questi tre abbozzi si svilupperà compiutamente in un romanzo e poche pagine di ciascuno compariranno in Alì dagli occhi azzurri. L’impedimento alla loro realizzazione è un intreccio di cause pratiche – tra cui l’impegno per la realizzazione del film [Accattone] – e di crisi personale e ideologica. La crisi del marxismo alla fine degli anni Cinquanta e l’avanzata della società neocapitalistica tolgono ogni vitalità a queste storie; le hanno fatte rapidamente invecchiare retrodatandole in un mondo non più riconoscibile. Le borgate, da luogo di vitale speranza politica, si sono trasformate in luoghi di violenza e disumanità. Di questo mondo rimangono le sopravvivenze fisionomiche e il cinema è appunto il nuovo mezzo espressivo per testimoniare le vecchie passioni. L’«istintivo passaggio» al cinema in questo modo si presenta anche come recupero del passato là dove è ancora possibile trovarlo.”[6]

Secondo Naldini, dunque, sin dall’inizio dell’attività registica il “disperato” e “sacrale amore per la realtà” del poeta di Tal còur di un frut per il mondo arcaico e contadino di Casarsa o dell’autore di Ragazzi di vita per le borgate preistorico-moderne[7] della “città di Dio” era già stato profanato, e quindi sconsacrato, dal dilagare apparentemente inarrestabile dell’assolutismo neocapitalista. Il Friuli “di cà de l’aga” con i suoi paesaggi era ormai lontano, e così la “pura luce” della Resistenza e la “scoperta” prima del comunismo e poi di Marx avvenuta durante i giorni delle lotte contadine per l’attuazione del lodo De Gasperi[8]. Giorni che saranno poi ricordati, fra l’altro, nel romanzo Il sogno di una cosa[9] e in Poesia in forma di rosa:

“…Dio!, belle bandiere
degli Anni Quaranta!
A sventolare una sull’altra, in una folla di tela
Povera, rosseggiante, di un rosso vero,
che traspariva con la fulgida miseria
delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie
- e col fuoco delle ciliegie, dei pomi, violetto
per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva,
ardente rosso affastellato e tremante,
nella tenerezza eroica d’un immortale stagione”[10]

Lontana era Casarsa fuggita assieme alla madre, “come in un romanzo”, nel gennaio del 1950, a seguito dello scandalo di Ramuscello[11], ma lontana sarebbe stata anche, sempre secondo Naldini, la città scoperta all’alba di quel decennio fondamentale nella carriera dell’artista, che “povero come un gatto del Colosseo”, un disperato “di quelli che finiscono suicidi” si aggirava per Roma, le sue borgate:

                               …dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti”[12]

Quella Roma millenaria e modernissima, imperiale e barocca, che divenne ben presto il centro assoluto dell’universo esistenziale e poetico di Pasolini, proiettando sempre più sullo sfondo della memoria il Friuli contadino:

“Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre,…”

”Ero al centro del mondo, in quel mondo

di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,

venisse dal caldo mare di Fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo

che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,

bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi e sopiti casali.”[13]


Passati e come appartenenti ad un'altra epoca sarebbero stati anche i “viventi”, i protagonisti dei racconti e dei romanzi romani: gli “aristocratici” abitanti di Trastevere, i borgatari dei quartieri creati nella periferia in seguito agli sventramenti fascisti degli anni Trenta, ma soprattutto i sottoproletari delle baracche all’estrema periferia romana, immigrati da poco dal Sud e mescolati, con la loro cultura mitico-ancestrale di contadini, al mondo drammatico e spietato della Grande Città. Per Pasolini gli abitanti della capitale del cattolicesimo erano in realtà pagani, toccati dal Cristianesimo solo superficialmente (nelle pratiche rituali e superstiziose[14]) avevano piuttosto una filosofia cinico-stoica, sopravvissuta a diciassette secoli d'evangelizzazione, e una morale basata sull’onore invece che sulla Pietas cristiana - tipica invece degli alti-italiani come il poeta di Casarsa - vivevano in un mondo parallelo e toccato solo marginalmente dal mondo borghese. Anzi, forti della loro cultura antica e sempre viva – ne è testimone la vivacità del dialetto-gergo che continuamente mutava e si rinnovava – disprezzavano come inetti i “signorini”, i “farlocchi”, i ”figli di papà”.

Sempre in Squarci di notti romane Pasolini scriveva:

“Questa Roma non del 1950 ma dell’ultimo istante, dell’ultimo vaffanculo gridato dal ragazzo che passa per il lungotevere infebbrato con la camicia bianca già sbottonata – questa Roma così ultima e vicina che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla… tutti sono impotenti davanti a lei, il papa o Belli redivivo, tutti arrossiscono davanti alla sua bellezza troppo nuda, al modo di dire nato la sera stessa, al mutamento di tono, leggerissimo ma bruciante già d’una nostalgia ossessiva, nel gridare una frase che il dialetto presenta da qualche secolo come impossibilitata a qualsiasi mutamento…”[15]

Questa città e i suoi abitanti già all’inizio degli anni Sessanta, dunque, avrebbero incominciato a corrompersi profondamente dal di dentro, rimanendo se stessi solo nell’immagine, nelle fisionomie dei vicoli e dei visi, perdendo man mano l’originalità del loro linguaggio verbale per mantenere solamente il linguaggio del corpo. Per effetto di questa corruzione, rappresentabile emblematicamente dall’inurbamento delle famiglie delle baraccopoli nei palazzi-lager dell’ina-case, nei sottoproletari romani scompaiono, come in un precipitato chimico, gli elementi “non assimilabili” che costituivano la loro diversità – e, secondo Pasolini, la loro salvezza – e rimangono solamente i corpi muti, uniche testimonianze veritiere di un passato non recuperabile. Quindi la scelta del medium cinematografico da parte di Pasolini sarebbe stata indotta quasi forzatamente da questo mutamento, anche se recepito inconsciamente, dell’oggetto poetico, che avrebbe avuto nell’immagine l’unica possibilità di essere espresso e mantenuto in vita; Franco Citti, Ettore Garofalo avrebbero dunque offerto in Accattone e in Mamma Roma non il loro essere sottoproletario e vivente nella sua interezza, ma unicamente il loro apparire, il puro segno visivo, magari riscattato esteticamente dalla citazione o ispirazione dotta - il Ragazzo con canestro di frutta di Caravaggio, Masaccio, ecc. - perché il loro vissuto era ormai diventato altro rispetto a quello della generazione precedente, o anche di solo quattro o cinque anni prima, che era scomparso o stava morendo di fronte alla violenza dell’offensiva del mondo nuovo.

Qui sta il fascino della tesi di Naldini, ma, secondo me, anche il suo limite.

Il fascino maggiore di quest'opinione sta nel rispondere ad una domanda comune sull’opera pasoliniana - cioè per quale ragione Pasolini abbia incominciato a fare cinema - in maniera originale e suggestiva, annettendo alle motivazioni artistiche e poetiche anche una componente ideologica: la constatazione della metamorfosi sociale in atto. Ma l’errore di questa affermazione sta nel considerare sincronici i vari momenti della maturazione del pensiero pasoliniano; si potrebbe dire che Naldini guardi al Pasolini dei primi anni Sessanta attraverso gli occhi del Pasolini degli anni del Caos, o addirittura al Pasolini “corsaro” e “luterano” degli anni Settanta; in altre parole dà come compresenti quegli elementi di critica sociale e politica che caratterizzeranno invece affermazioni posteriori come quelle dell’Articolo delle lucciole[16] o «Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio»[17]. Basta prendere in mano un brano qualsiasi del dialogo con i lettori che Pasolini intrattenne sul settimanale “Vie Nuove”[18] dal 1960 al 1965 per rendersi conto che, nonostante il distacco progressivo degli ultimi anni, credeva ancora nella “purezza” e nella “santità” del proletariato, nella fattispecie proletariato comunista, e dunque poteva ancora amarlo:

“Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro
 dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch’è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui…”[19]

Questo non vuol dire che Pasolini ignorasse i mutamenti che stava subendo il mondo che amava; il boom economico cominciava, in Italia, la sua fase di assestamento e l’emigrazione nel Meridione stava spopolando interi paesi, e alla desertificazione demografica si affiancava quella culturale. Anche i paesi del Terzo Mondo liberandosi in quegli anni dal colonialismo diventavano “paesi in via di sviluppo” scegliendo l’opzione industriale. Coevi ai precedenti, dunque, sono questi versi:

“Ché
io, del Nuovo
Corso della Storia
- di cui non so nulla – come
un non addetto ai lavori, un
ritardatario lasciato fuori per sempre -
un sola cosa comprendo: che sta per morire
l’idea di uomo che compare nei grandi mattini
dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro, …”[20]

 oppure:

“…                          Non sapete?Proprio
insieme al Barocco del Neo-Capitalismo
incomincia la Nuova Preistoria”[21]

 

Ma è proprio nell’ambiguità del concetto di “Nuova Preistoria” che il Pasolini dei primi anni Sessanta si differenzia da quello posteriore, questa “Nuova Preistoria” non è ancora, o non lo è del tutto, il mondo senza storia dell’entropia borghese ma è il mondo nuovo successivo alla deflagrazione terzomondiale. Nella Ricotta Orson Wells citando Pasolini[22] recita:

“…O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta…”[23]

ma soprattutto nella Profezia di Alì dagli occhi azzurri Pasolini diceva:

“…deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì

dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere -   usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi

per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare a essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si è fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…”[24]

Ancora nel 1964 nel risvolto di Poesia in forma di rosa Pasolini indicava il motivo fondamentale di questa opera come il: “tentativo stentato di identificare la condizione presente dell’uomo (diviso in due Razze, ormai, più che in due Classi) come l’inizio di una Nuova Preistoria”[25], dunque le “due Razze” vivevano ancora ben distinte ed inconciliate. Sempre di quegli anni sono i viaggi all’estero: nel ’61 in India – Bombay, Nuova Delhi, Calcutta – con Alberto Moravia ed Elsa Morante, quindi, nello stesso anno, in Kenia e a Zanzibar; nel ’62 trascorre il mese di gennaio in Egitto, Sudan, Kenia e Grecia; infine nel ’63 è nello Yemen, in Kenia, Ghana e Guinea; di quell’anno è, inoltre, la stesura della sceneggiatura del film: Il padre selvaggio, che doveva essere ambientato in Africa, e che non sarà mai girato per ostacoli produttivi conseguenti al processo per vilipendio alla religione della Ricotta. Pasolini comincia a viaggiare, e le borgate romane si allargano fino a diventare il Terzo Mondo intero, forse perché la periferia romana inizia ad andargli stretta e ad essere troppo simile a quella di qualsiasi altra periferia del mondo occidentale.

In un’intervista del 1967 Pasolini ormai affermava:

“Ebbene la realtà che prima mi interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiando rapidamente, non lo riconosco più. Il sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva una realtà storica, oggi sta diventando una frazione del Terzo Mondo.”[26]

Ma questo è solo l’inizio di un processo e, d’altra parte, l’intervista appartiene ad un periodo conseguente nell’itinerario pasoliniano di “presa di coscienza”.

Riassumendo si potrebbe dire che nei primi anni Sessanta era ancora viva in Pasolini l’illusione, perché poi si rivelerà tale, di una possibile salvezza palingenetica, per quanto contraddetta e lontana da essere postulata dogmaticamente, proveniente dai “Regni della Fame”[27] verso l’occidente civilizzato; l’amore per il corpo è ancora amore “per il mondo che c’è” [e non “c’era”] in esso. Questo sogno palingenetico e questo amore degno di “una forza del passato” era chiaramente eterodosso rispetto al pensiero marxista tradizionale, di fronte alla cui istituzionalità Pasolini aveva da sempre avuto un atteggiamento critico e complesso, come nei famosissimi versi delle Ceneri di Gramsci:

“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;”[28]

Ma, d’altro canto, pur avendo acuito all’inizio del decennio la propri eterodossia arrivando a rinnegare parte della sua precedente attività culturale – è di quegli anni il grido: “ABIURO DAL RIDICOLO DECENNIO!”[29](riferendosi agli anni Cinquanta) di Poesia in forma di rosa – Pasolini rifiutò sin dai primi momenti la parola d’ordine del “disimpegno” che caratterizzava, in ambito culturale, gli anni del boom economico e della crisi delle ideologie. In particolare Pasolini si schierò decisamente contro la cosiddetta “neoavanguardia”, raccolta in Italia principalmente attorno al Gruppo ’63, la quale rifiutava l’ideologia come chiave interpretativa della realtà e si proponeva di superare la letteratura degli anni Cinquanta negandone le strutture classiche e, rifacendosi alle avanguardie storiche, demistificando, attraverso la sperimentazione, il linguaggio tradizionale che, in un periodo di mercificazione letteraria e di riproducibilità tecnica, era divenuto irrimediabilmente logoro ed incapace di farsi portatore di significati. In qualità di esponente di punta della cultura del decennio precedente e in quanto erede della tradizione “umanista”, Pasolini era direttamente coinvolto in questa “iconoclastia desacralizzante”, ma oltre a questo coinvolgimento personale l’autore di Una vita violenta accusava i neoavanguardisti della svalutazione, in campo letterario, della cultura precedente, classica e più recente, e dell’accettazione-integrazione, attuata con “cinismo ed eleganza”, dei nuovi valori, pur se ancora indefiniti, della tecnica e dell’industria culturale, in altre parole quelli del neocapitalismo.

Dunque già nei primi anni Sessanta Pasolini avvertiva la mutazione che stava subendo il capitalismo classico e ne rifiutava, da intellettuale marxista ancora “impegnato” le nuove idee e le nuove sirene.

2. Profilo del pensiero politico-sociale di Pasolini negli anni della Contestazione e negli anni Settanta.

2.1. La Contestazione

Il primo contatto che Pasolini ebbe con la Contestazione fu a New York nell’autunno del 1966. L’esperienza fu esaltante perché in quella “città sublime, (…) il vero ombelico del mondo, dove il mondo mostra ciò che in realtà è” [30] visse il clima di lotta per la democrazia reale che si respirava nella capitale dell’occidente civilizzato - definito in Empirismo Eretico come Guerra civile - e venne a conoscenza dei progetti e delle istanze della Nuova Sinistra americana, del sindacalismo radicale, dell’estremismo violento delle Black Panters e delle manifestazioni pacifiche contro la guerra del Vietnam; Pasolini, in questo modo, poté sperimentare, al di fuori delle pastoie del conformismo e dell’eversione puramente verbale di parte del marxismo europeo, la possibilità di poter “gettare il proprio corpo nella lotta” – così diceva il verso, che Pasolini fece suo, di un canto “innocente” della Resistenza negra - in maniera “assoluta” e con “una sincerità totale” ed essere in questo modo perennemente sulla “linea del fronte” ideale della dissidenza e del rifiuto. Inoltre fra i modelli di questo impegno c’erano anche alcuni esponenti della Beat Generation: Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouack ma anche, significativamente, Bob Dylan che, poeti della rivolta che esaltano la disperazione – L’urlo di Ginsberg - come mezzo espressivo, offrivano un nuovo esempio del rapporto tra artista e società.

Però, con l’incalzare degli eventi e con le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata la deflagrazione della Contestazione Studentesca in Europa, il pensiero pasoliniano approfondì la sua ricerca attorno a questo fenomeno, maturando conclusioni che gli fecero assumere una posizione critica, o comunque non da fiancheggiatore incondizionato, nei confronti degli studenti; inoltre alla luce di quel periodo di drammatici e rapidissimi cambiamenti si possono intravedere le radici di quella che diventerà la Trilogia della vita e quindi del Pasolini “luterano” dell’Abiura e di Salò.

“Avete le facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccolo-borghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.”[31]

Con questi “brutti versi”, pubblicati “proditoriamente” su «L’Espresso» in maniera integrale con il titolo spurio di Cari studenti vi odio e presentati come il «caso politico-letterario dell’anno», Pasolini entrò clamorosamente al centro del dibattito che stava sorgendo attorno al Movimento Studentesco. I fatti di cui parlano i versi de Il Pci ai Giovani!! - lo scontro avvenuto il 1° Marzo 1968 tra studenti e polizia presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma - erano i prodromi di quello che sarebbe stato, sull’onda del Maggio francese, il grande movimento europeo di contestazione del ’68. Già nell’Apologia, in prosa, che fu pubblicata assieme alla poesia, Pasolini dichiarava che quei versi, definiti da subito come “brutti”, andavano letti tenendo conto del contesto poetico e del doppio registro ironico ed autoironico con cui erano stati scritti: ad esempio l’affermazione di “tenere per la polizia” andava letta fra le virgolette della provocazione e dell’espressionismo; ma, anche per essere stati pubblicati su un settimanale diffuso come «L’Espresso» e non solamente sulle pagine “per pochi” di «Nuovi Argomenti», quei versi destarono immediatamente un vasto scalpore e contribuirono a dipingere l’immagine di un Pasolini «decadente» e «reazionario» se non, addirittura, «fascista». In realtà l’atteggiamento di Pasolini nei confronti del Movimento fu, anche negli anni seguenti, molto più complesso e non pregiudiziale. Già nella poesia sui fatti di Valle Giulia dopo aver individuato la vera natura della protesta, cioè non un atto rivoluzionario ma di lotta della borghesia contro se stessa:

                                                    “ …Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
alla vecchia lotta intestina.”[32]

l’autore è colpito dal dubbio e conclude dicendo:

“(Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?)”.[33]

Inoltre in alcune interviste[34] rilasciate attorno al periodo sessantottesco Pasolini arrivò a negare il futuro apocalittico, che veniva prospettato dalla sociologia più aggiornata, di un’umanità irredimibilmente succube all’imperativo consumistico, per un futuro di lotta perenne, seppur all’interno dell’entropia borghese, tra la parte avanzata e quella regressiva della società. Quindi, rispetto alle previsioni “orrende” di un mondo appiattito su “l’inesausto ciclo di produzione e di consumo” e quindi della fine della storia, anche la profezia “terribile” di una perpetua Guerra Civile ma anche di perpetuazione dell’uomo in quanto soggetto storico rappresentava un certo attenuamento del pessimismo precedente. Finiva il sogno profetico della Nuova Preistoria di Alì dagli occhi azzurri e cominciava il rapporto ambiguamente sospeso tra appoggio e rifiuto con i “figli disubbidienti”.

Ma, come vedremo, questa “sospensione di giudizio” fu solamente una parentesi, per di più brevissima in quanto smentita quasi nel momento stesso in cui veniva applicata, nella maturazione di quel complesso sistema poetico-ideologico che caratterizzò il pensiero di Pasolini negli anni Settanta.

2.2. La scomparsa delle lucciole

“Diu,
a làssin la ciasa ai usièj,
a làssin il ciamp ai vièrs,
a làssin secià la vas’cia dal ledàn,
a làssin i cops
a la tampiesta,
a làssin a l’erba il codolàt,
e a van via
e là ch’a a erin
a no resta nencia il so silensi.

Dio, lasciano la casa agli uccelli, lasciano il campo ai vermi, lasciano seccare la vasca del letame, lasciano i tetti alla tempesta, lasciano l’acciottolato all’erba, e vanno via, e là dov’erano, non resta neanche il loro silenzio.”[35]

Questi versi appartengono a La nuova gioventù, un libro di poesie in cui Pasolini ripubblicò, dopo vent’anni, il friulano degli antichi versi de La meglio gioventù, affiancando alla prima stesura una nuova, una nuova forma in cui “i luoghi e i viventi” di Casarsa sono rivisti come dal fondo di una fossa serpenti, il presente allucinante di chi ormai vive, si direbbe per «sventura d’anagrafe», in piena Dopostoria.

Ma cos’era questa gioventù “nuova”? E da dove era sorta?

Ancora una volta il luogo privilegiato dall’indagine antropologica pasoliniana, il laboratorio vivente e vissuto esistenzialmente, fu il sottoproletariato romano, o comunque il proletariato dell’Italia centro-meridionale, che agli occhi di Pasolini aveva subito, nel giro di cinque anni o forse meno, una traumatica ed inaudita trasformazione sociale, un cambiamento “millenario” paragonabile alla rivoluzione agricola dell’anno mille, avvertito con maggior dolore ed amarezza proprio laddove non erano avvenute, nell’Ottocento, le rivoluzioni borghesi e liberali che avrebbero reso meno distruttiva e lacerante la nuova.

Questa vera e propria “mutazione antropologica” consisteva nella scomparsa repentina e irrevocabile della cultura popolare in senso lato - cioè vista come insieme di lingua, storia, comportamento - che era stata progressivamente assimilata dalla subcultura della classe-massa neocapitalistica. Negli ultimi anni Sessanta, dunque, assieme a questa cultura era scomparso un intero mondo parallelo ma autonomo rispetto a quello borghese dominante, del quale aveva sempre costituito ”l’alterità” critica e produttrice dialettica dell’evoluzione storica. La radice di questo cambiamento era da ricercasi in un'altra rivoluzione avvenuta nel campo della produzione industriale dei paesi capitalistici, mutata in senso quantitativo e qualitativo in modo tale che al vecchio potere paleocapitalista che tradizionalmente si appoggiava alle strutture repressive dei governi autoritari, l’esercito e la polizia fascistoidi, e alla gerarchia ecclesiastica per imbrigliare le spinte rivendicative dei lavoratori, si era sostituito il neocapitalismo che in virtù del rinnovato ciclo di produzione e consumo sostituiva ai vecchi pilastri per il mantenimento del potere delle nuove strutture più adatte alla nuova classe-massa consumatrice. Al nuovo potere non bastavano più i vecchi modelli di comportamento “dell’era del pane”, dell’Italia fascista e degli anni Cinquanta, in cui beni erano solo necessari e in cui il risparmio era la dote paziente di chi si aspettava tempi peggiori, ma necessitava di una duratura “era del benessere diffuso” che inoculasse, nell’euforica ansia di consumo, nuovi bisogni e una fiducia acritica ne «le magnifiche sorti e progressive». Questo “sciocco benessere” era chiaramente “irreale”, poiché non era frutto di una conquista “dal basso” ma era “concesso dall’alto” in maniera parziale e falsificante, cioè a questo benessere non corrispondeva un obiettivo progresso civile e sociale, ma un mero sviluppo dei sistemi di produzione e del prodotto interno lordo i cui benefici erano solo apparentemente ridistribuiti. Secondo Pasolini una delle caratteristiche del neocapitalismo era quella di “derealizzare” ogni cosa poiché è sull’irrealtà che si basano i regimi totalitari (in quanto “totalizzanti”); come era stato irreale il mito della «patria» o dell’«eroismo» durante il fascismo, così erano irreali ed alienanti i miti e gli eroi della dittatura consumistica che venivano vissuti in maniera nevrotica nell’impossibilità di essere raggiunti (dittatura “quindi molto più totalitaria, in realtà, dei vecchi fascismi che rendevano retorici e terroristici dei valori che tuttavia, in una società contadina e paleoindustriale, erano reali[36]). In altre parole il borgataro di Torpignattara che un tempo poteva “adempiersi” socialmente, per quanto fosse privo di una coscienza di classe, all’interno del proprio mondo vissuto e reale, ora assumeva come propri gli ideali e le istanze dell’indifferenziata piccola-borghesia del consumo, cui voleva ansiosamente conformarsi avvertendo la propria diversità come vergogna e menomazione. Questi ideali e istanze irrelati rispetto alla reale esistenza, secondo Pasolini, avevano trasformato i sottoproletari amati che lo avevano accettato, povero e disperato come loro, ai tempi di Piazza Costaguti (la prima residenza romana del regista), in piccolo-borghesi mostruosi e infelici che avevano assunto le caratteristiche che Pasolini aveva sempre odiato nella classe colpevole di averlo rifiutato in quanto artista e diverso.

Poiché il neocapitalismo “odia la realtà” volendosi porre al di fuori del divenire storico ed essere assoluto, la televisione,che fra gli strumenti del nuovo potere era quello più persuasivo e assoluto, è il tramite privilegiato dell’irrealtà sottoculturale e dell’alienazione del consumo derivando, come mezzo audiovisivo, la sua forza di espressione non dal linguaggio verbale, per quanto orrendo, ma dal “linguaggio delle cose” che per sua natura “è perfettamente pragmatico e non ammette repliche, alternative, resistenza[37] e quindi rende la televisione un’autorità indiscutibile.

Una delle caratteristiche che rendono vincente il Nuovo Potere rispetto a quello paleocapitalistico è la straordinaria capacità di assimilare i contrasti ed incorporare dentro di sé le opposizioni anche attraverso l’efficace arma della tolleranza, che è sempre falsa perché imposta dall’alto e perché obbliga a realizzare ciò – e solo ciò – che consente. Un esempio emblematico di questo era dato a Pasolini dalla fisionomia che stava assumendo in quegli anni la Contestazione:

“…l’umanità, considerata dall’alto, tende in modo uniforme a questa industrializzazione totale e al dominio universale della tecnologia sul pianeta. (…) A parole, sì, certo, i giovani in effetti rifiutano tale standardizzazione. Ma in sostanza,basta ai giovani contestatori staccarsi dalla cultura, ed eccoli optare per l’azione e l’utilitarismo, rassegnarsi alla situazione in cui il sistema si ingegna ad integrarli. Questa è la radice del problema: usano contro il neocapitalismo armi che in realtà portano il suo marchio di fabbrica, e sono quindi destinate soltanto a rafforzare il suo dominio. Essi credono di spezzare il cerchio, e invece non fanno altro che rinsaldarlo.”[38]

Il rifiuto della cultura umanistica in favore del pragma rivoluzionario, sulla falsariga di quello della neoavanguardia negli anni precedenti, portava i contestatori ad un'accettazione inconsapevole, e quindi sul piano esistenziale più che su quello ideologico, dei valori neocapitalistici; anche in virtù della sottocultura, caratteristica sia delle frange più violente sia della grande massa della Contestazione, che si opponeva alla sottocultura consumistica. Questo scontro tra due sottoculture ed il fatto che stesse scomparendo, assieme alla cultura popolare, l’esistenza di una “alterità” e quindi della possibilità di una critica alla borghesia che partisse dal di fuori di questa e che, in altre parole, permettesse una critica realmente rivoluzionaria perché implicante un modo “altro” di essere oltre a quello della classe egemone, fece sì che la protesta rientrasse nell’orbita dell’entropia borghese e che le istanze e le esigenze della contestazione venissero assorbite dal potere, e quindi tradite, perché “concesse” e non ottenute. Anche le conquiste civili degli anni seguenti – la liberazione sessuale, il divorzio, l’aborto – che testimoniavano ulteriormente ed in maniera “statistica”, attraverso i vari referendum, il mutamento sociale, vennero assimilate e volte a proprio vantaggio da parte del potere che, in questo modo, “restaurava” e perpetuava se stesso. Alla famiglia tradizionale, risparmiatrice e prolifica favorita dai regimi autoritari tipici dei paesi poveri del paleocapitalismo, succedeva la coppia, vista come cellula minima del ciclo di produzione e consumo del nuovo capitale.

Riassumendo (citando Pasolini) si può dire che:

“Dopo un’improvvisa rivoluzione degli anni ’60 di tipo tecnologico e dopo la falsa rivoluzione del ’68 che si era presentata come marxista mentre, in realtà, non era altro che una forma di autocritica della borghesia (la borghesia si è servita dei giovani per distruggere i miti che le davano fastidio) la restaurazione recupera dal passato le parti più negative.”[39]

3 La sopravvivenza scandalosa del sacro.

“I superamenti, le sintesi! sono illusioni,
dico io, da volgare europeo, ma non per cinismo –

                            (…)

                                                      … La tesi
e l’antitesi convivono con la sintesi: ecco
la vera trinità dell’uomo né prelogico né logico,
ma reale. Sii, sii scienziato con le tue sintesi
che ti fanno procedere (e progredire) nel tempo (che non c’è),
ma sii anche mistico curando democraticamente
nel medesimo tabernacolo, con sintesi, tesi e antitesi.”[40]

Dopo Uccellacci e uccellini (1966) Pasolini iniziò una nuova fase della sua produzione cinematografica che potrebbe essere definita, molto approssimativamente, come fase del mito – Edipo re e Medea - del racconto allegorico o della parabola esemplare– Teorema e Porcile[41] – e che in molti casi venne considerata dai critici, soprattutto contemporanei  del regista, come un abbandono della realtà e del presente storico in favore di una fuga verso il mito e la rabbia autobiografica. In una temperie culturale che favoriva le opere impegnate e dalla chiara connotazione politica, l’autore di Teorema venne assimilato a coloro che sono «convinti di scardinare la realtà senza la realtà» e che ricorrono a «simboli sclerotizzati e piccolo-borghesi, pronti a dimenticare la furia e la disperazione, inclini a un appiattimento delle contraddizioni in una gelatinosa pagina bianca»[42], in altre parole si limitava la componente ideologica di queste opere sottolineandone, con un giudizio di valore, la regressività e il “decadentismo” dovuti, probabilmente, ad un impasse poetica e ad un indugiare attorno alle tematiche psicologico-barbariche care alla sensibilità estenuata dell’artista, forse «sopravvissuto» e divenuto, ormai, un’«autorità» dell’intellighenzia culturale italiana. Pasolini, dal canto suo, in alcuni interventi del periodo[43] rifiutava decisamente le opinioni di coloro che definivano la sua produzione più recente come una fuga verso il mito estetizzante o verso il ripiegamento solipsistico dell’autobiografismo, e rivendicava il profondo realismo e l’estrema attualità delle sue opere; criticando invece il superficiale contenutismo e l’opportunistico “allineamento a sinistra”, anche se spesso in buonafede, di molte opere che trattavano direttamente le tematiche contestatarie e rivoluzionarie.

Asserendo che: “È realista solo chi crede nel mito, e viceversa” e che “il «mitico» non è che l’altra faccia del realismo”[44]Pasolini difendeva la concezione “mitica” della realtà come autentica ed “originaria”, in quanto è proprio dell’uomo antecedente l’era industriale e tecnologica non considerare la natura come “naturale”, bensì come ierofania, disvelamento perturbante delle radici ancestrali della vita, luogo in cui le contraddizioni, le tesi e le antitesi, il pragma e l’enigma, convivono affiancate ed in cui il “superamento”, la sintesi hegeliana, non ha ragione di essere. Nello stesso momento Pasolini denunciava l’irrealtà e lo “scandalo” di una visione del mondo, quella del pragmatismo moderno, che escludesse il mitico ed il sacro dal proprio orizzonte appiattendo la natura e la storia in un unico Presente dilatato ed omnicomprensivo.

Ma, come la serva di Teorema si fa seppellire nel cantiere o, in Medea, il centauro del mito continua a vivere accanto al centauro “appiedato” e razionale, così il sacro, pur essendo stato superato e dimenticato, pur avendo le caratteristiche di una sopravvivenza di un universo irrimediabilmente perduto, continua a persistere nel mondo della razionalità tecnicistica ed esercita ancora la sua funzione perturbatrice.

Parlare della concezione sacrale del mondo in Pasolini equivale a parlare di “tutto” Pasolini, di tutta la sua opera e di tutta la sua vita, da Il nini muàrt fino a San Paolo, dalla corona di spine della Ricotta alle poesie di Trasumanar e organizzar. Ciò che interessa in quest'ambito è la funzione ed il valore che ha assunto la sacralità in un certo periodo della vita dell’artista e della sua coscienza ideologica. Do qualche esempio.

In Teorema l’assunto è quello della apparizione del sacro in una famiglia dell’alta borghesia settentrionale, Pasolini utilizza il termine di “ierofania” mutuandolo “inconsapevolmente” da Mircea Eliade[45], e quello di verificare gli effetti perturbatori di tale apparizione. La parte positiva del film, non in senso estetico ma in senso ideologico, sta appunto nella sconvolgimento e nella crisi successiva che l’angelo-demonio semina fra i vari membri della famiglia; i quali reagiscono alla crisi mettendo in discussione il loro ruolo sociale, la loro esistenza e cercando di risolverla in una nuova vita. Significativamente solamente la serva, in quanto depositaria dell’arcaica religiosità contadina, riesce ad approdare ad una soluzione di questa crisi attraverso la via della santità, la folle santità dei mistici; mentre le soluzioni offerte ai membri della famiglia borghese conducono alla sterilità – l’arte neoavanguardista del figlio – alla negazione di se stessi – l’erotomania della madre e la pazzia della figlia – oppure alla rabbia impotente – l’urlo del padre nel deserto.

Medea, invece, parla dello scontro diretto tra il mondo della storia, laico e positivista, appartenente a Giasone (che ha dimenticato i vecchi insegnamenti del centauro mitologico ormai muto) e il mondo della barbarie, intriso dai riti di una religione preistorica, da cui proviene la strega Medea. Quest’ultima in un primo tempo, dimentica della cultura ancestrale da cui proviene, superata da quella del marito, dona il vello d’oro che da feticcio del culto animistico della fertilità viene degradato a trofeo di guerra. Questo superamento, però, non impedisce il traumatico e mortifero ritorno di Medea furiosa alle antiche pratiche magiche e al rito estremo e terribile dell’infanticidio.

Quindi, secondo Pasolini, il sacro aveva nei confronti della società consumistica, che deve desacralizzare tutto per fare rientrare ogni cosa nel presente del ciclo di produzione, una funzione dirompente, di opposizione e contestazione, per il solo fatto di alludere ad una “alterità” non assimilabile ed ineludibile. L’impegno e l’attualità per Pasolini erano dunque in questa ricerca “dell’idea dell’uomo che sta scomparendo” e nel rifiuto del mero contenutismo in cui, molto spesso, ricadevano le opere contestatarie intrise di “gauchismo alla moda”, colpevoli, secondo lui, di negare il potere usandone lo stesso linguaggio e favorendo in questo modo la sua irrevocabile affermazione.

C’è da dire, però, che Pasolini nella sua nostalgia per il sacro, e nella disperata ricerca delle sopravvivenze di quest’ultimo, non si rifaceva ad alcun culto o ad un popolo particolare, perché era cosciente che da sempre il sacro “spontaneo” delle civiltà contadine era stato “istituzionalizzato” dalle varie autorità religiose – gli sciamani, i preti, ecc. – e nello stesso tempo riconosceva “in questa nostalgia (…) qualcosa di sbagliato, di irrazionale, di tradizionalista”[46].

Inoltre quanto detto finora sulla nostalgia del sacro e sulla sua carica “scandalosamente rivoluzionaria” non deve essere inteso come la teorizzazione profetica, sulla falsariga della profezia di Alì dagli occhi azzurri, di una possibile eversione del mondo contadino-religioso ai danni della civiltà tecnologico-razionale. In realtà Pasolini difendeva il sacro perché: “… è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere”[47]e nel frattempo non si faceva più illusioni sul Terzo Mondo, ormai avviato quasi irrevocabilmente, con l’eccezione di alcune sacche di resistenza, verso il neocapitalismo:

“Hanno una sola idea, in quelle teste innocenti,
e molto appetito. È finito l’incubo agricolo,
e si mangia. Si mangia a Homs,
si mangia a Aleppo.
Sono stati lavati, tosati, vestiti, calzati:
e ora il padre con le mammelle li guarda, bravi figlioli
che si sono liberati dei sacrifici umani e della siccità,
e, frastornati da tale «catastrofe spirituale»,
se ne vanno nudi sotto i panni militari, come vermi,
come bambini. …

                             (…)

Beata Resafa non ancora raggiunta dai pali della luce,
ché quanto ad Aleppo,
l’ansia del consumo fa dei maschi di questa città
tanti bovaristi, in attesa di un Bourghiba.”[48]

Ma più oltre, in questa stessa poesia, contraddicendosi apparentemente, Pasolini individua la valenza reale del suo portato nostalgico ritrovando il sacro e il luogo del suo “ritorno” nell’attività artistica:

“Qui sì, sicuramente, sono sepolte delle ossa!
E tutto ciò ch’è sepolto è destinato alla resurrezione
(ancora, almeno, per un figlio di contadini friulani).
Come un indovino ne sento la consolatrice presenza.
Del resto è poco che ho capito per quale ragione
la parola «ritorno» è quella che mi sembra più cara,
facendomi tremare misteriosamente.

Mite solitudine del Qualat Sm’aan,
se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo.”[49]

Ideale suggello di questo periodo della produzione pasoliniana, e premessa di quello successivo, potrebbero essere gli Appunti per un’orestiade africana, un’opera piuttosto trascurata nella filmografia dell’artista ma che, ad esempio, Adelio Ferrero colloca tra le «esperienze meno note, ma certamente più alte dell’autore»[50]. Questa documenta con una raccolta di figure e luoghi della Tanzania contemporanea la ricerca effettuata da Pasolini dei possibili protagonisti di un film, tratto dalla trilogia di Eschilo, che non fu mai realizzato. Attraverso una «proiezione nello spazio (la trilogia lo sarà nel tempo) di una mitica condizione popolare perduta, inattingibile nel presente»[51] Pasolini analizza la possibilità delle “sopravvivenze” del mito in una società che si trovava, con il bagaglio del mondo antico ancora intatto, sul varco dell’era industriale. I visi, i gesti, i sorrisi potevano essere sia quelli dell’uomo delle origini sia quelli dell’ultimissimo istante di una ragazza – la possibile Elettra o Cassandra– che si perdeva nella folla. Qui “l’idea dell’uomo” esisteva ancora nonostante stesse per essere, anche qui, ingoiata dal futuro. Ma ciò che differenzia gli Appunti dalla Trilogia è il fatto che questo “ritorno”, pur essendo forse nostalgico, non è ancora “disperato” ma ha ancora dentro di sé la progettualità, la ricerca, l’utopia.

Mi riferisco soprattutto alla figura che assumono le Erinni nella ricostruzione pasoliniana. Rappresentate attraverso l’immagine bellissima delle piante scosse dal vento impetuoso, le Erinni da divinità oscure e malefiche vengono trasformate in Eumenedi, benefiche tutrici della natura nella Polis appena fondata da Oreste. Le Erinni sono la metafora con cui Pasolini esprime l’antica cultura africana maturata nei millenni ed arrivata ad esprimere compiutamente se stessa nell’imperturbabilità del rapporto dell’uomo con la natura; e come queste divinità preistoriche possono trasformarsi in divinità protettrici così l’antica cultura può permanere, mutata ma ancora viva, nella nuova ed utopica Africa della democrazia e del progresso. Pasolini dunque esprimeva “la possibilità di una diversità”, un possibile futuro alternativo a quello del modello di sviluppo neoindustriale, sia occidentale sia socialistico, che mantenesse intatta, accanto alle nuove forme di vita sociale, la “religione delle cose” tipica delle civiltà contadine[52]. “Religione” che deve essere intesa nel significato più ampio del termine, quindi non di mera persistenza, nell’africano contemporaneo, dell’esteriorità cultuale dei riti animistici ma di una perpetuazione di una visione del mondo che percepisca la sacralità e il mistero che si manifestano nella vita dell’uomo, e che quindi renda l’uomo non “alienabile” e non “riducibile” alla sfera entropica del ciclo di produzione.

Pasolini nell’interrogare un gruppo di studenti africani sulla possibile realizzazione del film, pone anche questa questione del futuro alternativo e della persistenza del passato. Invece la maggior parte degli studenti, o comunque le “correnti di pensiero” che fanno riferimento a qualche studente “dominante”, sembra preoccupata di dare di se stessa e dell’Africa postcolonialista un’immagine quanto più moderna possibile, rifiutando nello stesso momento sia la possibilità della realizzazione del film così come la concepisce Pasolini sia le allusioni che fa il regista attorno alle “sopravvivenze” culturali. Ad esempio, quando Pasolini accenna alla carica di “capotribù” a cui potevano appartenere i padri degli studenti stessi, questi sorridendo, ed in alcuni casi con uno sguardo risentito, negano l’effettiva importanza di questa carica nel sistema sociale dell’Africa contemporanea, evidenziando invece l’importanza e il numero di cambiamenti che il loro paese ha affrontato nell’ultimo decennio.

Secondo Lino Micciché proprio in questo «no», in questo «contrasto» con gli studenti africani e nel «prendere atto che la temuta “mutazione antropologica” aveva superato le società affluenti e il capitalismo maturo, per dominare anche in quel Terzo Mondo dove il suo utopismo aveva ritenuto possibile rievocare lo spirito di “antiche civiltà sepolte” e ancora incorrotte dall’etica del mondo industriale»[53], si trovano le ragioni del brusco abbandono del Mito, e del «rifugiarsi» in esso, per aver constatato l’irrealtà della «purezza incontaminata» delle popolazioni africane, e le radici della nuova produzione cinematografica che avrebbe visto una fuga verso un passato altrettanto illusorio. Ho già espresso più sopra la mia riserva sulla definizione del «rifugio nel Mito» - senza comunque dare giudizi sul valore estetico dei film di quel periodo – e la esprimerò più avanti su quella di «fuga nel passato»; ciò che mi preme sottolineare ora riguarda i tempi e le modalità della disillusione pasoliniana. Innanzitutto ridimensionerei l’importanza che ha avuto il confronto “negativo” con gli studenti di colore: Pasolini sapeva che, in quanto studenti, gli africani dell’intervista non erano quel che si dice un «campione rappresentativo», ma, privilegiati che vivevano ormai da tempo in un paese occidentale, potevano avere quell’“ansia di conformismo” e quella visione nevrotizzante del “mondo bianco” - “il fascino bianco del potere” di cui Pasolini aveva parlato a proposito di alcuni neri d’america[54] - da cui derivavano le loro perplessità e le loro proteste di modernità. Inoltre, secondo Micciché, Pasolini avrebbe avuto proprio in occasione delle riprese degli Appunti la percezione del cambiamento antropologico avvenuto tra i suoi popoli amati, e da questa avrebbe maturato la sua disillusione ideologica e il mutamento di rotta in senso artistico con l’abbandono del Mito. Ma la conoscenza che il regista aveva dell’Africa e dei suoi popoli non si limitava ai sopralluoghi cinematografici e a delle visite sporadiche, ma era costituita dalla lunga frequentazione “dei regni della fame” che era iniziata sin dai primissimi anni Sessanta[55]; quindi l’avvertimento del mutamento in senso neoindustriale non poteva, per quanto fosse stato repentino, giungere in maniera così folgorante ed improvvisa da sorprendere Pasolini nel momento stesso in cui si apprestava a girare un film, ed essere allo stesso tempo così profondo da provocare la crisi creativa che sarebbe stata risolta nell’ulteriore «fuga» della Trilogia. Pasolini, in realtà, sin dai tempi de La rabbia – il mediometraggio del ’63 costituito da spezzoni documentaristici – era cosciente che una delle possibili “vie africane” era quella neocapitalista; inoltre, a riprova del fatto che quella degli Appunti non è stata una folgorazione ed una fine definitiva di una speranza, ancora nel 1970 Pasolini poteva scrivere articoli come: Nell’Africa nera resta un vuoto fra i millenni[56], in cui, se da un lato constatava con orrore che le tenaglie dello sviluppo più distruttivo si stavano stringendo attorno al continente africano e che si stavano compiendo dei veri e propri genocidi, come nel caso dei Denka nel Sudan o degli Ibo in Nigeria, d’altro canto nutriva ancora una certa speranza, seppur flebile e dubbiosa, per il socialismo rigoroso di Sekù Turè in Guinea e per la possibile alternativa della “rivoluzione conservativa” che questo rappresentava.

Ma se ci può essere qualche dubbio attorno alle tappe e alle modalità nella svolta artistica ed ideologica dei primi anni Settanta, è indubbio che questa svolta c’è stata e che, con il nuovo decennio, era iniziato il periodo della “disperata vitalità” e della poetica del corpo come ultima sopravvivenza di un mondo distrutto.

4 Tetis[57] – Il sesso come “simbolo nudo” della realtà. La perdita di ogni speranza.

“Jo i mi vuàrdi indavòur, e i plans
i paìs puòrs, li nulis e il furmìnt;
la ciasa scura, il fun, li bisicletis, i reoplàns

ch’a passin coma tons: e i frus ju vuàrdin;
la maniera di ridi ch’a ve dal còur;
i vuj che vuardànsi intòr a àrdin
di curiositàt sensa vergogna, di rispièt

sensa pòura. I plans un mond muàrt.
ma i no soj muàrt jo ch’i lu plans.
Si vulìn zì avant bisugna ch’i planzìni
il timp ch’a no’l pòs pì tornà, ch’i dizìni di no

a chista realtàt ch’a ni à sieràt
ta la so preson…

Io mi guardo indietro, e piango i paesi poveri, le nuvole e il frumento; la casa scura, il fumo, le biciclette, gli aeroplani

      che passano come tuoni: e i bambini li guardano; il modo di ridere che viene dal cuore; gli occhi che guardandosi intorno ardono di curiosità senza vergogna, di rispetto

      senza paura. Piango un mondo morto. Ma non son morto io che lo piango. Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può più tornare, che diciamo di no

      a questa realtà che ci ha chiusi nella sua prigione…”[58]

Se, come si è detto, nonostante gli stridenti contrasti e le distruzioni che ne marcavano la «via dello sviluppo», l’Africa poteva ancora costituire “l’unica alternativa” dell’autore de “La religione del mio tempo” per la presenza di enclaves escluse o che si autoescludevano – i Beja sudanesi o i Tuareg – dal cambiamento in senso industriale o dall’allineamento al commercio neocoloniale; era in Italia che Pasolini viveva il suo “universo orrendo” calato com’era nella “prassi consumistica e edonistica” di un paese che, a differenza delle nazioni europee più progredite, non aveva avuto nella sua storia altre rivoluzioni che quella neocapitalistica – “la prima, vera rivoluzione di destra” – cui era giunto in meno di un decennio, in modo che all’inevitabile sviluppo, legato al nuovo sistema di produzione, non poté legarsi anche la “compensazione” di un autentico progresso civile e sociale. Il Paese che con la “pura luce” della Resistenza e delle lotte contadine, ma anche con “gli allegri e feroci” abitanti delle borgate romane, aveva nutrito l’apprendistato poetico ed esistenziale del poeta di Casarsa, ora si presentava mostruoso ed irriconoscibile a chi lo aveva amato in maniera assoluta e straziante.

A conferma del fatto che fosse soprattutto l’Italia il centro oscuro dell’universale lamento pasoliniano, vi è l’evoluzione del rapporto tra il personaggio Pasolini e la società italiana in quegl’anni; dal periodo dei suoi contributi sul «Tempo» fino alla collaborazione cruciale con il «Corriere della Sera» del 1973, Pasolini diventò sempre di più una sorta di intellettuale-profeta al centro dei dibattiti più scottanti nel panorama politico e sociale, oltre che naturalmente culturale, gettando “il proprio corpo nella lotta” mettendo reiteratamente in atto, di volta in volta, la pubblica crocifissione di un artista. Lo stile dei suoi articoli, come sempre precisi e cristallini, assume le connotazioni della predica, della profezia, ripetendo in più interventi, consapevolmente, i punti focali e dolenti del suo pensiero e della sua passione. Recensisce le sue poesie, partecipa a convegni, scrive e rilascia dichiarazioni alle riviste più disparate: a «L’Espresso», «Il Mondo», «Epoca» ma anche a «Playboy», «Grazia», «Vogue Italia», quasi che la sua «ansia di predicazione» temesse il silenzio come l’unica e vera morte di un poeta.

4.1. Contro l’irrealtà

Dopo la “derealizzazione” operata dal neocapitalismo non rimaneva più nulla delle classi popolari e del loro mondo, spazzate via dalla nuova civiltà borghese. Rimaneva solamente un patetico relitto, un unico ricordo: il Corpo.

“In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura – e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e della contestazione ad essa – mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi ad una cultura del passato popolare e umanistico – in cui, appunto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo. Era in tale realtà fisica – il proprio corpo –che l’uomo viveva la propria cultura”[59]

Questo vuol dire che nei giovani del popolo, assimilati e infelici, resi quasi afasici dal vuoto culturale in cui vivono, immemori com’erano della cultura dei padri da poco scomparsa eppur così lontana, è il corpo che parlava in loro vece del loro essere e del loro passato, e ancora li distingueva dai figli della borghesia come se appartenessero ad una razza diversa. I figli degli operai e dei braccianti, operai e braccianti essi stessi oppure studenti o emigrati, pur nella mistificazione dovuta alla loro ansia di conformismo che li faceva mascherare da piccolo-borghesi, conservavano ancora attraverso “il linguaggio muto delle cose” la realtà fisica del loro corpo sopravvissuta, ancora per qualche tempo, alla rivoluzione antropologica.

“Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere”[60]

Assieme a questa realtà fisica permaneva il ricordo del rapporto con il sesso che il popolo aveva sempre avuto nella sua storia; spontaneo ed autentico, quindi privo della “dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che [avevano] i giovani della borghesia”[61]; spontaneità ed autenticità che non devono essere necessariamente intese come sfrenatezza, infatti:

“Il popolo può essere anche casto, e condurre una vita monacale. Ma – almeno fino a pochi anni fa – non era diviso dal proprio sesso. La morale dell’onore, nel meridione, non avviliva o rimuoveva il sesso: anzi, lo esaltava. E così, del resto, la repressione esercitata dalle classi al potere. Castità e violenza sessuale erano viste con naturalezza. I tabù creavano ostacoli, non dissociazioni”[62]

Ed è in questa visione della corporeità popolare che sta la chiave di volta della realizzazione della Trilogia della vita, la ragione principale di questo cambiamento nella produzione pasoliniana: la realtà fisica era tutto ciò che rimaneva del “poetabile” per una cultura, la cultura umanista di Pasolini, che era finita come il mondo di cui era espressione. Nel 1973, quando la scelta della Trilogia era un fatto del passato, e già la realtà sociale e il pensiero pasoliniano erano in una fase ulteriore della maturazione che lo avrebbero condotto all’Abiura e a Salò, Pasolini parlando retrospettivamente delle ragioni artistiche sottese alla sua produzione recente disse:

“Il popolo è giunto con un po’ di ritardo alla perdita del proprio corpo. Fino a pochi anni fa (quando io pensavo al Decameron e alla susseguente Trilogia della vita) il popolo era ancora quasi completamente in possesso della propria realtà fisica e del modello culturale a cui essa si configurava. Per un regista come me, che avesse intuito che la cultura (in cui egli si era formato) era finita, che non dava più realtà a nulla, se non appunto (forse) alla realtà fisica, era naturale conseguenza che tale realtà fisica si identificasse con la realtà fisica del mondo popolare”[63]

Oltre a questa “naturale conseguenza”, alla base della Trilogia c’era, secondo Pasolini, anche una motivazione esistenziale oltre che ideologica, ossia la “perdita di ogni speranza”. Questa perdita derivava in primis dalla lucida constatazione della “fine della storia”, nel senso che la rottura insanabile, funzionale alla creazione di “un’enorme quantità di consumisti”[64], che era stata operata tra il mondo dei padri e quello dei figli, ne aveva interrotto il rapporto dialettico, in modo tale che:

“…la storia, che va avanti, almeno secondo le nostre abitudini culturali, solo dialetticamente, nel momento in cui tale rapporto cessa, si interrompe e si trova ad andare indietro”[65]

e, in secondo luogo, dalla constatazione esistenziale del fatto di aver avuto “un futuro che sta cominciando ad essere passato”[66], cioè dalla “ragione anagrafica” del superamento, operato dal sopraggiungere della vecchiaia, del periodo in cui ancora “si può credere in qualcosa” per giungere a non “credere più in nulla”. Questo stato d’animo, come si vedrà più avanti, non implicava, però, una cessazione dell’impegno – l’artista deve per sua natura essere “sulla linea del fuoco” – ma la perdita della speranza in questo impegno e nel futuro (che lasciava intatta ai giovani). Ecco come Pasolini esprimeva la sua posizione attraverso la solita “apparente contraddizione”:

“…bisogna, secondo me, essere molto realistici. E finché si è giovani o finché si è uomini nell’età piena, ci si può anche credere ed è giusto che vi si creda. Perciò sarei sciocco se dicessi ancora di credervi: però mi comporto come se ci credessi.”[67]

Ma la vecchiaia e la perdita di ogni speranza portavano con loro, secondo le parole del regista, dopo un primo momento di umorismo (Porcile) che implicava il distacco ironico dalla “materia”, anche una “gran voglia di ridere”, una gaiezza che permetteva di godere la vita nel fiorire del suo presente:

“L’esorcizzazione della passione ha prodotto una gran voglia prima di sorridere (magari atrocemente, come in Porcile), poi più cordialmente, fino a farsi a vera e propria voglia di ridere: è stata una gran voglia di ridere che ha ispirato il Decameron.

La gran voglia di ridere nasce dal definitivo accantonamento della «speranza», come e sempre retorica. Sono privo, praticamente e ideologicamente, di ogni speranza. Quindi di giustificazioni, di possibilità di alibi, di procrastinazioni.

Finalmente, vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani (che non sarà una sintesi ma una nuova opposizione) mi godo un po’ di libertà e di vita…”[68]

“…col Decameron (almeno nel girarlo) non si tratta più di umorismo e di distacco dalla materia: si tratta proprio di gioco (…) Si vede che la perdita della fede (che è sempre stupida) mi ha dato inizialmente un trauma; ma poi, con la perdita totale della fede (nella storia, s’intende) ho ritrovato una gaiezza, sì, una gaiezza che non ho mai avuto e quindi non ho mai perduto”[69]

Quindi, perlomeno stando alle dichiarazioni pasoliniane, la Trilogia della vita, almeno nel periodo in cui era stata concepita, aveva tra le sue spinte creatrici quella “fisiologica” del godimento esistenziale e della gaiezza non limitate ad un velleitarismo nostalgico ma scaturite dalla lucida e spietata constatazione di non essere più tra coloro che “hanno un futuro” o la fede in esso. Alla gaiezza, al calarsi nella realtà e al giocare con essa, e di conseguenza la scoperta del cinema come gioco o del “giocare col cinema”, si accompagnava anche un “abbassamento di stile”, che da lirico, e quindi «alto», com’era quello di gran parte della sua produzione precedente era diventato lo «stile medio» tipico della narrazione. Anche il “gusto del narrare”, cioè il fatto di aver scelto tre celebri raccolte di novelle, era dovuta alla “necessità della gioia”, così come attraverso la narrazione « l’allegra brigata» dimentica la peste a Firenze oppure Shahrazàd evita la morte:

“…il mio atteggiamento con la realtà, sì, è «crudelmente edonistico»; ed effettivamente nel Decameron che sto finendo, il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare, o si rappresenta per il gusto di rappresentare.”[70]

Bisogna comunque tener presente, al di là del credere o meno alle affermazioni pasoliniane (ma perché non si dovrebbe?), quale fosse la matrice di questa “gaiezza” e volontà di “giocare”, cioè la “fine di ogni speranza”, e come si collocassero nel panorama ideologico-esistenziale di cui si è parlato finora. In altre parole bisogna verificare la valenza “ideologica” della Trilogia della vita, cioè se attraverso la nostalgica rappresentazione di:

“…un popolo ideale, con la sua miseria, la sua assenza di coscienza politica (è terribile dirlo ma è vero), di un popolo che ho conosciuto quando ero bambino…”

Pasolini si proponesse la fuga in un passato rivissuto esteticamente, quindi la diserzione di un intellettuale dalla “linea del fuoco”, oppure fosse una continuazione coerente del suo impegno politico-sociale.

Come era già accaduto per i film della fine degli anni Sessanta, da Edipo re in poi, anche in occasione dell’uscita dei film della Trilogia a Pasolini venne, da più parti, contestata l’ennesima «evasione» e l’ennesimo «dietrofront compiuto da un artista per il gusto di giocare»[71] nei confronti della realtà, inoltre, in un minor numero di casi e prevalentemente nella critica giornalistica, si vide in queste opere, visto l’enorme successo commerciale che ebbero i film della Trilogia, addirittura un cedimento alle leggi del mercato e una apertura, di un autore un tempo «elitario e difficile», verso il cinema di massa. Tralasciando quest’ultima critica, esageratamente “teppistica” e ricattatoria per essere presa in considerazione, la questione sulla connotazione ideologica da assegnare alla Trilogia della vita appare cruciale e feconda non tanto per testimoniare l’avvenuta o meno Trahison du clerc del Pasolini che «non faceva più i film come una volta», ma, chiaramente, per comprendere la poetica del regista.

“Probabilmente [il Decameron] ha significato dare corpo e peso ad una reazione a tutto il me stesso precedente, ed alla situazione storica che mi circonda. Questa mia reattività può correre il rischio di essere una forma di evasione. Non lo nascondo. Ma, in tal caso, si tratterebbe di una evasione così sottolineata e clamorosa e, in un certo senso, scandalosa che perderebbe il carattere della evasività. Cioè realizzare, in questo momento, un’opera allegra, comica, senza problemi impliciti, e il cui senso profondo è l’ontologia della realtà, il cui simbolo nudo è il sesso, significa fare un’opera che delude talmente le attese, e che, in qualche modo, si giustifica storicamente, anche nella mia carriera di autore «impegnato»”[72]

La “delusione dell’attesa” dello spettatore era parte integrante della libertà che deve avere ogni autore – “libertà di scegliere la morte” o “esibizione della perdita di qualcosa di certo[73] – e quindi era proprio di un cinema “naturalmente impegnato” per definizione; inoltre si ripresentava, ancor più recisamente, il rifiuto del film “politico”:

“La cosa meno gradevole di questi ultimi anni sono proprio i film di moda politici, questi film politico-romanzati che sono i film delle mezze verità, della realtà irrealtà consolatoria e falsa.

È una moda che mette a posto le coscienze e che invece di suscitare polemiche le assopisce. Quando lo spettatore non ha dubbi e sa subito, secondo la propria ideologia, individuare da quale parte stare nel film, allora vuol dire che è tutto è tranquillo: ma questa è finzione.”[74]

L’ideologia andrebbe dunque ricercata, oltre il mero contenuto, nella profondità dell’opera in sé, nel suo puro esserci hic et nunc in relazione al contesto storico-sociale in cui era nata e a cui, oltre le apparenze, si rifaceva; l’opera dunque sarebbe “contestatrice” e “rivoluzionaria” non per quel che dice ma per quello che è, come, ad esempio, un afroamericano, secondo Pasolini, era rivoluzionario anche solo in virtù della propria “negritudine”, della propria diversità.

L’elemento più macroscopico di questa “contestazione ontologica” è, senza dubbio, la rievocazione del passato, visto nella duplice accezione di passato remoto - un medioevo popolare al di fuori di ogni dinamica storica (addirittura fantastico come in alcune parti dei Racconti di Canterbury o, soprattutto, nel Fiore delle Mille e una Notte) - oppure nell’accezione di passato prossimo – l’Italia popolare di qualche anno prima – comunque irrecuperabile ed appartenente ad “un’età sepolta”. Questa semplice rievocazione, dunque, possiede una carica contestatrice solamente nel suo alludere ad una diversità scomparsa: la nostalgia, tradizionalmente regressiva e reazionaria, paradossalmente si trova ad avere un valore rivoluzionario e progressivo[75].

“Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente”[76]

Ma l’elemento in cui si concentrava la forza del messaggio ideologico pasoliniano, e lo scandalo che questo avrebbe dovuto costituire nelle intenzioni del regista, era senza dubbio la rappresentazione del corpo e della corporalità popolare. Come è già stato detto, l’unica possibilità che rimaneva a Pasolini per rappresentare una realtà (La realtà) che si stava sfaldando inesorabilmente, proiettandosi nel passato remoto, era nella rappresentazione del corpo visto come ultimo retaggio di una cultura e di un mondo, e che sopravviveva, non per molto, alle trasformazioni distruttive operate dal neocapitalismo. Al corpo dunque erano delegate le principali possibilità di evocazione di un’alterità scomparsa, il cui “linguaggio muto” permaneva ancora nella realtà fisica del popolo. La rappresentazione del corpo implicava necessariamente quella del suo “simbolo nudo”: il sesso, visto come sublime esaltazione della corporeità – almeno, come vedremo, inteso come eterosessualità – e come elemento basilare, e non dissociato, della realtà popolare.

La presenza ontologica del corpo e del sesso, il loro puro esserci e il solo fatto di rappresentare un’alterità in opposizione all’entropia neocapitalistica, costituiva “l’ideologia muta”, ma non per questo meno efficace, implicita alla Trilogia della vita:

“L’ideologia nelle Mille e una Notte è profondamente nascosta, la si ricava non da quello che si dice esplicitamente ma dalla rappresentazione. Io faccio vedere un mondo, quello feudale, dove vive un eros particolarmente profondo, violento e felice, dove non c’è un uomo, anche il più misero degli accattoni, che non abbia profondo il senso della propria dignità. Io evoco questo mondo e dico: ecco, fate un confronto, io ve lo presento, ve lo dico, ve lo ricordo”[77]

Infine, l’eros, oltre ad essere un elemento imprescindibile dell’ideologia dei film[78]della Trilogia, era al centro della rappresentazione anche per ciò che aveva sempre rappresentato nella vita del regista:

“…i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente”[79]

 

In questo capitolo ho voluto ricercare le modalità e le ragioni della realizzazione della Trilogia della vita; analizzando, molto schematicamente, i vari periodi della maturazione della cosiddetta, da alcuni, «ideologia populista» di Pasolini e, in un secondo momento, le dichiarazioni pasoliniane attorno alla Trilogia per comprenderne la poetica assieme all’ideologia. Tutto questo prescindendo rigorosamente da quella che è stata l’effettiva riuscita dei film, rimandando ai capitoli riguardanti le singole opere le considerazioni relative, ad esempio, alla particolare forma che assunse lo «stile medio» in Pasolini o all’effettivo concretarsi della “gran voglia di ridere”.


CAPITOLO II

Il Decameron

1. Pasolini e Boccaccio.

“Ho letto il Decamerone[80], ho scelto le novelle che mi piacevano di più, selezionando fino a che sono arrivato a undici[81] […] La scelta è stata fatta per motivi un po’ arbitrari, cioè per motivi di gusto personale. Evidentemente, le ragioni per cui una novella mi piace più di un’altra sono complesse. Non sono, cioè, puramente edonistiche.”[82]

Con la sola eccezione dell’episodio tratto dalla novella di Alibech (poi escluso in fase di montaggio) in cui Pasolini fa divenire figlia di re la fanciulla protagonista[83] (mentre in Boccaccio era solamente “figlioletta bella e gentilesca” di “un ricchissimo uomo”), nella selezione operata da Pasolini rispetto alle cento novelle boccacciane l’elemento saliente è, senza dubbio, quello di aver completamente ignorato le novelle di ambientazione aristocratica ereditate dalla tradizione cortese e che caratterizzano molti episodi «culti» e dal registro stilistico «alto» del novelliere trecentesco. Inoltre risulta essere largamente ridimensionata «l’epopea dei mercatanti» (Branca) assieme all’esaltazione dell’ingegno, dell’intraprendenza, «dell’onestà» presente nei racconti che hanno come protagonista l’eroica classe borghese della rinascenza medievale. Gli episodi che si rifanno a novelle che in qualche modo presentano personaggi di estrazione borghese sono quelli di ser Ciappelletto (I, 1), di Andreuccio da Perugia (II, 5),di Lisabetta (IV, 5) di Ricciardo Manardi o de “l’usignolo” (V, 4) e l’episodio quasi completamente modificato di Giotto e Forese da Rabatta (VI, 5); ma, come vedremo, nell’adattamento pasoliniano (anche per il tipo di novelle scelte) l’elemento sociale e delle virtù connesse è allontanato sullo sfondo per una sorta di “livellamento verso il basso” che appiana i tipici tratti borghesi che in Boccaccio distinguono nettamente i “messeri” dagli “uomini discoli e grossi” del popolo minuto. Quando nella stesura cinematografica questi tratti distintivi permangono risultano significativamente ribaltati in vizi meschini, e all’esaltazione eroica boccacciana si sostituisce l’antico disprezzo di Pasolini per la classe sociale che lo aveva emarginato ed escluso.

Gli episodi tratti da novelle che hanno protagonisti di “leggiera condizione” sono quattro (sempre che non si voglia considerare tale la novella delle “brache del prete” (IX, 2) che, nel film, viene narrata da un “lettore pubblico” nella seconda parte dell’episodio di Ciappelletto) vale a dire: la novella di Masetto da Lamporecchio (III, 1), di Peronella (VII, 2), di Tingoccio e di Meuccio (VII, 10) e di donno Gianni di Barolo (IX, 10). Mentre dal semplice punto di vista quantitativo il rapporto tra novelle “borghesi” e novelle “popolari” risulta paritario, in realtà nel Decameron di Pasolini il mondo proletario risulta essere preponderante ed egemone stravolgendo l’ottica aristocratico-borghese del Boccaccio; infatti lo scrittore fiorentino fondando il suo futuro utopico sulla sintesi dei valori cortesi della vecchia nobiltà con lo spirito di intraprendenza borghese[84], tratta le storie e i personaggi della classe sociale inferiore partendo dal suo punto di vista privilegiato, osservando e godendo con curiosità la spontaneità e l’arguzia popolare senza disprezzarla, ma mantenendo sempre il distacco ironico (ma non sarcastico) di chi non viene mai meno alla coscienza e al riconoscimento della propria classe sociale; trasfigurando la “materia bruta” del racconto nella “nobiltà letteraria” della sua prosa luminosa ed immortale. Pasolini invece, come si è detto, nella sua personale rilettura del Decameron opera un ribaltamento della prospettiva originaria, in modo tale che alle dinamiche sociali del medioevo storico, oppure interne all’opera del Boccaccio, si sostituisce un universo coeso e uniforme; il “brulichio puramente esistenziale” di chi vive al di fuori o ai margini della storia, vivendo e morendo all’interno del solco eterno ed immutabile della millenaria cultura popolare. Cultura che appartiene a coloro che sono “I più adorabili di tutti” perché “sono quelli che non sanno di avere diritti”[85] e vivono in quel mondo che, in poche parole, da Boccaccio era visto ironicamente “dall’alto”, e che ora, in Pasolini, assorbe “dal basso” ogni altra realtà proponendosi come unico ed assoluto perché separato dal divenire storico.

“Io ho ritagliato un Boccaccio mio, particolare. Il mio Boccaccio infinitamente più popolare del Boccaccio reale. Il Boccaccio reale è popolare in un senso molto più vasto di questa parola: la borghesia veniva lecitamente compresa nel popolare, allora le istituzioni erano ancora feudali, erano ancora aristocratiche. Il potere era ancora un potere, o metafisico nel Papa, o insomma era comunque un potere sacro. Dunque, la borghesia, in qualche modo, era estremamente più vicina al popolo. Quindi, l’opera del Boccaccio si può definire popolare. In questo momento, ho dovuto ritagliare ciò che di tipicamente borghese c’era in Boccaccio, e propendere verso la parte, concretamente, veramente, esistenzialmente popolare. Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui viveva la nascita meravigliosa della borghesia) e l’ho, diciamo così, sostituita con quella innocente gioia popolare, in un mondo che è ai limiti della storia, e in un certo senso, fuori della storia.”[86]

Rispondente a questa esigenza di “ritagliare” un Boccaccio particolare (o di ricrearne uno nuovo attraverso la rilettura personale) è la decisione di ambientare i nove episodi nel napoletano e di utilizzare, al posto del fiorentino letterario del Decamerone, il dialetto campano, sfaccettato, spesso, nella moltiplicazione delle varie calate contadine. Napoli, secondo Pasolini, era una di quelle enclaves della cultura popolare di cui si è già parlato e che ancora resistevano (tragicamente perché destinate ad una scomparsa irrevocabile) all’omologazione distruttiva del nuovo capitale:

“Ho scelto Napoli per il Decameron perché Napoli è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, e, così, di lasciarsi morire: come certe tribù dell’Africa, i Beja, per esempio, nel Sudan, che non vogliono avere rapporti con la nuova storia, e si lasciano estinguere relegati nei loro villaggi, fedeli a se stessi, autoescludendosi. I napoletani non possono fare proprio questo, ma quasi.”[87]

La lingua usata, invece - che secondo alcuni[88] indicherebbe una contaminazione tra Boccaccio e il Basile de Lo cunto de li cunti, in modo tale che alla mediazione letteraria trecentesca Pasolini avrebbe sovrapposto, manieristicamente, il filtro letterario dell’opera barocca - secondo me deriva direttamente dal napoletano parlato che il regista conosceva “esistenzialmente” nei “parlanti” e nei “viventi” che, fra l’altro, prestavano il loro corpo e la loro voce come attori nel film[89]. Quindi non ci sarebbe una contaminazione erudita tra due Auctores, ma la contaminazione tra la lingua medievale e letteraria del Decamerone e il dialetto “dell’ultimo istante” ancora vivo e fecondo nella città meridionale. Pasolini chiarì le ragioni ideologiche ed artistiche di questa scelta in questo modo:

“[Rispondendo alla domanda se la scelta del napoletano era dovuta ad una polemica contro il centralismo della lingua toscana del Boccaccio] Nessuna polemica con Firenze: ormai Firenze, come centro linguistico-guida è finita. I centri linguistici-guida dell’Italia sono le aziende di Milano e Torino, checché ne dicano i linguisti, come Segre, essi sì rimasti agli anni Cinquanta, all’idea dell’egemonia linguistica popolare, attraverso un’ascesa della lingua dal basso! Ho scelto Napoli non in polemica contro Firenze, ma contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente Babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano. Non si tratta tuttavia di film dialettale. Il napoletano è la sola lingua italiana, parlata, a livello internazionale”[90]

Amplificando il senso di ciò che è appena stato detto si potrebbe dire che Pasolini non abbia voluto ricreare nel suo film un medioevo storico plausibile, e nemmeno il medioevo visto attraverso la mediazione boccacciana, ma piuttosto abbia ricercato una sorta di “medioevo della memoria” che facesse rivivere (riesumandoli o sottraendoli alla corruzione del divenire) i volti e i corpi del passato recente, spazzati via o fatti sopravvivere a se stessi dal nuovo corso storico.

Ma allora quale senso si deve dare alla scelta del Boccaccio? È solo un pretesto? Oppure esistono delle consonanze che vanno ricercate nelle profondità delle due opere?

Il Decamerone è un inno alla realtà, i luoghi, le cose, le persone vivono sulla pagina che hominem sapit; inoltre è (anche) un’opera comica: la situazione «carnevalesca» in cui è inserito il racconto delle novelle (l’evasione dall’orrore della Firenze appestata) permette di porre al centro dell’attenzione, di riscoprire irridendo ogni ipocrisia, gli elementi tipici della comicità liberatoria: il «basso», la materia, il corpo, il sesso. Nel famoso proemio alla Quarta Giornata Boccaccio, di fronte ai “riprensori” che gli imputavano una passione eccessiva per “gli amorosi basciari e i piacevoli abbracciari e i congiungimenti dilettevoli”, si difende raccontando la “novella delle papere” che, in sostanza, definisce l’amore carnale come un'insopprimibile componente dell’uomo e quindi ne esalta la naturalità contro l’ipocrisia, il gioioso appagamento contro l’insana repressione[91].

Questa riscoperta tardomedievale della bellezza e della naturalità del corpo e del sesso (anche se limitata alla situazione “carnevalesca”) può essere facilmente accostata a quanto si è detto dell’ideologia e della poetica pasoliniana attorno alla Trilogia della vita. L’autore di Trasumanar e organizzar ricercava nel Decamerone i fatti e i personaggi che avrebbero dato forza e vita ai corpi e ai luoghi della sua memoria, e che gli avrebbero permesso il recupero momentaneo – seppur cristallizzato nella mediazione letteraria – della sua “idea dell’uomo” che declinava irrimediabilmente verso la voragine del passato e dell’oblio.

Ma se questo può essere un punto di contatto vi sono anche, come vedremo, le differenze:

“Il mio stile, sempre eccessivo, ha trovato il modo di diventare medio. Oh certo, non sono arrivato e non arriverò mai al razionalismo e alla salute del Boccaccio. Purtroppo, non arriverò mai alla grandezza del pessimismo laico che permette di amare sanamente la vita, senza alibi della coscienza, senza pretesti. Non bisogna credere in niente per gioire di tutto”[92]

“Quanto al mito è la mia relazione con il mondo che è mitica: quindi anche nello «stile medio», che ho adottato per il Decameron (rivoluzionariamente rispetto alle mie opere precedenti) persiste quel certo silenzio…”[93]

All’inno della vita boccacciano che si leva dalle soglie di un’età nuova risponde contrappuntisticamente l’elegia pasoliniana della vita “dall’orlo estremo di qualche età sepolta[94].

2. Il Film

2.0. La struttura.

“Per legare assieme le diverse novelle, ho proceduto secondo questo sistema: ho conservato l’ordine cronologico del Boccaccio, formando due blocchi. Il primo è legato al montaggio alternato della novella di Ciappelletto. Il secondo è legato dal montaggio alternato della novella sull’Allievo di Giotto. Tra questi due blocchi, abbastanza compatti, c’è un intermezzo costituito dalla novella di Alibech, e girato nello Yemen.”[95]

Le novelle che compaiono nella forma definitiva del Decameron sono dieci, essendo stato tagliato in fase di montaggio l’episodio di Alibech che inizialmente, come si è visto, doveva costituire una sorta di passaggio tra la prima e la seconda parte[96]. Inoltre la novella delle “brache del prete” è inserita all’interno dell’episodio di Ciappelletto come il racconto di un vecchio ad un crocchio di persone.

La cornice del Decamerone è interamente soppressa; al suo posto abbiamo i due macro-episodi di Ciappelletto nella prima parte e dell’Allievo di Giotto nella seconda. Il primo non può essere considerato una cornice vera e propria, poiché non introduce i singoli episodi attraverso una procedura di «racconto nel racconto» (con la parziale eccezione della novella summenzionata delle “brache del prete” e “l’assonanza” tra quest’ultima e il successivo episodio di Masetto nel convento) ma si limita a scandirne la successione attraverso l’inserzione dei vari episodi della vita di ser Ciappelletto; il secondo macro-episodio dell’Allievo di Giotto, invece, può essere considerato, con qualche approssimazione, come una cornice, perché tutti gli episodi, come si vedrà, sono in qualche modo collegati al macro-episodio, sia indirettamente, attraverso concordanze “a senso” o corrispondenze figurative, sia direttamente, come nel caso dell’episodio de “l’usignolo” e di donno Gianni, quando i personaggi vengono visti dall’Allievo di Giotto (Pasolini stesso) subito prima dell’inizio (o durante l’inizio) del singolo episodio, in modo tale che il macro-episodio acquista, perlomeno, una funzione introduttiva nei confronti degli altri momenti del film.

I Parte - Ciappelletto

 
La struttura generale dell’articolazione degli episodi può essere riassunta in questo modo:

 

              I.      Ciappelletto (I, 1) - I parte -

            (Ciappelletto uccide un uomo)

 

           II.      Andreuccio (II, 5)

 


     Ciappelletto – II parte –

         III.      (Ciappelletto ruba e corrompe un ragazzino)

 Racconto delle “Brache del prete” (IX, 2)

 


        IV.      Masetto (III, 1)                 “Assonanza”

 

           V.      Peronella (VII, 2)

 

        VI.      Ciappelletto – III parte –

(Ciappelletto muore nella casa degli usurai)

 

[Intervallo – Alibech (III, 10) ]

II Parte – L’Allievo di Giotto

 
 

 

 


      VII.      L’Allievo di Giotto (VI, 5)[97] – I parte –

(L’Allievo di Giotto sorpreso dalla pioggia arriva a Napoli ed inizia l’affresco)

 


   VIII.      “L’usignolo” (V, 4)                      (L’Allievo di Giotto al mercato)

 

        IX.      L’Allievo di Giotto – II parte –

(L’Allievo di Giotto diserta la mensa per correre a dipingere)

 

           X.      Lisabetta (IV, 5)

 

        XI.      Donno Gianni (IX, 10)    (L’Allievo di Giotto vede i due uomini)

 

      XII.      L’Allievo di Giotto – III parte –

(Durante i lavori)

 

   XIII.      Tingoccio e Meuccio (VII, 10) – I parte –

 

   XIV.      L’Allievo di Giotto – IV parte –

(L’Allievo di Giotto ha una visione)

 

     XV.      Tingoccio e Meuccio – II parte –

 

   XVI.      L’Allievo di Giotto – V parte –

(L’affresco è finito)

 

Nell’intervento citato più sopra, infine, Pasolini affermava di aver conservato l’ordine cronologico del Boccaccio nella successione degli episodi; come si vede, invece, questa affermazione è confutata dal loro ordine effettivo; forse quest’ultimo fu cambiato in un secondo momento oppure Pasolini, nell’intervista, non si riferiva ad un ordine cronologico seguito in maniera rigorosa.

2.1. Ciappelletto (I, 1)

I Parte – L’episodio si apre con Ciappelletto che uccide, in una stanzetta buia, un uomo legato dentro ad un sacco; la m.d.p. segue da vicino (con una m.f. frontale) l’azione del protagonista che percuote l’uomo ai suoi piedi; la violenza dell’omicidio, però, è come racchiusa all’interno della metodica ritmicità con cui il delitto viene compiuto: Ciappelletto, molto probabilmente, sta eseguendo una commissione, quindi le bastonate con cui colpisce il malcapitato - che lo implora inutilmente per un attimo - ed il colpo di grazia inferto con il grosso masso sono sì furiosi, ma senza ira, come distillati da ogni passione, da ogni coinvolgimento emotivo, fanno parte del “mestiere”. I campi medi successivi che inquadrano Ciappelletto che porta il sacco con il cadavere fuori della stanzetta (da notare il campo-controcampo sulla scalinata che conduce verso l’esterno) e quindi, attraverso le vie tortuose del borgo, fino ad una ripa scoscesa, sembrano ritrarre un uomo al lavoro, un qualsiasi facchino che porta un sacco sulle spalle, confermando l’impressione di “routine” e di indifferenza che l’omicidio aveva destato. La fine della sequenza inquadra uno strapiombo con, sullo sfondo, le torri della città in controluce che si stagliano su un’alba blu-arancione e, infine, un ultimo p.p. del viso di Ciappelletto che, illuminato dai bagliori rossofuoco del sole che sorge e rabbiosamente stravolto in un'espressione luciferina, sputa con disprezzo dopo aver gettato il sacco nel burrone. Queste ultime inquadrature sembrerebbero confutare, grazie all’ambientazione “infernale” – la città sembra una Dite che brucia nell’alba – e allo sguardo carico d’odio di Franco Citti, quanto detto finora sul “distacco professionale” dell’assassinio su commissione. Ma collegando questo p.p. frontale con quello di ser Ciappelletto sgomento (subito dopo la sequenza- tableau vivant del “popolo del Nord” e subito prima del pranzo con gli usurai) nell’ultima parte dell’episodio (vedi oltre), lo sputo e la smorfia dell’assassino subiscono una notevole dilatazione semantica. Alla canagliesca manifestazione della propria “dritteria” per “averla scampata” e del proprio disprezzo nei confronti dell’assassinato – conforme al codice d’onore della malavita – suggerita da una prima, ovvia, lettura del testo filmico, si potrebbe aggiungere, retrospettivamente e per stratificazione, l’immagine di un Ciappelletto che spalanca gli occhi inorridito e rabbioso di fronte all’abisso che gli si spalanca davanti (si ricordi l’immagine della “città in fiamme”), l’abisso della crudeltà satanica ed ontologica che lo accompagna inesorabilmente con l’infamante “marchio di Caino” dell’omicida e del reietto. Lo sputo ed il viso paonazzo potrebbero dirsi gonfi di quella “trista vergogna” di cui si tinge il viso di Vanni Fucci – “uomo di sangue e di crucci” – nel XXIV canto dell’inferno[98], quando viene posto, da Dante, di fronte al proprio crimine e alla propria condizione. Ciappelletto, invece, è solo di fronte a se stesso, non c’è chi lo rampogni sarcasticamente, ma non c’è nemmeno posto per il rammarico o per la disperazione assolutoria; ma solamente la spietata e terribile coscienza del peccato, senza il pentimento.

Ciappelletto possiede sì la crudeltà e l’empietà di un demone, ma anche la sua solitudine.

II Parte - Come è gia stato detto, la seconda parte dell’episodio di Ciappelletto contiene la narrazione della novella delle “brache del prete”; raccontata da un vecchio in mezzo ad una folla sorridente e “tradotta” nel linguaggio, solo parzialmente verbale, di chi lo ascolta: il linguaggio sapido, carico della materialità e della grevità delle cose, ma anche della vita, posto di fronte all’esemplarità e alla trasfigurazione della pagina letteraria. In Boccaccio, la novella si distingue per la leggerezza e la gioiosa freschezza che accompagna la liberatoria irrisione dell’ipocrisia e degli infingimenti che frustrano l’appagamento della sessualità nel convento di suore; in Pasolini, invece, la materia del racconto subisce una sorta di degradazione che trasforma ciò che era liberatorio e gioioso nella ghignante consapevolezza di chi vive, al di là di ogni liberazione, nel pieno possesso della propria corporalità.

A margine del racconto s'inserisce la sequenza del furto di Ciappelletto ai danni di uno spettatore del contastorie, e dell’adescamento di un ragazzetto per mezzo del frutto del borseggio. Se si confronta l’azione con il racconto[99] (nonostante il degradamento di cui si è parlato) e se, soprattutto, la sequenza viene collocata, al pari di quella dell’omicidio, all’interno del ritratto di un uomo irrimediabilmente “marchiato”, si comprende come anche l’omosessualità del protagonista possa rientrare nella sfera del suo peccare e della sua esclusione[100] e, quindi, come dalla programmatica esaltazione del corpo e del sesso sia escluso, almeno in questo caso, il rapporto omoerotico.

III Parte – Il ritratto che Pasolini fa di Musciatto Franzesi all’inizio della terza parte dell’episodio, assieme a quello dei due usurai, può essere emblematico di quanto si è detto a proposito dei modi in cui la specificità borghese, quando ha modo di emergere, viene assimilata nell’universo sociale del film. In Boccaccio la figura di Musciatto, seppur appena delineata, è paragonabile a quella dei potenti a cui offre i suoi servigi[101], avendo quella certa connotazione carismatica (nel bene e nel male) che caratterizza, in genere, i grandi della terra presenti nel Decamerone. In Pasolini, al contrario, il “ricchissimo e gran mercatante […] cavalier divenuto” che alla spregiudicatezza e alla rapacità unisce l’acume e il pragmatismo del principe machiavelliano, è declassato negli umili panni di un qualsiasi messer Muscia’ laidamente deformato nel corpo e nella fisionomia da un’avidità volgare e viziosa[102].

Lo spirito grottesco di Pasolini diviene più corrosivo, nel corso dell’episodio, quando si trova di fronte i due usurai che ospitano Ciappelletto; questi aggiungono alla cupidigia di Musciatto l’ipocrisia di chi delega al “malvagio” e al “segnato” l’esecuzione materiale dei crimini necessari al buon corso dei loro affari. Significativa in questo senso è la scena del pranzo di Ciappelletto in casa dei due ospiti: mentre questi godono “dell’efficienza” del loro conterraneo (sono tutti napoletani) esaltandone, e nello stesso tempo riprendendone ipocritamente, la violenza e la spietatezza, Ciappelletto, inquadrato frontalmente in p.p., sbotta improvvisamente vomitando insulti sui due compari: «Sanguisughe. Vermi ‘e camposanto. […] Pidocchiosi. Ommeni ‘e merda.» ed infine: «Usurai!» (sputando) - ricordando, sia pur in maniera esteriore, l’inquadratura della prima parte (sempre in p.p. frontale) di cui ho già parlato. I due, messi di fronte alla realtà disvelata della loro professione, reagiscono agli insulti del loro commensale atteggiando i loro volti ad una sorpresa scandalizzata; fino a che lo stesso Ciappelletto, dichiarando di stare “pazziando”, scioglie la questione con un assolutorio “vulimmose bene”.

Un’importanza particolare riveste l’inquadratura di Ciappelletto in p.p. frontale, a cui ho già accennato, che segue la sequenza bruegheliana sulla malvagità e sulla follia del “popolo del Nord” e che precede la scena del banchetto. In questo p.p. silenzioso – che dura 6’’ – Franco Citti, guardando di fronte a sé ma non verso la m.d.p., spalanca gli occhi come inorridito di fronte ad uno spettacolo terribile; per poi addolcire impercettibilmente lo sguardo in un'espressione rassegnata ma comunque sgomenta. Il p.p. è montato, senza nero o dissolvenze, sul dettaglio del teschio che viene retto, con una pala da forno, dalla giovane donna con il cesto sulla testa; ma sicuramente non appartiene alla sequenza del tableau vivant, poiché quest’ultima è girata in esterno giorno mentre il p.p. è palesemente in interno giorno. Quest’ultimo elemento – aggiunto al fatto che Franco Citti indossa lo stesso abito e che lo sfondo scuro è identico a quello delle inquadrature successive – potrebbe far pensare che l’inquadratura appartenga alla scena del banchetto; ma la sua natura enigmatica e, come dire, “sospesa” e il fatto che ad essa segua l’esterno giorno con le due serve che entrano, camminando su un ballatoio, nella sala da pranzo (implicando quindi un passaggio di tempo), tendono ad isolare l’inquadratura dal resto dell’episodio caricandola di senso ed affidandole, in un certo qual modo, la funzione di commento o di “meditazione”; in maniera analoga, ad esempio, ai vari campi lunghi di Cecafumo in Mamma Roma che, avulsi dal fluire della storia, la scandivano e la commentavano[103]. Questo p.p. – evidenziato, dunque, dalla sua collocazione e dalla sua ambiguità – potrebbe apparentemente esprimere, in quel punto dell’episodio, l’orrore di Ciappelletto di fronte alla diabolica natura di quel “popolo del Nord” che Musciatto gli aveva prefigurato: il terribile sicario ha finalmente trovato nella folle «anomia» di un Trionfo della Morte qualcosa che superi, incommensurabilmente, la sua crudeltà. Interpretando l’inquadratura in questo modo, però, si rischia di limitarne – in senso semantico e all’interno dell’economia dell’episodio – l’importanza e la profondità; infatti, come ho già avuto modo di dire, questo p.p. può essere collegato biunivocamente con la smorfia d’odio di Ciappelletto nella prima parte: come quel p.p. poteva esprimere la “trista vergogna” dell’irredento di fronte a se stesso, così questo può significare l’atroce, ma dolcemente rassegnata, contemplazione dell’abisso di sofferenza e di morte che si apre, come un’onirica malebolgia dell’animo, davanti agli occhi del “grande peccatore”. Inoltre, collocato com’è prima del banchetto, questo p.p. precede il “momento della morte”, ovvero lo svenimento che precede l’agonia a letto, prefigurato, nell’inquadratura immediatamente precedente, dal dettaglio del teschio sorretto dalla giovane donna.

Più sopra ho richiamato, facendo un paragone, un elemento del secondo film di Pasolini: Mamma Roma; un’altra analogia, ben più forte e affascinante, esiste anche tra il Decameron e Accattone, l’esordio cinematografico del regista. Mi sto riferendo al confronto fra lo svenimento di Accattone, invitato dai papponi napoletani all’osteria del Pigneto, e la sequenza dello svenimento di Ciappelletto al banchetto degli usurai. Questa analogia è data innanzitutto da alcuni elementi esteriori: l’identità dell’attore protagonista, la “compagnia” costituita da napoletani - malavitosi sottoproletari da una parte e usurai borghesi dall’altra - la canzone “Fenesta ca’ lucive” cantata da Ciappelletto assieme ai due commensali prima di svenire e, parallelamente, da uno dei papponi durante il tragitto verso l’osteria in Accattone, ecc.. Inoltre si possono trovare, sotto un certo punto di vista, alcune consonanze fra le tematiche di fondo del primo film e quelle di questo episodio. La vicenda di Accattone può essere vista, molto sbrigativamente, come il dibattersi, tragico perché vano, di un individuo attratto inesorabilmente nella vertigine oscura dalla “necessità della morte”: Accattone ha impresse su di sé, fin dalle prime sequenze[104], le stimmate della sua Todestriebe solitaria ed assoluta. Anche Ciappelletto, come si è visto, risulta “segnato” nelle primissime inquadrature, ma forse la sua “Triebe”, più precisamente che verso la morte, è verso il peccato e la dannazione. La sua vicenda, inoltre, non è assolutamente tragica: Ciappelletto non è scisso nell’animo - non si ribella ma si limita a pazziare - non c’è dissidio tra volontà e fato, non esiste per lui nessuna presenza angelica come Stella; Ciappelletto, anche se con rabbia e orrore, accetta la propria condizione che non presenta alternative, senza l’angoscia e i tormenti di un Vittorio\Accattone.

La sequenza della confessione può essere significativa di quanto si è appena detto. Ciappelletto nell’enumerare i propri “santi peccati” davanti al frate – che può essere considerato come una deformazione irriverente[105] e “disperata” della figura pura e redentrice di Stella – si pone necessariamente, perché qui sta il senso e l’enormità della beffa, di fronte alla realtà della sua anima e del suo destino vista sotto la cruda luce di una cinica presa di coscienza senza alibi o rimandi. Disteso sul suo letto d’agonia (già) simile ad un sepolcro monumentale (si veda la statua della madonna benedicente collocata ai piedi del letto), forse Ciappelletto architetta l’inganno estremo e l’ultima bestemmia disconoscendo lucidamente ogni vita eterna? O si rassegna rabbiosamente alla dannazione? Oppure «È veramente ‘nu santo», come dice uno dei due usurai, poiché mente in punto di morte per salvare altruisticamente i suoi due ospiti? È completamente simulata, negli ultimi istanti di vita, la contrizione per aver “bestemmiato la madre” che colora il volto del morente o, invece, viene versata la cruciale “lagrimetta[106] salvifica? Chiaramente queste sono domande a cui è impossibile, o riduttivo, rispondere, ma permettono di ravvisare in primo luogo un ulteriore “arricchimento di senso” rispetto al testo boccacciano, il quale lasciava aperta, è vero, la questione sulla veridicità o meno della “santificazione” di Ciappelletto:

“Il qual negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli poté in su l’estremo aver sì fatta contrizione che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette…”

ma questa sospensione di giudizio appare più comicamente retorica che frutto di dubbio e confacente alla critica della decadenza clericale; inoltre, subito dopo, la questione è risolta negativamente:

“…ma perciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso.”

In secondo luogo questi interrogativi permettono di richiamare la scena finale di Accattone, quando il protagonista adempie il suo destino di “vocato alla morte” e, dopo la folle corsa in moto, spira sull’asfalto della strada esclamando:«Aaaah!… Mo’ sto bene!» e il suo compare Balilla (il futuro Stracci della Ricotta) si fa un segno della croce “rovesciato”. Questo brano può essere accostato all’ultimo respiro di Ciappelletto, quando i tratti del viso si irrigidiscono in una maschera di morte e la confessione, prima palesemente contraffatta ed esagerata, sembra diventare ad un tratto veritiera, e il pentimento per aver bestemmiato la madre (la Natura?), che per nove mesi l’ha tenuto in grembo, apparirebbe come autentico. Inoltre, anche a questo trapasso segue, ma qui era naturale aspettarselo, il rituale segno della croce del frate. Ciò che accomuna queste due sottosequenze è la presenza tematica dell’ambiguità del trascolorare della vita nella morte, con l’indefinita sospensione del significato che la morte proietta su tutta la vita passata. A corroborare la legittimità di questa lettura, per quanto riguarda il primo film, viene il già citato passo dantesco sulla morte di Buonconte da Montefeltro che è inserito come occhiello nei titoli di testa di Accattone e che, necessariamente, impone di concentrare l’attenzione (ambiguamente) sul momento della morte del protagonista. Momento che può essere visto come una palingenesi e una conciliazione, estrema ma non tardiva, di Accattone con l’esistente.

Quanto ho appena detto viene arricchito ulteriormente se si prendono in considerazione gli scritti pasoliniani sul cinema degli ultimi dieci anni di vita. Uno dei concetti principali espressi in questi saggi ed interventi è sicuramente quello della morte che “compie un fulmineo montaggio della nostra vita”[107] e che “finché siamo vivi, manchiamo di senso” e “solo grazie alla morte, la nostra vita serve ad esprimerci[108]. Questi enunciati, inseriti nell’argomentazione più vasta della ricerca di una Semiologia Generale[109], erano spesso accompagnati dall’immagine della vita vista come un continuo ed ininterrotto piano sequenza (così come il Cinema-langue opposto al Film-parole) girato da un'immaginaria macchina da presa onnipresente e “plurifocale”; questo p.s. continuo, che, finché si è vivi, non ha alcun senso nel suo fluire caotico e ambiguo, trova nella morte, che monta e trasceglie i vari pezzi dell’esistenza, la possibilità di esprimersi compiutamente. Significativo, dunque, e appropriato a quanto si sta dicendo, appare l’articolo di Pasolini intitolato I segni viventi e i poeti morti[110], in cui addirittura ritorna il richiamo dantesco di Buonconte (anche se qui Pasolini lo confonde col Manfredi morto “in co del ponte presso Benevento[111] del III canto del Purgatorio):

“Osserviamo un momento questa lacrimuccia [in Dante è «lagrimetta»]. Fino a quel punto l’uomo dal cui ciglio quella stenta e sublime lacrimuccia è gocciolata, era stato un peccatore: il suo era stato un esempio di (generico e cattolico) male. Quella lacrimuccia ha rovesciato la sua vita: ha gettato su essa, retrospettivamente, una luce completamente diversa: il male è divenuto un non male, un contrario del bene, una volontà di essere bene, un bene inespresso, una rabbia di non essere bene, un’impotenza a non volere bene, una forma aberrante eppure divina del bene.”[112]

Le due frasi che ho sottolineato, in questa sorta di climax, sembrerebbero essere più attinenti alla figura crucciata di Vittorio\Accattone che al ritratto diabolico e amorale di Ciappelletto, il quale – nella solitudine assoluta sottolineata dalle inquadrature frontali di cui si è parlato e dalla sequenza della confessione sul letto-sepolcro – sopporta titanicamente fino in fondo il peso della propria coscienza. Ma poiché, secondo Pasolini, noi ci esprimiamo solamente quando la morte ha posto fine allo “scorrere magmatico” della vita – “O esprimersi e morire o essere inespressi e immortali[113] – Ciappelletto posa il pennello del proprio ritratto solamente dopo gli estremi spasmi della sua esistenza, che rimane ineffabilmente sospesa (ma, comunque, non più modificabile) nell’ambiguità dell’ultimo sguardo lanciato nel vuoto.

È per questo, per queste implicazioni morali che mancavano nell’originale boccacciano, che la conclusione dell’episodio – la “santificazione” di Ciappelletto – assume, sia pur lievemente, un altro significato e un altro valore rispetto a Boccaccio (che invece, nella lettera, è seguito quasi pedissequamente – vedi il sermone del frate). La parte finale perde quasi tutta la carica anticlericale (che pur aveva avuto modo di esprimersi nella recitazione caricaturale di Giuseppe Zigaina) per condensare la sua attenzione attorno al corpo del “santo” che si eleva – come sul letto di morte – sulla folla in adorazione e davanti gli occhi inespressivi del vescovo[114]; poiché è questo corpo che, irrigidito dalla morte, rappresenta l’espressione compiuta e la testimonianza tangibile (le mani che lo toccano continuamente) della vita, di tutta la vita, di ser Ciappelletto[115] (sia pur al centro di una palese mistificazione che però, come si è detto, nel film di Pasolini passa in secondo piano).

Tutto ciò che si è detto, sia a proposito della “lagrimetta” palingenetica sia riguardo al concetto di morte “applicato” alla Semiologia del Cinema, non deve essere inteso né come un avallamento della visione di un Pasolini intriso di spiritualismo (almeno non in questo caso) o, addirittura, di cattolicesimo, né, tanto meno, come un mio tentativo di lettura in tale senso. Lo stesso Pasolini, subito dopo il brano che si è riportato più sopra, scriveva:

“La mia idea della morte, dunque, malgrado quest’ultimo esempio dantesco, non è né cattolica né idealistica: almeno in questa fase del mio discorso (che è un discorso grammaticale e semiologico sul cinema) […] [la mia idea], dunque, era una idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita. Alla vita intesa dunque come adempimento, come tendenza disperata, incerta e continuamente in cerca di supporti, pretesti e relazioni, verso una sua perfezione espressiva.”[116]

2.2. Andreuccio (II, 5)

Nel Decamerone la novella di Andreuccio da Perugia è un exemplum borghese e laico sulla maturazione del protagonista e sulla forza dell’ingegno di fronte agli imprevedibili mutamenti e rovesci della fortuna; inoltre, se vi è il riconoscimento della prontezza di spirito mostrata dal giovane mercante negli estremi pericoli incorsi, anche l’astuzia per cui si è distinta la Bella Siciliana è assimilata, scevra da ogni moralistica riprensione, al numero delle virtù dell’ingegno e dell’intraprendenza. Nel Decameron di Pasolini la forza dell’exemplum viene decisamente ridimensionata e risultano posti al centro del racconto filmico il gioco, la vitalità (anche se “disperata”), il puro gusto del narrare. La stessa recitazione di Ninetto Davoli, che non a caso interpreta Andreuccio, appare improntata a quella visione del cinema come gioco di cui Pasolini aveva parlato nell’intervista, già citata, a Dario Bellezza[117]: Ninetto in molti casi sembra quasi scherzare con la macchina da presa e con il regista, “fa sentire” la finzione profilmica attraverso il suo candido manierismo, la sua “naturalezza innaturale” di fronte all’obiettivo[118]; in poche parole: gioca e si diverte. Mi riferisco, ad esempio, alla scena iniziale quando Andreuccio, sotto lo sguardo calcolatore della Bella Siciliana, mostra incautamente i suoi fiorini in mezzo al mercato dei cavalli, ostentando la sua ricchezza e incedendo, gonfio il petto, con una camminata da “vantone” talmente tipica e “stirata” da apparire volontariamente e sguaiatamente innaturale. Oppure durante il dialogo in casa della prostituta, quando ai primi piani della Bella Siciliana, che racconta la sua storia ingannatrice, si alternano i primi piani del volto di Andreuccio che muta man mano che procede la narrazione della donna: prima speranzoso, poi deluso e vagamente sospettoso ed infine serenamente rassegnato e sorpreso dall’aver ritrovato una sorella sperduta; tutte queste espressioni - che passano in rassegna, attraverso le varie sfumature, la “fenomenologia” del “micco”, la vittima designata della truffa – danno, soprattutto attraverso la mimica affettata e il doppiaggio cantilenante presenti nel soddisfatto «Eeeeh! Che ce volete fa’, non tutto il male viene per nuocere…», una netta impressione di giocoso “recitato” e quasi di ammiccamento oltre la macchina da presa.

Alla scoperta del gioco e del divertimento si aggiunge anche l’esaltazione della vitalità e, quindi, della corporeità: i bambini nudi che giocano sullo spiazzo del mercato dei cavalli, il sorriso della vecchia serva siciliana alla vista di Andreuccio, l’allegra processione delle donne che imbandiscono la tavola con piante e fiori in casa della Bella Siciliana, eccetera. Ma, in particolare, è il p.p. di Ninetto, che annusa a pieni polmoni un garofano con gli “occhi ridarelli” durante la cena con la “sorella ritrovata”, che può essere considerato l’emblema di questa “fame di vita” e di amore per essa.

Il mondo in cui l’innocente, almeno inizialmente, e candido Andreuccio si trova calato non è, naturalmente, altrettanto candido e altrettanto innocente. La Bella Siciliana ha escogitato il suo piano ingegnoso a cui hanno collaborato le serve e il ragazzetto che sega un’asse del “cacaturzo”; ma nella sua azione e nel suo ritratto non c’è alcuna traccia di meschinità o di ipocrisia. Quando, ad esempio, Andreuccio è caduto nella trappola e la donna si getta felice sul letto per contare i fiorini lasciati dal malcapitato, si assiste solamente, come in Boccaccio, al sereno riconoscimento dell’astuzia e dell’ingegno al di fuori di ogni problematica e connotazione moralistica: c’è solo la fresca allegria di una giovane donna che ha ottenuto ciò che desiderava. In più, differenziandosi in questo caso dal Fiorentino, l’immagine che Pasolini dà della prostituta viene arricchita e trasfigurata figurativamente dagli accostamenti e dalle citazioni dotte: il cielo turchino smaltato che fa da sfondo all’apparizione della Bella Siciliana all’inizio dell’episodio, oppure l’inquadratura della donna alla finestra in attesa di Andreuccio e avvolta in una veste rossa, che potrebbe ricordare, per la postura e per la scelta cromatica, un affresco di Simone Martini e della Scuola Senese.

Questa visione, che può essere considerata una sorta di ibrido e di sovrapposizione tra quella laica e “borghese” del Boccaccio e quella sacra e “trasumanante” di Pasolini, non pertiene al solo ritratto della Bella Siciliana ma viene estesa anche agli altri complici. Si può ricordare, ad esempio, la piccola serva della prostituta che saltellando e battendo le mani in un gioco di bambina va a chiamare, con la sua flebile voce – nel doppiaggio pasoliniano ancora una volta significativamente straniante – e con il suo viso serio e angelico, il “signurinu” Andreuccio che, sorridendo con un fiore in bocca, le risponde esclamando:«Con tutto er core!». Oppure si possono ricordare le inquadrature del protettore della Bella Siciliana che guarda in alto verso la finestra della casa; nell’atmosfera ipogea del “basso” napoletano attende il maturare degli eventi in compagnia di alcuni guappi, ascoltando la malinconica canzone della malavita cantata da uno di questi. Nel ritmo lento della musica e dell’attesa si inserisce il ritratto di questi “puri” pasoliniani[119] calati nel mondo violento e degradato del loro astorico e pagano codice di comportamento.

Leggermente diverso appare il trattamento riservato ai due tombaroli che nella notte incontrano Andreuccio, imbrattato e maleodorante per essere caduto nel «chiassetto», fuggito dalla contrada di Malpertugio e rifugiatosi in una botte all’interno di una grotta. L’immagine dei due, il “dritto” grasso e collerico e la “spalla” querula e funestata dai tic, è fortemente connotata in senso grottesco ma senza le punte sarcasticamente caustiche che Pasolini aveva riservato ai personaggi di Musciatto Franzesi e dei due usurai nell’episodio di Ciappelletto. Causticità e sarcasmo che sembrano, invece, ritornare nel ritratto del sacrestano che, per secondo, va a razziare l’avello in cui è stato rinchiuso, a sua insaputa, lo sfortunato Andreuccio. Infatti questo stralunato sacrestano, che parla un italiano studentesco e medioborghese[120], dopo aver ripreso i due compari superstiziosi con la sua saccenteria “illuministica” è il primo a fuggire vergognosamente rimboccandosi la veste e riempiendo la chiesa con le sue grida di spavento.

Una significativa differenza tra la novella e l’episodio di Andreuccio può essere ravvisata, invece, nella conclusione e nella diversa importanza che ha, in Boccaccio e Pasolini, la maturazione, l’Entwicklung del protagonista. Nel Decameron pasoliniano non manca del tutto la rappresentazione della parabola ascendente delle fortune e della virtù di Andreuccio (che però in Boccaccio aveva ben altro spessore); se si confrontano i piani di Ninetto al mercato dei cavalli o mentre “abbocca” ascoltando il discorso della sedicente sorella naturale, con le inquadrature dello stesso che ha ormai capito il gioco dei due tombaroli (che lo vogliono costringere ad entrare nella tomba) e che atteggia il viso nella smorfia di chi, disincantato, ha scoperto «di che pasta è fatto l’uomo», risulta evidente l’avvenuta costruzione e l’avvenuto sviluppo del personaggio che ha fatto tesoro delle proprie esperienze e le sa sfruttare nelle diverse contingenze a cui lo espone la fortuna mutevole. Ma mentre Boccaccio terminava la novella con la constatazione del diverso (e ugualmente proficuo) investimento operato da Andreuccio[121], Pasolini dimentica i fiorini e l’anello in favore della celebrazione della pura e santa felicità di Ninetto che esce dalla tomba e riassapora la vita, danzando allegro come un matto.

All’esaltazione boccacciana dei valori laici della mercatura si sovrappone e si sostituisce la riscoperta – o la nostalgia – della vitalità primigenia e incorrotta.

2.3. Masetto (III, 1)

“Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina, né più senta dei feminili appetiti se non come se di pietra l’avesse fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n’odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo aver rispetto a se medesimi…”

Questo è il preambolo attraverso il quale Filostrato, all’inizio della terza giornata, introduce il racconto di Masetto da Lamporecchio, con il chiaro intento di ribadire la naturale vocazione dell’uomo alla sessualità al di sopra di ogni vincolo e convenzione sociale. Pasolini, ancora una volta, nel fare sua la novella boccacciana focalizza la sua attenzione su alcuni elementi specifici e ne arricchisce il significato attraverso la sua visione e la sua lettura, come è lecito aspettarsi da ogni vero autore, e attraverso la sua poetica e la sua ideologia. Il corpo e il sesso sono chiaramente il centro tematico dell’episodio pasoliniano e più che l’attestazione dell’insopprimibilità dell’eros viene privilegiato il momento della scoperta – o, dal punto di vista ideologico, della riscoperta – e del mistero che ammanta desiderio e appagamento.

Le sequenze più importanti dell’episodio, da questo punto di vista, risultano essere quella dell’incontro delle due suorine – una “che alquanto era più baldanzosa” e una ingenua – con Masetto al lavoro e quella dei due successivi amplessi nel capanno dell’orto. Innanzitutto c’è la scoperta, nel vero senso della parola, del sesso maschile che “appare” alle due suore che passano sotto l’albero; poi c’è il dialogo tra la “baldanzosa” che propone, con gli occhi azzurri colmi di desiderio sotto la cuffia candida, di “provare che bestia fosse l’uomo” e l’ingenua che, attraverso lo sguardo placido e le sorridenti proteste di verginità, manifesta di aver già assentito nell’animo alle parole della compagna; infine c’è l’invito a Masetto che viene fatto, significativamente, toccandogli il pene con un bastone. La sequenza successiva (quella dell’amore nel capanno) sembrerebbe essere dominata dalla gioiosa levità e bellezza della sessualità: l’orto fecondo di foglie e limoni, il saltello allegro e buffo che fa la prima suora per rimboccarsi le vesti in vista del coito, i dolci e insistenti «trase» o i «monteme ‘n coppa» colmi di desiderio con cui invita Masetto, eccetera. Ma questo è vero solamente in parte, o comunque la levità non esclude anche il mistero, il sacro, il perturbante o forse, addirittura, li richiede come elementi fondanti. A questo proposito mi soffermo su due inquadrature che, in maniera diversa, sembrano confermare quanto appena detto.

Durante il primo amplesso, dopo i ripetuti inviti della suora e lo scambio di sorrisi fra i due, la m.d.p. si sofferma, per qualche secondo, sul pene di Masetto che spunta, in erezione, dalla camicia aperta; questa inquadratura, soprattutto se messa in relazione con l’episodio “dell’usignolo” nella seconda parte del film, lungi dall’essere una mera componente naturalistica risulta connotata, nella purezza dell’inquadratura frontale, dalla nota visione sacrale pasoliniana che sembra racchiudere l’immagine in una sorta di “ciborio visivo” che esalta l’essenza delle cose attraverso la massima semplificazione. La seconda inquadratura è il p.p. della suora “baldanzosa” mentre aspetta fuori dal capanno che la compagna provi quanto lei ha testé sperimentato. In questo p.p., di qualche secondo, la suora aspetta con un’espressione ambiguamente assorta che poi trascolora in un placido sorriso appena accennato; questo viso pensieroso e come sospeso in contemplazione non sembrerebbe limitarsi ad esprimere la soddisfazione dell’appagamento, e nemmeno essere un sorta di rimorso tardivo fugato dal sorriso finale; ma, bensì, pervade la scoperta dell’eros che si è appena compiuta con la perturbante presenza del silenzio e del mistero.

Sotto questa luce le sequenze successive della scoperta della tresca, dell’organizzazione “taylorista” delle prestazioni di Masetto e della proclamazione finale del “miracolo” da parte della badessa, in parte ritornano all’ossequio della pagina boccacciana e in parte sono dovute all’ironia, qui mai veramente acida, di Pasolini verso il clero[122]. Un esempio di quest’ultima può essere il gesto sorpreso ed estasiato (quasi una citazione della postura della madonna nell’Annunciazione di Lorenzo Lotto) che fanno le due suore, ma poi anche la badessa, quando cantando un inno si trovano davanti “all’apparizione” del sesso di Masetto.

Questo episodio si distingue dagli altri perché, assieme a quello di donno Gianni e al proemio dell’episodio di Giotto, non è ambientato in città ma nel contado e, inoltre, perché è l’unico in cui viene filmato il lavoro nei campi. Sia all’inizio, quando Masetto è al suo paese e lavora come bracciante, sia nella seconda parte, quando il giovane è assunto come ortolano del convento, il modo in cui Pasolini ritrae il lavoro agreste ricorda, sotto alcuni aspetti, l’opera poetica degli anni ’40, anni immersi, in buona parte, nell’universo arcaico-mitico del Friuli contadino; oppure, per rimanere più vicini, le riprese dei braccianti al lavoro ricordano le analoghe sequenze dei contadini africani al lavoro negli Appunti per un’orestiade africana. Le inquadrature di Masetto che beve, dei braccianti che dormono sotto i rami, del giovane che cammina scalzo nel rigoglio dell’orto richiamano da vicino le immagini dei contadini di Casarsa presenti sia come “viventi” nelle poesie di quegli anni sia come “scomparsi”, assieme alla loro “idea dell’uomo”, negli Scritti corsari o ne La nuova gioventù.

2.4. Peronella (VII, 2)

Senza voler dare un giudizio estetico, sono poche le notazioni che si possono fare attorno a questo episodio, soprattutto perché ciò che si è detto, e si dirà, a proposito del film nel suo complesso, e cioè attorno alle tematiche del sesso e del gioco, esaurisce quasi tutte le argomentazioni particolari.

Si può dire, comunque, che nell’episodio di Peronella il sesso e il gioco assumono valori caratteristici; il sesso diventa più greve e carnale, senza per questo assumere una valenza negativa; basti pensare ai primi piani del viso di Peronella accaldato e stravolto dal piacere mentre rimprovera il marito o mentre sta avendo l’amplesso segreto con Giannello. Anche il gioco si ispessisce e diventa triviale nella beffa del doglio e nelle ironiche lodi che Peronella indirizza al marito intento a pulire l’interno del vaso; e il riso e la gioia diventano iperboliche nell’incontenibile risata asinina del marito[123] che accompagna tutto l’episodio.

2.5. L’Allievo di Giotto (VI, 5[124])

I Parte – L’episodio si apre con un nubifragio che costringe due compagni di viaggio, “l’avvocato” messer Forese da Rabatta e “’nu bravo artista dell’alta Italia, il miglior discepolo di Giotto”, a rifugiarsi sotto la misera capannetta di un vecchio contadino[125], che offre loro due miseri panni e due cappellacci per coprirsi dalla pioggia. Fin da subito Pasolini, che interpreta l’artista, viene presentato, contro il suo volere, come il “il maestro” che deve affrescare la chiesa napoletana di Santa Chiara. Questa presentazione, e il p.p. successivo che inquadra il regista bagnato dalla pioggia che guarda di lato, connotano ed isolano nello stesso tempo la figura dell’artista che, da questo momento in poi, sarà il “creatore” ma anche il “diverso”, “l’osservatore” ma anche il “solitario”.

La figura di Forese da Rabatta, che in Boccaccio era un celebre giureconsulto “da molti valenti uomini uno armario di ragione civile […] reputato”, qui risulta ridimensionata in quella di un qualsiasi “avvocato”[126], come lo chiama l’Allievo di Giotto, in virtù di quell’abbassamento al livello più schiettamente popolare di cui si è già parlato all’inizio del capitolo. Ma la differenza più vistosa tra questo episodio e la novella boccacciana è dovuta, naturalmente, alla pressoché completa reinvenzione della trama; infatti la storia originaria, che prevedeva solamente uno scambio di motti tra Forese e il pittore Giotto in persona, viene mantenuta solo nelle sequenze iniziali della I parte e, addirittura, viene stravolta nel senso, poiché Pasolini omette la risposta di Giotto, che concludeva la novella, ai lazzi del Giureconsulto. In questo caso, dunque, Boccaccio è poco più che un pretesto per introdurre la figura dell’Allievo di Giotto e il macro-episodio che fa da cornice alla seconda parte del film.

L’arrivo dell’artista a Santa Chiara e la successiva presentazione ai notabili della confraternita permettono di innescare una sorta di sequenza chapliniana: l’Allievo di Giotto, ancora imbacuccato nella mantella offerta dal contadino, giunge a grandi falcate di fronte ai notabili, per poi fare improvvisamente dietrofront intimidito dagli astanti; quindi, rassicurato, si incammina verso l’entrata della chiesa togliendosi il cappello con un ampio gesto e camminando buffamente come un piccolo generale al comando di un esercito al suo seguito.

La sequenza dell’inizio dei lavori vede l’artista immerso nella contemplazione del muro bianco mentre, con un fragore di tuono, l’impalcatura viene collocata al suo posto di fronte alla parete. La scena, dal chiaro valore simbolico (Pasolini creatore al cospetto della pagina bianca), è resa quasi solenne dall’alternarsi dei primi piani del regista, con gli occhi fissati profondamente di fronte a sé, e dei totali della parete da affrescare, a cui viene appoggiata l’impalcatura che ha il proprio centro simmetrico nella figura dell’artista di spalle. Ad aumentare l’impressione di solennità e grandezza contribuisce il rimbombo continuo prodotto dallo spostamento dell’impalcatura che, proprio come un tuono primordiale, accompagna il momento del concepimento della “creazione”. Ma, d’altra parte, giunge, creando una sorta di contrappunto sarcastico alla ieraticità della scena, l’inserimento nella sequenza dell’inquadratura, in m.f., dei due frati effeminati che osservano, impudicamente lascivi, il pittore all’opera. La figura dei due frati ritorna ancora, sullo sfondo, nell’inquadratura frontale in cui Pasolini, al centro del campo, guarda verso l’alto il muro da affrescare. Questi inserimenti dissacrano e complicano nello stesso tempo la sequenza dell’inizio dei lavori: nel momento stesso in cui l’attenzione si concentra, con la solennità di cui ho parlato, attorno alla natura e allo spirito dell’artista e dell’arte – sia pur con la facile similitudine tra il pittore dentro il film e il regista (quasi una mise en abyme) – Pasolini spietatamente autodenuncia la propria omosessualità, la propria diversità “razziale”, e lo fa, apparentemente, in una maniera degna del più becero e teppistico rotocalco scandalistico; cioè additandone qualunquisticamente, oltre ogni indulgenza, gli aspetti «sconvenienti» e «degeneri» e accostando la propria immagine colta nell’attimo più sublime e privato - il concepimento artistico - al pubblico sberleffo e al dileggio più grossolano

Parlare del rapporto tormentoso e dilacerante che Pasolini ebbe con la propria sessualità non sarebbe cosa nuova né cosa agevole; per di più esulerebbe in gran parte dall’argomento di queste pagine. Parlare, inoltre, del modo in cui Pasolini avvertiva l’esclusione dal corpo della società, dovuta appunto a questa diversità “razziale”[127], e l’angosciosa coscienza di questa esclusione, risulterebbe altrettanto complesso e risaputo. Ma si può comunque affermare che, senza alcun dubbio, le ragioni di questo “irrispettoso accostamento” vanno ben oltre un’improbabile stigmatizzazione sarcastica delle proprie pulsioni o, addirittura, un quasi impronunciabile riconoscimento («revisionista» e «reazionario») delle posizioni di quella subcultura clericofascista che a colpi di processi ed articoli calunniosi aveva avvelenato, esasperandolo, l’ultimo ventennio di vita dello scrittore-regista[128].

Infatti il parlare della propria omosessualità rifuggendo ogni eufemistico abbellimento e, anzi, banalizzandola nel renderla sgradevole, ha un palese intento provocatorio; un modo per imporre lo “scandalo della propria diversità” in tutta la sua forza e al di fuori delle ghettizzazioni che la cosiddetta «età della tolleranza» implica per sua stessa natura. Illuminanti, a questo proposito, risultano alcuni passi delle Lettere luterane, scritte solo nel 1975, ma espressione compiuta della maturazione di tutta una fase del pensiero pasoliniano il cui centro focale è costituito, appunto, dai film della Trilogia:

“Ebbene: in tal senso [a proposito della sessualità] io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un «tollerato».

La tolleranza, sappilo [si rivolge a Gennariello, l’interlocutore immaginario di una parte delle Lettere luterane], è solo e sempre puramente nominale. [...] E questo perché una «tolleranza reale» sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si «tolleri» qualcuno è lo stesso che lo si «condanni». La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al «tollerato» - mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua «diversità» - o meglio la sua «colpa di essere diverso» - resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della «diversità» delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi – certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal «ghetto» fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato.

Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un «ghetto mentale», e guai se uscirà di lì.

Egli può uscire di lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza.

Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere «tinta» dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria.”[129]

Dunque, nella sequenza dell’inizio dei lavori, Pasolini rifiuta di smussare la propria “negritudine”, di chiedere tacitamente perdono per propria diversità, e la “getta sul piatto” nuda e cruda, vera e propria «pietra d’inciampo» per “tolleranti” e “moralisti”. Anche se (bisogna ammetterlo) si è ancora lontani da quella “poetica dell’anomia”, cioè dal perseguire l’opera d’arte inconsumabile per smascherare la falsa tolleranza del nuovo potere, che sarà alla base di Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Un aspetto ulteriore di questo accostamento tra l’artista che crea e il “marchio” della sua diversità – e, in questo senso, una sfaccettatura complementare di quanto si è appena detto – è dato dalla denuncia che Pasolini sembra fare contro coloro che avevano sempre legato ogni sua espressione artistica e comportamentale alla manifestazione di quella “tara di fondo” che ne contaminava l’esistenza. Come Pasolini aveva sempre respinto con sdegno chi lo vedeva come una “bestia da stile” riconducendo all’espressione artistica o alla poetica ogni suo concetto e ideologia[130], così, in questo caso, rifiuta la riduzione di tutta la sua personalità alla patologia della devianza; e lo fa assumendo, per assurdo, le “tesi del nemico”, cioè ritraendosi “così come lo vedevano”. Sempre nel 1975 Pasolini dichiarò a Jean Duflot:

“Sono vent’anni che la stampa italiana, e in primo luogo la stampa scritta, ha contribuito a fare della mia persona un controtipo morale, un proscritto. Non c’è dubbio che a questa messa al bando da parte dell’opinione pubblica abbia contribuito l’omofilia, che mi è stata imputata per tutta la vita come un marchio d’ignominia particolarmente emblematico nel caso che rappresento: il suggello stesso di un abominio umano da cui sarei segnato, e che condannerebbe tutto ciò che io sono, la mia sensibilità, la mia immaginazione, il mio lavoro, la totalità delle mie emozioni, dei miei sentimenti e delle mie azioni a non essere altro se non un camuffamento di questo peccato fondamentale, di un peccato e di una dannazione.”[131]

Tutto questo, però, viene espresso senza venire mai meno, almeno in superficie, alla programmatica levità dello «stile medio», l’accento è posto sul racconto e sul piacere del racconto e le rimanenti implicazioni esistenziali ed ideologiche rimangono, non per questo sminuite, nella profondità del testo filmico.

Subito dopo la sequenza dell’inizio dei lavori - espressi cinematograficamente con il montaggio (una dissolvenza su nero e una successiva apertura a stacco) tra l’inquadratura del muro nudo, la “pagina bianca”, e quella della prima parte dell’affresco – ha inizio la ricerca, da parte dell’Allievo di Giotto, dei soggetti e delle fisionomie per il suo lavoro nel mercato di Santa Chiara. Tra le zucche appese di una bancarella fa capolino il viso di Pasolini che coglie dal vivo la realtà, anzi addirittura la “riprende”, anacronisticamente, guardandola attraverso un obiettivo improvvisato dalle dita incrociate. I “soggetti scelti” saranno i protagonisti (la ragazza e i suoi genitori) dell’episodio successivo “dell’usignolo”; ma nello stesso tempo sono fonte di ispirazione per il pittore che, infatti, subito dopo ritorna all’opera e dà inizio ad una nuova fase dei lavori (un nuovo episodio?), in cui si assiste alla preparazione dei colori[132] da parte dei garzoni dell’artista; questa è la materialità “artigianale” dell’arte fatta di tempere grasse e nerofumi così come il cinema si avvale dell’ausilio tecnico di altrettanti “artieri” che collaborano alla realizzazione dell’opera.

A cosa alluda Pasolini quando riprende se stesso al mercato, calato nel profondo di quella realtà che vuole ritrarre, è estremamente evidente: allude scopertamente sia alla sua storia artistica sia, e soprattutto, alla sua concezione del cinema, prescindendo dalla sua poetica e dal suo stile, come “lingua scritta della realtà”; cioè come arte il cui segno (l’im-segno o il cinèma) non allude metaforicamente (come nella letteratura) ma “riproduce” la realtà attraverso se stessa[133].

Successivamente, l’Allievo di Giotto – dopo aver raccolto il “materiale” con la sua immaginaria macchina da presa – ritorna al lavoro e dà la prima pennellata del nuovo affresco, una pennellata rossa sull’intonaco disegnato, alla quale segue, a stacco senza neri o dissolvenze, la prima inquadratura dell’episodio successivo – cinque donne in mezzo ad un giardino lussureggiante in cui spiccano, in basso a sinistra, alcuni fiori rossi che riecheggiano la prima pennellata – come se la storia di Ricciardo e Caterina scaturisse dalla fantasia del pittore e questi la facesse “interpretare” da attori catturati nel vivo del loro milieu e della loro autenticità.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte ad una complicazione e ad un “arricchimento di significato” che discende, per via diretta, dal fatto che il protagonista dell’episodio-cornice della seconda parte del film sia interpretato da Pasolini stesso; del valore complessivo da assegnare a questa interpretazione si parlerà più oltre, alla luce, in modo particolare, del commento del pittore che suggella la fine dell’affresco e del film.

II Parte – Questa parte dell’episodio è poco più di uno sketch, sia per la durata sia per alcuni elementi stilistici (ad esempio la velocità doppia), ma permette comunque di rintracciare alcuni elementi significativi - sia pur, per certi versi, esteriori – nell’economia del racconto.

La prima sequenza si apre con l’inquadratura del refettorio in cui i frati attendono impazientemente che il pittore si presenti a mangiare – uno dei frati sbotta dicendo:«Eh ma allora non arriva più... Eh, questi artisti...» - alla fine «l’artista» arriva scusandosi ma rimane seduto al desco (da notare che tutti si fanno il segno della croce mentre il pittore si gratta semplicemente la testa) solamente per qualche istante, perché colto da una ispirazione improvvisa fugge, scusandosi di nuovo, per ritornare al lavoro.

Anche in questo caso, nella levità e freschezza dello sketch, il personaggio dell’artista spicca e si isola dagli altri per la sua diversità e per la sua solitudine, rinuncia al cibo e alla compagnia di coloro che sono esclusi, in quanto committenti e non collaboratori, dal Sancta Sanctorum della sua officina; ma anche il pittore è escluso a sua volta, bollato come un “inetto alla vita” proprio in virtù della sua diversità e del suo essere visto come una “bestia da stile” legata simbioticamente e univocamente al proprio lavoro.

Infatti la sequenza successiva, quella del ritorno all’affresco, vede il pittore correre liberato e fremente verso l’impalcatura (la scena è girata parzialmente a velocità doppia) e sollecitare con impaziente allegria i garzoni che accorrono solleciti agli ordini del maestro. Finalmente, calato nella dimensione che gli è congeniale, l’Allievo di Giotto può stendere lo sfondo dell’affresco, un cielo azzurro chiaro che prelude alla prima inquadratura, montata ancora una volta a scatto, dell’episodio di Lisabetta. Anche questa inquadratura – una piccola finestra aperta sull’azzurro carico del cielo subito prima dell’alba – richiama per “assonanza cromatica” la pennellate stese dal pittore dell’episodio-cornice.

III Parte[134] - Questa parte non è altro che un inciso nel fluire dei singoli episodi: scandisce e commenta il progresso nella realizzazione dell’affresco; tutti sono immersi nel lavoro ed iniziano a fischiare, tutti tranne lo sdentato che dopo qualche vano tentativo erompe in una risata stridula e folle.

Ma il pittore continua a lavorare imperterrito, e i suoi aiutanti con lui, tutto compreso nella sacralità della sua arte, per nulla sminuita, verrebbe da dire, da quella risata ma che, anzi, fa della gioia e della spontaneità il proprio mezzo e fine.

Il collegamento con l’episodio successivo, questa volta, è dato dall’inquadratura dell’esterno della chiesa di Santa Chiara (dove lavora l’Allievo di Giotto), ai cui piedi si trovano le bancarelle del mercato dove lavorano Tingoccio e Meuccio.

IV Parte – Sull’inquadratura finale della prima parte dell’episodio di Tingoccio e Meuccio (Tingoccio addormentato in seguito alla reprimenda del compare) si inseriscono i piani all’interno dello stanzone dove dorme l’Allievo di Giotto assieme ai suoi collaboratori. Le inquadrature, basse e rigorosamente frontali, scorciano i corpi dai piedi alla testa ricordando vagamente gli sperimentalismi prospettici dei pittori quattrocenteschi (si potrebbe citare, sbrigativamente, il San Sebastiano di Antonello da Messina accanto all’ovvio riecheggiamento del Cristo morto[135] mantegnesco) e i colori smorzati e densi imbrigliati nella fissità dei piani danno la sensazione di osservare una serie di dipinti ad olio.

L’Allievo di Giotto, che dorme in un giaciglio separato da quello degli altri, ad un certo punto si sveglia (o sembra svegliarsi) ed ha una visione: ai suoi piedi si apre lo spettacolo folgorante del Giudizio Universale.

Come nella prima parte del film, anche qui ci si trova di fronte ad un tableau vivant, ricalcato quasi pedissequamente sul giottesco Giudizio della cappella degli Scrovegni, con l’eccezione notevole della Madonna col bambino - che trionfa nella “sacralità della visione frontale” all’interno della mandorla centrale - al posto del Cristo giudicante dell’affresco padovano. I campi da cui è costituita la sequenza si alternano col ritmo incalzante della visione mistica che si impone, con la sua lancinante assolutezza, agli occhi rapiti del pittore. Il vero “punto di fuga” di tutta la visione è però costituito dallo sguardo della Madonna, che compare in un primo e in un primissimo piano (al centro della sequenza) su cui si impernia tutta la scena.

La simmetria della composizione è confermata anche dal montaggio.

Alla prima inquadratura totale che dà il senso complessivo della visione, segue il p.p. della Madonna (il centro del tableau vivant) che sembra guardare direttamente negli occhi, in un muto colloquio, l’Allievo di Giotto dell’inquadratura successiva. A questa seguono una panoramica sinistra-destra e una destra-sinistra, rispettivamente dell’ala destra e dell’ala sinistra del coro angelico; in modo che dall’immagine centrale della Madonna ci si allontana verso i margini della scena. Successivamente si hanno due inquadrature dei margini inferiori – sinistro e destro – della mandorla in cui è racchiusa Maria col Bambino, come se l’attenzione ritornasse, dopo la digressione delle due panoramiche, verso il fulcro dell’apparizione. Infatti l’inquadratura successiva è quel primissimo piano di Silvana Mangano di cui si è già rilevata la centralità simmetrica all’interno della rappresentazione; anche in questo pp.p. gli occhi della Madonna sono puntati direttamente verso la m.d.p., con uno sguardo interrogativo e perturbante insieme; e ancora una volta questo sguardo è diretto verso il pittore che appare nell’inquadratura successiva.

Di seguito si hanno poi due brevi panoramiche destra-sinistra che ritraggono i dannati torturati e trascinati - la seconda panoramica (in maniera più spiccata della prima) è orientata diagonalmente dall’alto verso il basso – da dei diavoli ricoperti di peli come fauni malefici. Quindi ancora un’altra inquadratura che ritrae alcune suore che piangono dirottamente (anch’essa con un lieve movimento destra-sinistra della m.d.p.) e appartenente alla destra del tableau vivant (quella della massa damnationis).

Centrale rispetto alla rappresentazione dei dannati e dei beati è l’immagine dell’Allievo di Giotto pietrificato nell’identica posizione di tutte le altre sue inquadrature: la testa sollevata dal giaciglio e lo sguardo fisso davanti a sé.

La rappresentazione dei beati avviene, simmetricamente (ancora), con lo stesso numero di inquadrature dei dannati: tre. Tre piani fissi di grandezza decrescente: un campo medio della zona a sinistra della croce centrale sorretta dai due angeli, un’inquadratura di tre beate che guardano, verso il basso, il ragazzo che regge la chiesa in miniatura dell’inquadratura seguente.

Chiude la sequenza e la IV parte dell’episodio l’Allievo di Giotto, che ricade sfinito sul cuscino per addormentarsi di nuovo.

I significati insiti in questa sequenza sono complessi e molteplici.

Sotto un certo punto di vista tutta la visione può essere considerata come una sorta di “testamento ironizzante” steso da Pasolini che, nel contemplare in quel momento l’abisso di un mondo perduto, si trovava, fra l’altro, a tirare le somme della sua arte, della sua sensibilità, del suo universo esistenziale.

Figurativamente, infatti, la scelta della “macchina pittorica” rappresentata dal Giudizio di Giotto, la rigida simmetria della composizione e l’assolutezza della visione frontale – che culmina nella figura centrale della Madonna – rimandano direttamente alle caratteristiche formali del primo cinema pasoliniano che, nella pressoché totale assenza di campo e controcampo e di piani sequenza, ha suggerito a molti l’immagine di un affresco i cui personaggi, con i visi e i corpi immersi in un’identica luce, vengono catturati dalla macchina da presa che sembra scorrere, per questo, sulla superficie piana di un dipinto.

Ma la cifra autentica che informa la totalità della visione va cercata oltre la mera componente formale (che comunque, come si è visto, ha una certa importanza); infatti tutta la sequenza può essere considerata come la manifestazione netta e irrefutabile della percezione pasoliniana della natura come ierofania, colloquio della divinità con se stessa, perpetuo mostrarsi della “straziante e meravigliosa bellezza del creato[136]. La stessa frontalità (di cui si è appena parlato per la sua valenza figurativa) è un elemento fondamentale e caratteristico della visione sacrale del regista, assieme a quella “assolutezza sacrale degli oggetti e dei volti[137] che Pasolini ritrovava in Dreyer per poi rispecchiarla su di sé. Infatti solamente un anno prima di girare il Decameron, Pasolini scriveva nella poesia Ancora sull’orso:

“La visione frontale, è sacra,
la mia anima è un tabernacolo dove coi nuovi numi che li hanno assimilati
persistono, niente affatto ammuffiti, anzi vivi e vegeti, i vecchi...[138]

versi che riecheggiano, significativamente, quelli citati da Orson Welles nella Ricotta:

“Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi
dove sono vissuti i fratelli.”[139]

nel senso che la “visione frontale” propria delle “pale d’altare”, appartenenti a quella “età sepolta” di cui Pasolini avverte l’orribile scomparsa, vale già di per sé, all’interno dell’anima-tabernacolo del poeta di Casarsa, come manifestazione del sacro e della “innaturalità” della natura[140].

Molto significativa, inoltre, è la sostituzione della figura giottesca di Cristo Giudice con quella di Maria col Bambino. Per esprimere il suo rapporto con la sacralità Pasolini ricorre ad un’immagine femminile, poiché è nella donna-madre che si addensa il mistero e l’ineffabilità del concepimento, della gestazione, della vita che nasce[141]; ed è sempre la donna-madre che nella psicologia dell’autore può essere angelizzata in un’aura sacrale; mai l’uomo, che invece è connotato dalla pesantezza e dall’ossessione dell’eros, o dal divenire e dal pragma della storia. Lo stesso Pasolini, in più di un’occasione, ricercava le radici della sua omosessualità proprio in questa concezione e nel rifiuto (problematico) dell’autorità paterna (la storia) in favore della “autorità materna”[142](il sacro, il mito). Ecco cosa dichiarava nel 1975:

“In tutti i paesi in cui l’omosessualità è fortemente endemica o pubblicamente riconosciuta, il rapporto con la madre, con il significante materno, determina un’inversione fondamentale dei rapporti con la donna. Forse l’omosessuale ha il senso dell’origine sacra della vita più di chi si vuole strettamente eterosessuale. Il rispetto della santità della madre predispone ad una particolare identificazione con essa; direi anzi che nel fondo dell’omosessuale c’è in modo molto inconscio la rivendicazione della castità: il desiderio dell’angelizzazione. In modo altrettanto oscuro, l’omosessuale cerca lo stesso nell’altro (l’altro-stesso), un partner con cui non rischi di riprodursi il terribile potere del padre, del profanatore[143]

Ancor più significativa appare la scelta di far recitare, nella parte della madonna, Silvana Mangano. Pasolini scriveva nel 1968, in una lettera aperta all’attrice:

“...Ed è tutto questo, strano a dirsi, che produce la tua bellezza. La tua bellezza amara che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre, in realtà, tu sei lontana. Appari dove si crede, si lavora, ci si dà da fare: ma sei dove non si crede, non si lavora, non ci si dà da fare. Richiamata qua da un obbligo che (chissà perché) si ha vivendo, resta la realtà della tua lontananza, come una lastra di vetro tra te e il mondo. Senza che ce lo siamo mai detto (dato il selvaggio pudore) la mia anima era spesso con te, dietro quel vetro.” [144]

Questa descrizione di Silvana Mangano, fatta due anni prima delle riprese del Decameron, si adatta in maniera affascinante all’apparizione mistica dell’episodio dell’Allievo di Giotto; lo confermano i termini “incombente”, “teofania”, “lontananza”, “apparire” che richiamano, con un’evidenza quasi imbarazzante, la figura della Madonna in trionfo al centro della composizione pittorica pasoliniana. Bisogna ricordare, a questo punto, che Silvana Mangano aveva interpretato la parte di Giocasta in Edipo re, uno dei film più fortemente autobiografici dell’autore, e che, d’altro canto, nel 1964 la madre di Pasolini, Susanna Colussi, era Maria vecchia nel Vangelo secondo Matteo. Quindi si può dire che ancora una volta, nel Decameron, i motivi della maternità, del sacro e del mitico si trovano intrecciati in un unico, inestricabile nodo che tanta parte ricopre nel fare artistico del regista (senza esserne, per questo, l’unico elemento fondante).

Ma a rendere diverso dagli altri questo riemergere di elementi ricorrenti del gusto figurativo o della sensibilità pasoliniana, contribuisce una carica ironica che mancava nei film precedenti. Quando, più sopra, ho parlato di testamento ironizzante, intendevo appunto questa tendenza a distanziare e a demistificare gli elementi “forti” della propria arte attraverso la mediocritas del racconto aneddotico; calato all’interno del susseguirsi degli episodi boccacciani, il rapporto tra l’artista e la visione mistica, e quindi la riflessione di Pasolini su se stesso, viene in un certo senso “imbastardito” (ma non certo ridicolizzato), viene come “gettato in piazza”, esposto al giudizio degli “uomini discoli e grossi”, agli umori del “mercato”; e quindi perde quanto poteva avere di lirismo e di accoramento autobiografico per acquistare in obbiettività e impietosa lucidità.

V Parte – La breve sequenza (poco più di un minuto), che conclude l’episodio e il film, è interamente dedicata alla conclusione dei lavori. Viene tolta l’impalcatura, con lo stesso rombo sordo e maestoso di inizio episodio, e i due frati effeminati (gli stessi della prima parte) vanno a suonare allegri le campane per annunciare il completamento dell’affresco. Il pittore è ancora una volta al centro della navata e contempla la sua opera mentre si sposta l’impalcatura; un p.p. dell’artista che guarda verso l’alto riprende una simile inquadratura iniziale che lo vedeva esaminare il muro vuoto, alla ricerca della fatale ispirazione. Ora che l’opera è finita l’Allievo di Giotto riflette sulla sua creazione e sul concretarsi nella materia delle sue aspirazioni e delle sue visioni. Infatti pur partecipando alla festa assieme ai collaboratori e ai frati sorridenti, non può fare a meno di osservare a mezza voce tra i brindisi gaudenti: «...Ma...Io mi domando...perché realizzare un’opera quando è cosi bello sognarla soltanto?».

In poco più di un minuto Pasolini concentra il suggello di tutto il suo film, prende congedo dal frutto del suo lavoro che ormai gli si presenta, nella sua finitezza che esclude la miriade delle alternative possibili, come qualcosa di estraneo e che vive di vita propria senza più richiedere l’assidua partecipazione del suo “creatore”. Ma questo congedo viene fatto attraverso quella frase finale che, se da un lato appare come una banale e scoperta riflessione metafilmica (o metartistica), dall’altro, con il suo ineliminabile residuo di ambiguità che ne impedisce la piena comprensione, sembra aleggiare sospesa sulla parola «Fine», spalancando la rosa dei significati proprio quando ci si aspetterebbe che ne restringesse il senso.

Dunque il Decameron di Pasolini è quel che si dice «un’opera aperta»? Non basta una frase dal senso sospeso a rendere sospesa tutta un’opera; ma quel che si può dire è che quella frase è “aperta” proprio in virtù della sua ineffabile duplicità. Sempre nell’intervista rilasciata a Dario Bellezza, Pasolini dichiarò:

“Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l’opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma, attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale. Non ti dico le parole pronunciate da me, con cui finisce il film, perché voglio che sia una piccola sorpresa: ma in esse l’opera si ironizza, e diviene un’esperienza particolare, non mitizzata. La «colpevole mistificazione» di cui ti parlavo si rivela come «gioco».”[145]

Del valore ironizzante e demistificante di certe sequenze e inquadrature ho già parlato più volte; quel che mi preme sottolineare, ora, è come secondo la sensibilità pasoliniana quest’ultima frase apparisse caricata di quel valore che, in realtà, connota l’episodio nella sua interezza; mentre, nello stesso tempo, Pasolini sembra ignorare quella certa parte oscura e indefinibile presente nelle sue parole conclusive.

Naturalmente chi si prefigge di interpretare un’opera d’arte deve necessariamente, in casi come questi, prescindere da quelle che potrebbero essere state le intenzioni autoriali, fondando il suo giudizio sull’opera così come si presenta ai suoi occhi. Ma è comunque interessante osservare come, innanzitutto, fosse un’esplicita intenzione di Pasolini quella di conferire all’episodio che lo vedeva come protagonista un valore demistificante, e come, per giunta, l’ambiguità e l’enigma siano talmente radicati nel profondo dell’animo pasoliniano, da emergere anche quando l’intento programmatico sia quello del «gioco» e dell’«ironia».

«Gioco» e «ironia» che vengono ripresi anche in altri aspetti di questa fine episodio. Ad esempio nel brindisi allegro in cui si incastra la famosa frase dell’Allievo di Giotto, a cui fa da sottofondo la risata folle dello sdentato, sembra confermare il gioco, la voglia di ridere, il felice incontro sul set con gli attori e i collaboratori[146]:

Un collaboratore: Questo vino è bello e buono e fresca è l’anima di Sant’Antonio!

Allievo di Giotto (fra sé): ...Ma...Io mi domando...

Un collaboratore (continuando): Questo vino è bello e liscio e beato a chi lo piscia!

Allievo di Giotto: ...perché realizzare un’opera quando è cosi bello sognarla soltanto?[147]

Oppure il controcanto ironico ritorna nella figura dei due frati effeminati (su cui mi sono già soffermato) che “annunciano” alla città la conclusione dei lavori. Come se Pasolini volesse dire che il manifestarsi “pubblico” della propria opera (le campane che mimano il tam-tam dei rotocalchi scandalistici) sarebbe stato legato in qualche modo, agli occhi della “città”, alla consueta e grossolana irrisione razzistica della sua diversità, non assimilabile dalla tolleranza maggioritaria.

2.6. “L’usignolo” (V, 4)

Come l’episodio di Masetto nella prima parte del film, così l’episodio de “l’usignolo” ha come tema la scoperta del corpo e del sesso; ma, mentre il primo poneva l’accento sul mistero e sul turbamento del desiderio e dell’esperienza iniziatica, il racconto della prima notte d’amore tra Ricciardo e Caterina è tutto trasposto sul registro idilliaco del gioioso e aproblematico godimento della bellezza e della freschezza della vita.

La leggerezza e la grazia del racconto sono evidenti sin dalle prime inquadrature: l’allegro brindisi al banchetto di Lizio da Valbona (il padre di Caterina) a cui partecipa il sorridente Ricciardo[148], il gioco delle fanciulle e, soprattutto, l’incontro dei due giovani tra le fronde del boschetto verdeggiante, dove si scambiano prima due sguardi intensi e seri, poi dei sorrisi colmi e puri che contrappuntano (senza negarle ma rendendole più serene e lievi) le reciproche promesse e attestazioni d’amore profondo:

Ricciardo: Caterì, te prego, nun me fa’ murì d’amore pe’ te!

Caterina: Lu Padre Eterno vulisse che tu nun me fecisse murire a me!

La parte successiva dell’episodio (la notte d’amore e il risveglio) ne confermano il carattere idilliaco ma con alcune significative differenze che arricchiscono il senso della storia boccacciana caricandola di simboli paradigmatici e rientranti nella sfera del mito.

Mi riferisco, ad esempio, al giardino mediterraneo immerso nella luce del primo mattino dove si trova il balcone di Caterina, dipinto, nelle inquadrature silenziose che precedono l’amplesso, come un paradiso terrestre creato unicamente per fare da sfondo e da alcova alla reciproca scoperta dei due amanti. Oppure si potrebbe citare la soggettiva dello sguardo di Caterina che osserva il corpo di Ricciardo addormentato; la panoramica dall’alto in basso più che “svelare” il corpo, sembra crearlo in quel momento facendolo scaturire da quell’atmosfera “primigenia” attraverso gli occhi della ragazza.

Questa scoperta (o, meglio, questa “creazione”) si compie con l’ultimo gesto dell’innamorata prima di addormentarsi, la cui mano si stringe attorno al pene del ragazzo. In questo gesto, l’esaltazione del corpo e del sesso che è alla base di tutta la Trilogia della vita tocca uno dei suoi momenti più alti e intensi; perché in questo gesto, dalla simbologia chiara e semplice, sono condensati i motivi ideologici ed esistenziali della “scandalosa purezza” dell’eros vissuto nella sua spontanea autenticità.

Quanto ho appena detto emerge con maggior chiarezza se si confronta, per contrasto, il valore che questo gesto ha sulla pagina boccacciana. Il fatto che Caterina abbia “col destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare” è finalizzato al gioco anfibologico tra l’usignolo che la ragazza diceva di voler sentir cantare e “l’usignolo” con cui effettivamente viene scoperta dai genitori. Questo bisticcio, che in Boccaccio era alla base della novella, ancora una volta in Pasolini passa decisamente in secondo piano in favore delle diverse letture di cui si è detto. Infatti il momento delle false minacce del padre (che, in realtà, ha già deciso, per calcolo “mercantile”, di far sposare il ragazzo alla figlia) ha un valore accessorio rispetto al “miracolo del corpo” che risplende sulla fine dell’episodio. Basti pensare alla “celebrazione” improvvisata del matrimonio dei due giovani. In piedi, si scambiano l’anello mentre Ricciardo, racchiuso nella solita, rigida, inquadratura frontale, piegato di lato in un hanchement classicheggiante, ricorda un Adamo rinascimentale nell’aperto riconoscimento della bellezza e della pura sacralità del corpo umano.

Ma a questa idilliaca e (apparentemente) aprobelmatica esaltazione della sessualità non sono estranee le tematiche della morte e della violenza che, come si è visto, caratterizzano fortemente l’episodio-cornice di Ciappelletto nella prima parte del film. Mi sto riferendo alla già citata sequenza del banchetto di Lizio da Valbona, dove si intravedono, compagni di Ricciardo, i fratelli di Lisabetta che nell’episodio seguente uccideranno, tra le fronde di un giardino simile a quello dove ora banchettano, l’ignaro Lorenzo, colpevole di aver violato l’onore della sorella e quindi di essersi macchiato di un delitto del tutto simile a quello di Ricciardo. Di questa “presenza estranea” dei protagonisti di un altro episodio (una sorta di autocitazione interna al film) non è facile accorgersi[149]: si vede il volto di un solo fratello, di profilo e per un attimo, gli altri due sono di spalle e se ne deduce l’identità solamente per i vestiti e per la capigliatura. Sembra quasi che il regista abbia voluto celare intenzionalmente questo riferimento disseminando questo perturbante indizio, che può essere colto solo dopo un attento esame, nel rapido fluire delle immagini. Ma appunto per questa intenzionalità la presenza degli spietati assassini d’onore, ai margini di questo episodio, sembra assai più significativa di una casuale ed esteriore concatenazione di due episodi vicini; lo zelo di Pasolini nel nascondere le proprie tracce in realtà non è che un modo per focalizzare l’attenzione attorno a ciò che sembrerebbe voler celare o sminuire.

La morte e la violenza non sono escluse, dunque, neanche dal “paradiso terrestre” di Ricciardo e Caterina ma ne sono parte integrante; con ciò che ne consegue e si ripercuote, come si vedrà, nella sostanza complessiva del film e di tutta la Trilogia della vita.

2.7. Lisabetta (IV, 5)

L’episodio di Lisabetta è stato considerato quasi unanimemente (soprattutto dalla critica contemporanea al regista) come uno dei più alti e riusciti del Decameron; come del resto la stessa novella della quarta giornata del novelliere trecentesco è ritenuta un felice esempio del «registro tragico» del Boccaccio adattato alla tematica della nobiltà d’animo nelle classi popolari. Anche i detrattori del film[150] riconobbero in questo episodio un frammento isolato di buon cinema in un’opera che invece, nel suo complesso, prestava il fianco, secondo questi critici, a molteplici giudizi negativi.

L’episodio, come si è detto, si apre con l’inquadratura verso l’esterno della finestra nella camera di Lisabetta; quella stessa finestra su cui, alla fine, la ragazza poserà amorevolmente il “testo” di basilico in cui è seppellita la testa di Lorenzo. Ma già in queste prime inquadrature la giovane coppia è come ammantata dal fosco presagio della tragedia. Fuoricampo si ode - mentre i due amanti si scambiano, nel congedarsi, gli ultimi baci - la struggente nenia che era già stata cantata dai malviventi nell’episodio di Andreuccio; il momento stesso dell’addio, naturalmente assente in Boccaccio, in cui Lisabetta, con il volto serio illuminato dalla luce livida dell’alba, non vuol lasciare andare Lorenzo, ricorda per suggestione l’analogo passo shakespeariano di Romeo and Juliet[151] quando il giorno sorprende i due amanti o quando Romeo, che ha già sul volto pallido i segni della futura morte, deve fuggire in esilio a Mantova.

Un vago riecheggiamento di Shakespeare può essere ritrovato anche nella sequenza dell’ultimo saluto di Lorenzo a Lisabetta; quando in un (relativamente) lungo piano dall’alto (una soggettiva dello sguardo della ragazza alla finestra) si vedono i tre fratelli, consci del rapporto amoroso della sorella, che invitano Lorenzo ad una scampagnata assieme a loro. Lisabetta intuisce immediatamente il pericolo, ma non può fare a meno di lasciar partire l’amato che la saluta sorridendole dal cortile della casa.

Un elemento caratterizzante di questo episodio è sicuramente la violenza; non la violenza “professionale” e a priori di un Ciappelletto, bensì la rabbiosa ira animalesca e il desiderio di crudele vendetta, derivante dalla coscienza dello scuorno compiuto dalla sorella che, in questo modo, sembra voler sottrarsi al prepotente rapporto di soggezione che la lega ai fratelli. Questo rapporto, che era velato di una certa ambiguità già in Boccaccio[152], si colora di morboso erotismo nella scena in cui uno dei fratelli, appena appresa la notizia del tradimento, si contorce nudo nel letto, mordendosi le mani in una folle vertigine di gelosia; oppure assume l’aspetto della trionfante dominazione – sottolineata dalle riprese dal basso dei fratelli e dall’alto di Lisabetta sottomessa – quando la ragazza va a chiedere sommessamente notizie dell’amato o quando, rassegnata, li prega di potersi recare a passeggiare assieme alla serva.

Ma la violenza dei tre fratelli è connessa anche alla lucida e fredda macchinazione del delitto; infatti riescono a convincere Lorenzo a seguirli attraverso l’inganno delle cameratesche manifestazioni di amicizia. Tutta la scena delle corse nella campagna è giocata sul filo di questo dissimulato ma inesorabile stringersi della maglie del tranello attorno all’ignaro Lorenzo. La prima corsa – accompagnata da un veloce carrello sinistra-destra che segue i ragazzi da dietro una staccionata – è ancora solamente un gioco; così come l’invito a farsi una “pisciata” assieme. Ma quando i quattro si fermano per riposarsi, l’aspetto sinistro della situazione inizia ad emergere nel ghigno sornione di uno dei fratelli, a cui viene schiacciato in faccia un grappolo di uva rossa, quasi un anticipo del sangue di Lorenzo che presto verrà versato. Infatti, quando la corsa riprende, Lorenzo ad un certo punto si ferma ed inizia a guardare i tre compagni; con il volto serio e fosco nella luce del giorno che sta finendo dice una sola parola (l’ultima in vita): «Perché?»; come se avesse intuito del tutto il piano dei fratelli e si interrogasse, più perplesso che spaventato, sulle ragioni di quella crudeltà tanto terribile quanto incomprensibile. Ma, come un eroe tragico o come uno sventurato ingenuo, sorride ai suoi carnefici e prosegue la corsa – da destra a sinistra, opposta simmetricamente alla prima – mentre i fratelli che lo inseguono snudano, uno dopo l’altro, i pugnali.

Antitetica rispetto ai ritratti dei tre fratelli è la figura di Lisabetta; alla rabbia disumanante dei primi corrisponde il malinconico dolore della sorella, sempre nobilitato e racchiuso all’interno dell’ovale smaltato del suo viso. Mai una lacrima, mai una smorfia turba l’espressione della ragazza; sia quando è in ansia per l’assenza dell’amato, sia quando ormai si è rassegnata al suo dolore dopo aver appreso dal fantasma di Lorenzo quanto è accaduto nel bosco. Nella seconda parte dell’episodio, nei frequenti primi piani della ragazza, Pasolini utilizza assai felicemente il viso da madonna quattrocentesca dell’attrice, connotandolo di struggente drammaticità attraverso un sapiente uso della luce naturale[153] che esprime ciò che rimane ambiguamente sospeso sul volto di Lisabetta. Il silenzio, infatti, riempie e dà significato alle azioni di Lisabetta in questa seconda parte. La ragazza parla solamente quando, sorridendo dolcemente, chiede ai fratelli trionfanti il permesso di andare a passeggiare con la serva e, inoltre, quando taglia la testa di Lorenzo dopo averne dissotterrato il corpo, dicendo: «Tutto ti vorrei portare via, amore mio, ma non posso...»; il resto del tempo è occupato dal suo muto lavoro assieme alla serva: il ritrovamento del cadavere, il bacio sulle labbra ricoperte di terra, il seppellimento della testa nel vaso di basilico salernitano; tutte le azioni permangono come distillate dal doloroso silenzio della ragazza sul cui volto immobile, rivolto, in alto, verso il vaso venerato, si chiude l’episodio[154].

2.8. Donno Gianni (IX, 10)

Come per Musciatto Franzesi e i due usurai, o per il sacrestano ladro dell’episodio di Andreuccio, così, nel delineare il ritratto di donno Gianni da Barolo, lo stile di Pasolini torna a tingersi di acre ironia. Il prete, infatti, si distingue dall’universo coeso del popolo parlando un dialetto italianizzante e manifestando il proprio saccente disprezzo per l’ingenuità di compare Pietro e Gemmata. In questo modo Pasolini può caricarne la figura in senso negativo facendole assumere quegli aspetti sgradevoli di meschina ipocrisia che caratterizzavano i “borghesi” degli episodi precedenti. Queste caratteristiche trovano conferma nei tratti fisionomici del prete[155], atteggiati nelle varie espressioni di untuosa compiacenza nei confronti dei “subalterni” o di lubrica eccitazione davanti al corpo nudo di Gemmata. Pasolini sfrutta queste caratteristiche fisiche per opporre la “sofisticazione” e “l’inautenticità” di donno Gianni al candore quasi creaturale dei corpi nudi di Pietro e della moglie durante il rito magico della metamorfosi in cavalla.

I tratti acri del ritratto del prete non raggiungono mai, però, il livello del feroce sarcasmo, ma si stemperano indulgentemente (senza però sparire del tutto) nella piana descrizione della beffa architettata, seguendo, in questo, lo spirito della novella boccacciana.

Ma, ancora una volta, il centro dell’episodio pasoliniano deve essere ricercato altrove. Infatti più che sulla beffa (che si conclude nel greve appagamento degli istinti del prete) l’attenzione del regista si concentra sul mondo contadino che, da sfondo, diventa il vero protagonista della vicenda. Basti pensare al rilevo che ha, all’interno dall’episodio, la festa di nozze di Zita Carapresa che, annunciata all’arrivo nel villaggio da alcuni contadini[156] che ballano e cantano, ritorna più volte a scandire la notte che trascorre fino all’alba. Questa festa ricorda nei costumi e nello “spirito” (senza però essere fissata in un ulteriore tableau vivant) il celebre Ballo di nozze di Pieter Bruegel il Vecchio: le risate sguaiate, le urla, i brindisi, le folli danze; tutto concorre a dare l’immagine, distaccata ma mai sprezzantemente grottesca (bruegeliana, appunto), della semplicità e della “realtà” di un mondo atavico ed immutabile.

Partecipi di questo mondo sono, naturalmente, anche compare Pietro e Gemmata, raggirati, a causa della loro “adorabile ignoranza”, “dall’estraneo” donno Gianni che sfrutta, ipocritamente, il carisma del proprio magistero e della sua dottrina. Pietro, addirittura, nella sua sprovveduta dabbenaggine può ricordare il marito cornuto di Peronella. Ma, in questo episodio, il marito e la moglie sono investiti di una luce diversa che solleva il racconto al di sopra della beffa salace. Mi riferisco, soprattutto, alla sequenza del rituale pseudometamorfico officiato dal prete imbroglione; quando, nella rustica nudità della stalla, i due contadini si inginocchiano – ripresi di profilo, come i nobili nelle pale d’altare quattrocentesche - con le mani giunte in preghiera di fronte all’officiante, collocato, al centro di un’inquadratura frontale, sotto una finestrella da cui entra la luce dell’alba. Questa scena, nonostante i fini venali dei due coniugi e l’inganno architettato dal prete, è ricolma di quel senso religioso della sacralità della natura su cui si è spesso insistito; ma appunto perché parte di una mistificazione beffarda questa sacralità compenetra e si addensa esclusivamente attorno ai corpi e alle cose, assegnando a questi (e solo a questi) il significato ultimo e profondo di tutto l’episodio.

2.9. Tingoccio e Meuccio (VII, 10)

In questo episodio, il tema fondamentale della naturalità e della bellezza del corpo e del sesso viene posto a confronto con il senso del peccato e del castigo ultraterreno. Questa duplicità viene resa attraverso la contrapposizione dei due protagonisti: Tingoccio (il vizioso) che muore di consunzione per il rapporto adulterino con la comare, e Meuccio (il bigotto) che mortifica e reprime il desiderio di giacere con la propria per il timore di morire in peccato mortale. Il contrasto tra i due viene rappresentato da Pasolini a tutto detrimento del secondo; infatti, alla voracità insaziabile e sfrontata di Tingoccio (si veda, ad esempio, la scena in cui parla a bocca piena con l’amante in un intervallo del rapporto sessuale) si oppongono le querule reprimende di Meuccio, che rimane legato alla propria ascetica castità solamente in virtù del proprio pavido timore per la punizione divina.

Questo contrasto morale tra i due protagonisti è del tutto assente in Boccaccio; nella novella, infatti, Tingoccio e Meuccio sono invaghiti di una medesima donna, che cede alle lusinghe del primo mentre Meuccio - alieno da ogni tabù moralistico e, quindi, per nulla diverso dall’amico[157] – soffoca il proprio desiderio solamente perché gli manca l’occasione di realizzarlo. Pasolini, invece, estremizzando la differenza tra i due amici nella dialettica tra istinto e repressione, amplifica il messaggio liberatorio della rivelazione finale: quando Meuccio, avendo appreso dal fantasma di Tingoccio che nell’oltretomba “non si tiene ragione alcuna delle comari”, urla felice il suo «Nun è peccato! Nun è peccato», correndo tra le braccia stupite della sua comare.

In realtà questo urlo, e l’immediata ed istintuale soddisfazione che ne consegue, tradiscono la serenità apparente della liberazione del sesso; infatti in questo incontenibile sprigionarsi dell’istinto oltre le pastoie nevrotizzanti del conformismo bigotto, si cela un conformismo altrettanto irreale e nevrotico. Se si confronta la “liberazione” di Meuccio con la “scoperta” delle suore nell’episodio di Masetto o, addirittura, con la “creazione edenica” dell’episodio “dell’usignolo”, ciò che risulta mancante è appunto quell’essenza di pura sacralità che pervadeva gli episodi precedenti. Meuccio non fa altro che passare da un obbligo ad un altro senza soluzione di continuità, e quindi senza una liberazione autentica[158].

Significativamente, l’altro elemento notevole dell’episodio è la presenza della morte. Tingoccio, nella seconda parte dell’episodio, viene trasportato cadavere per le stesse strade percorse da Ciappelletto, con l’assassinato nel sacco, all’inizio del film (l’inquadratura attraverso la finestra tonda è quasi identica); dunque c’è una riproposizione quasi speculare della parabola sesso-cibo-morte che contraddistingueva (in parte) il primo episodio: Ciappelletto, assassino e ricchione, sviene durante un pranzo, così come Tingoccio muore dopo aver amoreggiato e mangiato in casa della comare. Ma la somiglianza tra i due episodi termina qui; infatti in questo vi è “assai di quello che creder non si dee”, cioè la presenza della morte è come esorcizzata dall’elemento fantastico. Tingoccio, infatti, ritorna dalla morte; e ritorna, recando il suo messaggio confortante, tronfio della stessa strafottenza da “dritto” che aveva in vita, descrive le punizioni del purgatorio con dovizia di particolari escrementizi e saluta l’amico con il dorso della mano dicendogli un prosaico «Statte buono».

L’abisso perturbante che si apriva davanti a Ciappelletto qui rimane confinato e notevolmente ridotto (ma presente) in alcuni particolari marginali: il vento gelido che scuote i fiori all’arrivo del fantasma, il suo pallore, la cappa di tristezza che lo avvolge quando deve congedarsi per il sopraggiungere della luce del sole; ma, come si è detto, si è ben lontani dalla vertigine e dalla solitudine titanica della dannazione di chi reca, impresso sulla fronte, “il marchio di Caino”.


CAPITOLO III

I racconti di Canterbury

1. Pasolini e Chaucer.

“Ho raccontato queste storie solamente per il piacere di raccontarle. Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per la ricostruzione di un periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore.”[159]

I ventinove pellegrini che Chaucer immagina di incontrare alla Tabard Inn di Southwark sono uno specchio fedele, nella varietà policroma delle attitudini e dei mestieri, della società Inglese della fine del XIV secolo. I rappresentanti di tutte le classi sociali, eccettuate la nobiltà e il proletariato contadino, si ritrovano attorno ad una stessa tavola in procinto di partire per il reliquiario di Thomas Becket a Canterbury; l’occasione “carnevalesca” del pellegrinaggio - così come la fuga da Firenze dell’«allegra brigata» - enfatizzata dall’atmosfera conviviale in cui si intrecciano e si contrappongono i dialoghi e i racconti, permette - con l’allentarsi dei vincoli sociali ed economici - il libero sovrapporsi del comico sul serio, del linguaggio alto su quello triviale, dell’eroico sul parodico, eccetera. Infatti, i Canterbury Tales, oltre ad essere l’affresco multiforme e fedele di un mondo a cavallo di due epoche, carico di fermenti innovatori così come di eredità imprescindibili, sono anche un repertorio esaustivo delle forme narrative più disparate: dal racconto comico e dalla farsa salace del fabliau fino al romanzo cortese (rovesciato, a sua volta, nella parodia di se stesso) e poi il lai bretone, l’exemplum, l’apologo, la favola animalesca, le leggende dei santi ed, infine, l’omelia sui peccati capitali del Racconto del parroco.

In questa galleria compendiaria di tutta la narrativa medioevale europea Pasolini opera la sua scelta. E sceglie in maniera analoga a quanto aveva fatto nei riguardi del Decamerone; cioè privilegiando quasi esclusivamente la narrazione sapida e immediata dei fabliaux e l’ambientazione popolare che li contraddistingue. Ancora una volta, dunque, il regista ritaglia un “suo” Chaucer, escludendo quanto non contribuisca al recupero della “corporalità popolare” vissuta nella sua autenticità. Ma mentre i personaggi di Chaucer, anche nel più piccolo particolare realistico (molto spesso mutuato dalla fisiognomica o dai lapidari e dai bestiari, e quindi frutto di erudita codificazione più che di freschezza realistica[160]), rimandano ad un sistema di significati e convenzioni colto nel vivo della società inglese in cui lo scrittore viveva; il realismo di Pasolini non può che essere “ontologico”, perché slontanato al di là di ogni stratificazione e significazione storica; un “realismo cieco”, dunque, che non allude a nient’altro che a se stesso, alla propria presenza e alla propria fisicità.

Ma in questa operazione di inclusione ed esclusione Pasolini non può certamente prescindere in maniera assoluta da quelle che sono le caratteristiche peculiari di Chaucer, dei Canterbury Tales, dell’epoca e del contesto socio-culturale a cui appartengono.

“Chaucer si colloca a cavallo fra due epoche. Ha qualcosa di medievale, di gotico: la metafisica della morte. Ma spesso si ha l’impressione di leggere un autore come Shakespeare o Rabelais o Cervantes. È un realista, ma è anche un moralista e un pedante, e inoltre mostra straordinarie intuizioni. Ha ancora un piede nel Medioevo, ma non è uno del popolo, anche se raccoglie i suoi racconti dal patrimonio popolare. In sostanza, è già un borghese. Guarda già alla rivoluzione protestante e perfino alla rivoluzione liberale, nella misura in cui i due fenomeni si combineranno in Cromwell. Ma mentre Boccaccio, che era pure un borghese, aveva la coscienza tranquilla, con Chaucer si avverte già una sensazione sgradevole, una coscienza turbata e infelice.

Chaucer presagisce tutte le vittorie, tutti i trionfi della borghesia, ma ne presente anche il marciume. È un moralista, ma dotato anche del senso dell’ironia.”[161]

Un sintomo della “coscienza turbata e infelice”, e quindi del moralismo, di Chaucer potrebbe essere ritrovato nella tematica ricorrente dell’oro come fonte di corruzione corporale e spirituale; si consideri, ad esempio, l’omologia tra denaro e fecalità nel Racconto dell’Apparitore[162] o, più esplicitamente, tra denaro e morte in quello dell’Indulgenziere. Questa tematica era del tutto assente in Boccaccio e nella sua esaltazione (per quanto retrospettiva) dei valori della mercatura appartenenti al “periodo d’oro” della rinascenza medievale. L’epoca di Chaucer, invece, può essere espressa, significativamente, dal duplice segno del movimento protoriformatore di John Wycliffe e del fallimento della rivolta contadina guidata da Wat Tyler e John Ball[163]; ovvero, come dice Pasolini, dal presentarsi, in germe, di quelle problematiche che faranno da sfondo alle tappe successive della progressiva “presa di coscienza” (e quindi “presa di potere”) della classe borghese.

Accompagnata a queste “straordinarie intuizioni” sulla rivoluzione borghese, però, ritroviamo in Chaucer una componente ancora legata al medioevo e al suo immaginario “gotico”, cioè quella che Pasolini definisce (un po’ ambiguamente) come “metafisica della morte”, ma che in realtà deve essere intesa come compresenza di allegoria e di profondo realismo nella rappresentazione della stessa. Infatti, in un’altra intervista del periodo, Pasolini chiariva il concetto dicendo:

“La morte, l’aldilà, è sempre presente; una morte, però, medievale, quindi profondamente allegorica e allo stesso momento volgare fino all’abiezione”[164]

Questa presenza della morte percorre, in un certo senso, tutte le novelle scelte da Pasolini, ma risulta evidente nel Racconto del Frate e, soprattutto, in quello dell’Indulgenziere, dove “la Morte” è addirittura il personaggio cercato dai tre giovani per vendicare l’amico.

Nel Decameron, come si è visto, Pasolini aveva sostituito il fiorentino trecentesco di Boccaccio con la “materia viva e incandescente” del parlato contemporaneo napoletano e campano; nel caso de I racconti di Canterbury la scelta della lingua da usare fu abbastanza simile:

“Certo non potevo usare l’inglese di Chaucer, per cui ho fatto ricorso al più semplice vernacolo possibile, con alcuni elementi dialettali. Mi sono servito delle parole di Chaucer, ma le ho tradotte in un idioma moderno. Ad esempio, nel Racconto del venditore di indulgenze, che è quello sui tre ragazzi ai margini della società, che vivono di espedienti e così via, i tre ragazzi li ho trovati per strada. Per puro caso, erano tutti e tre scozzesi, per cui parleranno con l’accento scozzese. Girerò il Racconto del Cuoco, la storia di Peterkin o Pietruzzo, nei docks di Londra, e in questo episodio si parlerà in cockney, nel tipico dialetto londinese. (...) E poi, quando mi sono trovato giù vicino a Bath, e a Wells, il modo di parlare di quella gente mi è piaciuto moltissimo, e quindi in qualche brano userò l’accento del Somerset. Io mi servo della lingua viva, mettendo insieme i più disparati dialetti.”[165]

Dunque, ancora una volta, Pasolini sceglie di sovrapporre all’opera letteraria non un linguaggio arcaizzante frutto di una ricerca erudita, ma “la lingua viva” delle classi popolari, parlata dagli attori non professionisti scelti, letteralmente, dalla strada e chiamati ad interpretare i personaggi chauceriani prestando ciò che rimane di non ancora “colonizzato dal potere”: il corpo e, come si è appena visto, il dialetto.

Naturalmente, però, questa ricchezza linguistica non può essere mantenuta nel doppiaggio in italiano, che, pur non essendo accademicamente irreprensibile[166], risulta privo di particolari inflessioni vernacolari; ad eccezione del Racconto del Fattore, dove Pasolini fa parlare ai due studenti un italiano con un’evidente calata bergamasca.

2. Il Film

2.0. La struttura

I racconti scelti da Pasolini per il suo film sono in tutto otto; anche se, in realtà, gli ultimi due episodi sono tratti, rispettivamente, dal Racconto dell’Apparitore (o del cursore) e dal Prologo al racconto stesso.

I Canterbury Tales, invece, sono costituiti da ventiquattro racconti (più un prologo generale all’inizio dell’opera), solitamente preceduti da un’introduzione, nella quale il novellatore di turno viene invitato a parlare (generalmente dall’Oste) o si impone forzatamente all’attenzione generale. Nei Tales vi è - a differenza del Decamerone, suddiviso nelle idilliache giornate vissute dall’«allegra brigata» - un susseguirsi continuo dei racconti fatti dai pellegrini, senza che sia stato fissato alcun tema o senza alcun ordine preciso[167], ma con novelle spesso collegate fra di loro per opposizione o consonanza; infatti, la cornice chauceriana – formata dai prologhi (e dagli epiloghi) ai singoli racconti – non vive dell’atmosfera rarefatta e “separata” presente nell’opera boccacciana, ma è inglobata anch’essa nella multiforme rappresentazione del mondo appartenente ai racconti che introduce e scandisce. Le azioni, i dialoghi e i diverbi fra i pellegrini, dunque, diventano anch’essi materia di racconto e, in secondo luogo, “generano” racconto, perché può capitare che una novella sia la “risposta” risentita o il “controcanto” parodico di una novella precedente, in modo tale da creare, all’interno della cornice, una fitta trama di corrispondenze e richiami[168].

Anche nel caso dei Racconti di Canterbury Pasolini abolisce quasi completamente la cornice presente nell’originale. Infatti i pellegrini compaiono (e parlano) solamente nel lungo prologo; quando, all’inizio del viaggio, vengono invitati dall’Oste a raccontare, a turno, una storia. Poi non si rivedono più; se non in un breve intermezzo mentre dormono, e alla fine, quando si inginocchiano davanti alla cattedrale del loro pellegrinaggio.

I racconti sono scanditi, invece, da brevi intermezzi con Pasolini-Chaucer; ma, mentre nel Decameron le sequenze inserite fra le singole storie appartenevano a due episodi più grandi (quello di Ciappelletto e quello dell’Allievo di Giotto) che caratterizzavano il primo e il secondo tempo; nei Racconti di Canterbury questi intermezzi sono poco più che degli sketch, delle notazioni, non appartenendo ad una storia coerente di ampio respiro. Più che di cornice, dunque (essendo scomparso “l’atto del raccontare” dei pellegrini e il gioco dei rimandi e dei contrasti tra racconto e racconto), si può parlare di parentesi, di inciso, che non caratterizza e quasi nemmeno introduce gli episodi (a differenza del Decameron), ma si limita a romperne, commentandolo, il flusso continuo.

La struttura generale del film può essere riassunta in questo modo:

 

        I.      Prologo generale

(Partenza dei pellegrini)

 

     II.      Racconto del Mercante[169]

 

   III.      Racconto del Frate

 

  IV.      Chaucer[170] I

 

     V.      Racconto del Cuoco

 

  VI.      Chaucer II

 

VII.      Racconto del Mugnaio

 

VIII.      Racconto della Donna di Bath[171]

 

  IX.      Racconto del Fattore

 

     X.      Chaucer III

 

  XI.      Racconto dell’Indulgenziere

 

XII.      Racconto dell’Apparitore

 

XIII.      Prologo dell’Apparitore

 

XIV.      Epilogo generale (Chaucer IV)

(I pellegrini arrivano a Canterbury)

 

 

2.1. Prologo generale

“Quando aprile con le dolci pioggette ha penetrata fino alle radici l’arsura di marzo e adacquata ogni vena dell’umore dalla cui virtù s’ingenerano i fiori: quando zefiro pure col molle suo soffio ingemma i teneri germogli in ogni bosco e brughiera, e il giovane sole ha percorso il suo mezzo tragitto in Ariete e fan melodia gli uccelletti che dormon la notte con occhi socchiusi, tanto li punge in cuore la natura, allor brama la gente d’andar pellegrina e i palmieri di cercare strani lidi e santuari lontani in fama per contrade diverse, e specialmente dai margini estremi d’ogni contea d’Inghilterra s’avviano verso Canterbury per visitare il santo martire benedetto che li soccorse durante le loro infermità”

Questo è il famoso incipit dei Canterbury Tales, in cui viene introdotto, nel risorgere panico della natura, il motivo del pellegrinaggio riconoscente verso una meta salvifica; in modo che al nuovo fremito vitale che percorre la stagione corrisponde il viaggio visto come elevazione morale, come purificazione (si ricordi il lungo sermone sui peccati capitali che conclude l’opera). A questo incipit Chaucer fa seguire la rassegna dei ritratti dei ventinove pellegrini della Tabard Inn, per poi presentare la proposta, fatta dall’Oste, di raccontare delle storie lungo il cammino.

I racconti di Canterbury di Pasolini, invece, si aprono calati direttamente all’interno di un “brulichio puramente esistenziale” fatto di risate, urla vivaci, e canzoni sguaiate; infatti (come già nel Decameron) la colonna audio dei titoli di testa è costituita da un vociare confuso in presa diretta, su cui si innesta una canzone popolare in lingua inglese. A questa canzone risponde, subito dopo i titoli, “Fenesta ca’ lucive” cantata con accento inglese dall’Indulgenziere nello spiazzo vicino alla locanda.

Per la terza volta in un film di Pasolini (dopo il Decameron e, molto più lontano nel tempo, in Accattone[172]) si ha la riproposizione di questa canzone popolare napoletana; e, ancora una volta, questa canzone (che già di per sé ha un testo “funerario”) viene accostata al fondamentale ed imprescindibile tema pasoliniano della morte. Infatti sarà proprio l’Indulgenziere colui che racconterà la storia dei tre giovani scapestrati che partono alla ricerca del ladro chiamato “la Morte”, per poi uccidersi a vicenda. Si può dire, dunque, che come i Tales di Chaucer si aprono alla vita rinnovata di un aprile rugiadoso, così i Racconti pasoliniani hanno impressa su di sé, sin dall’inizio, l’irresistibile vocazione alla morte[173].

A conferma di quanto ho appena detto, cioè dell’intenzione di Pasolini di imprimere un segno diverso al suo incipit, si può aggiungere che, nell’originale, il “gentil Indulgenziere di Roncisvalle” cantava, assieme all’Apparitore, una canzone di tutt’altro argomento: “Vieni mio amore, vieni a me[174].

Subito dopo, con la canzone dell’Indulgenziere in sottofondo, è collocata la scena della lotta del Mugnaio che riesce a vincere il capretto in palio. Questa lotta, nella sua greve fisicità (il corpo rudemente massiccio del Mugnaio, il bacio smanioso dato al capretto della vincita), può essere un’ulteriore chiave interpretativa del film, un suo ulteriore sigillo; cioè alla tematica della morte si associa quella (complementare) della corporalità, si potrebbe dire, “volgare fino all’abiezione” che rende la “medievalità” della morte allegorica di cui si è già parlato.

Un segno ancor più esplicito della poetica pasoliniana attorno al film si delinea nella scena seguente, dove è collocato il piccolo sketch tra Chaucer e il Cuoco che cozzano il naso uno contro l’altro nel passare sotto una porta. Più specificatamente mi riferisco alla risposta del Cuoco alle scuse di Chaucer:

Chaucer: [...] avete una mazza al posto del naso! (Il Cuoco ci rimane male) scherzo scherzo... spero di non avervi offeso, ho veramente scherzato.

Cuoco: Eh però, tra scherzi e giochi grandi verità si possono dire!

La frase è stata ripresa fedelmente dai Canterbury Tales, dove è pronunciata dall’Oste nel Prologo del racconto del Cuoco, ma con un senso ampiamente differente; infatti mentre nel film di Pasolini la frase, isolata dal resto, rimane sospesa ambiguamente tra il detto gnomico e la profezia; in Chaucer ha la più chiara e semplice intenzione di invitare il Cuoco, dopo alcune sapide frecciate sarcastiche, a raccontare la propria storia:

«(...) Nondimeno, per favore, non t’adirare di scherzi: tra scherzi e giochi gran verità si possono dire».

Questo peso diverso che ha la frase in Pasolini rispetto a Chaucer, e il fatto che sia citata in presenza dello stesso regista nei panni dello scrittore trecentesco, contribuisce ad aumentare l’impressione di trovarsi di fronte ad una espressione metafilmica che, a dir la verità, risulta un po’ indebolita, rispetto agli altri “segni di poetica”, proprio dal suo palese carattere programmatico e dal suo “porgersi” all’attenzione e all’intelligenza dello spettatore. Molto spesso, infatti, proprio in virtù della sua allusività ma anche della sua genericità compendiaria, la frase è stata posta, in varie occasioni e da vari critici, come epigrafe ai Racconti di Canterbury e alla Trilogia della vita.

Ritornano nei Racconti, inoltre, alcuni elementi già ravvisati nel Decameron e che possono essere considerati, a pieno diritto, come una sorta di basso continuo in tutta la Trilogia[175]. Mi riferisco, nel caso di questo Prologo generale, ai campi medi che ritraggono - mentre la Donna di Bath fa erompere la sua logorrea senza argini - la folla fuori dalla locanda: le corse, i giochi sullo spiazzo fangoso, le oche che fuggono rapide, riprendono, ancora una volta, gli accenti bruegheliani che si erano notati, ad esempio, nelle scene delle nozze di Zita Carapresa nell’episodio di donno Gianni. Oppure si potrebbe citare il carattere conviviale delle scene all’interno della locanda che ricorda quello del brindisi finale dell’episodio dell’Allievo di Giotto, sia per la presenza di Pasolini (anche qui «diverso» in mezzo a tanti «simili») sia per l’allegro mescolarsi di voci e calici; oppure, ancora, l’invito fatto dall’Oste al racconto e al godimento derivato dal racconto (si notino i garzoni con i vassoi pieni di cibo alle spalle dell’Oste che fa la sua proposta) che non può che rammentare (anche per il montaggio a scatto che segue immediatamente sul Racconto del Mercante) i molti inviti al racconto che compaiono nel Fiore delle Mille e una notte.

2.2. Racconto del Mercante

Nei Canterbury Tales il Racconto del Mercante segue la novella sulla sottomissione e sulle virtù femminili del Racconto del chierico di Oxford con il chiaro intento di contrapporre al ritratto ideale di Griselda la trattazione di quali “astuzie e imbrogli si trovano in femmina” sulla scorta dei classici della letteratura misogina. Ma a placare e a ironizzare l’estro antimuliebre interviene l’altrettanto classico tema dell’unione oscena tra la vecchiaia e la giovinezza in fiore:

Quando la tenera giovinezza va sposa alla ricurva vecchiaia, è un’allegria così grande, che non si può descrivere: provatelo, e v’accorgerete se in un argomento come questo, io dico bugie o no.

In Pasolini il contrasto tra vecchiaia e giovinezza si radicalizza e acquista nuove valenze liberandosi del tutto dal fardello della riprensione moralistica (benché ironica) del tradimento e dell’adulterio. Questa radicalizzazione è evidente nel ritratto sovraccarico e manieristicamente grottesco di Gennaio (interpretato, non a caso, da un attore professionista, Hugh Griffith) che stravolge il volto nelle più laide espressioni della smania carnale o del trionfo del possesso. Al ritratto di Gennaio si oppone, naturalmente, quello di Maggio; ai broccati delle vesti sfarzose della corte dell’anziano cavaliere risponde la snella nudità della ragazza finalmente libera dalla costrizione dell’abito nuziale; alla vanagloriosa e ridicola verbosità del primo rispondono le linguacce e le risate spontanee della giovane sposa; la sessualità greve del vecchio che si accanisce lubricamente sulla carne è rovesciata nello smanioso ed incontenibile appagamento dei due giovani sopra il gelso[176], eccetera.

Il contrasto di cui si è parlato, dunque, può essere considerato anche come opposizione tra la spontaneità e l’insopprimibilità del desiderio di fronte all’irrealtà coercitiva del potere e della costrizione sociale. Da una parte, infatti, si trova Gennaio, che vive nel suo palazzo imponente, attorniato da armigeri caricaturali con elmi ed alabarde sproporzionate, sovraccaricato dalle vesti lussuose e dai vani cerimoniali della sua corte ossequiosa e compiacente, eccetera; la “parte di Maggio”, invece, è quella della folla, del mercato chiassoso (non a caso collocato in uno scorcio di quartiere operaio dickensiano) dove un bambino, in mezzo ai cesti e ai panieri, scopre per gioco il sedere della ragazza. Si pensi, inoltre, alle parole (assenti in Chaucer) che dice Gennaio la prima notte di nozze mentre Maggio cede di malavoglia ai suoi assalti: ”Noi abbiamo la legge di Dio e degli uomini dalla nostra parte”; oppure al gesto che fa il vecchio, diventato improvvisamente cieco, quando stringe rapacemente il braccio della ragazza per tenerla legata a sé. Si confrontino, dunque, queste parole e questi gesti coattivi con il primo sguardo che si scambiano i due giovani al banchetto, quando Maggio dal tavolo rialzato degli sposi, imbacuccata nelle raffinate vesti nuziali ma con la bocca piena e unta dal grasso della carne, nota tra gli ospiti Damiano rimanendo attonita e rapita dal giovane che la fissa sorridendo eloquentemente.

La contrapposizione tra vincolo sociale e sessualità, tra potere e desiderio, è espressa anche dalle scene in cui Damiano, sotto la finestra della stanza da letto, ascolta gli amplessi del vecchio con l’amata, e si strugge per la smania amorosa appoggiandosi alle mura del palazzo e stringendosi il pene con un gesto ossessivo e reiterato. L’esclusione e la privazione imposte del potere si concretano, dunque, nelle dure pietre del palazzo, mentre il desiderio e la sessualità trovano il loro culmine rappresentativo, ancora una volta[177], nel gesto della mano che si stringe attorno al sesso maschile.

Il confronto con l’appena citato episodio “dell’usignolo” del Decameron è interessante anche per un altro motivo. Nel Capitolo II mi soffermavo sul carattere idilliaco e, in un certo senso, “archetipico” dell’episodio e, soprattutto, sulla connotazione edenica che Pasolini aveva dato del giardino di Lizio da Valbona, quando viene illuminato dai primi raggi del sole che colgono addormentati i due novelli amanti. Ebbene, nei Racconti di Canterbury il riferimento al mito e, in questo caso, al locus amoenus classicheggiante si eleva al di sopra della mera suggestione poetica, per diventare esplicito nelle figure di Plutone e Proserpina[178] che passeggiano nel giardino recintato di Gennaio che, in questo modo, risulta essere un Eden “vero e proprio”, un mondo palesemente a sé stante e “altro” rispetto a quello del palazzo e del mercato.

Ma, paradossalmente, mentre il giardino di Lizio da Valbona subisce, all’interno dell’episodio, una sorta di “trasfigurazione verso l’alto”, che lo trasforma da comune boschetto mediterraneo in teatro consapevole e partecipe dell’amplesso\creazione tra Ricciardo e Caterina (che scopre il corpo di Ricciardo\Adamo “creandolo” con gli occhi[179]); per converso, l’hortus conclusus di Gennaio risulta “trasfigurato verso il basso”, cioè da idilliaco e rarefatto ritrovo di dei si appesantisce e traligna in un fondale piatto e uniforme per un ben più prosaico incontro di due giovani amanti. La stessa nudità del re degli inferi e della sua consorte[180] se paragonata a quella di Ricciardo e Caterina, appare “dovuta” e funzionale alla pura rappresentazione, e quindi lontana da “quell’inno al corpo” da quell’esaltazione della sessualità che si era ravvisata nell’episodio del primo film della trilogia; e così pure l’incontro tra Maggio e Damiano, nel suo accanimento e nella sua smania di appagarsi (ma anche per la presenza di Gennaio che rappresenta, in un certo senso, la coscienza del peccato), perde la spontaneità e la freschezza dell’episodio decameroniano per acquistare in ossessione e consapevolezza.

Maggio e Damiano non possono ripetere ancora una volta la “creazione” del primo uomo e della prima donna sulla terra; già scacciati dal paradiso sono illuminati dalla cruda luce di quella “coscienza triste” (la coscienza del peccato) di cui Pasolini aveva parlato a proposito di Chaucer. Dunque, nei Racconti di Canterbury, l’Eden primigenio ed intatto dove cantava “l’usignolo” di Caterina non può che prendere le veci e diventare grottescamente simile al “doglio” dell’episodio di Peronella, dove due amanti prendono furbescamente sollazzo l’uno dall’altro alla presenza del marito cornuto. Né più né meno.

2.3. Racconto del Frate

Questo episodio esemplifica e riassume in sé le caratteristiche e le specificità dei Racconti di Canterbury nei confronti degli altri due film della trilogia; caratteristiche e specificità che, come si vedrà[181], preludono direttamente a quelle dell’ultimo film di Pasolini: Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Inoltre, come già era accaduto per Ciappelletto nel Decameron, l’episodio interpretato da Franco Citti si contraddistingue sia per intensità drammatica sia per la fecondità delle tematiche che percorrono il racconto cinematografico.

Ma, mentre nel Decameron Franco Citti interpretava il protagonista dell’episodio (il crucciato Ciappelletto titanicamente solo di fronte alla morte), in questo caso l’attore ricopre, almeno nella prima parte, il ruolo del testimone silenzioso, dell’estraneo che guarda da dietro alle quinte, che indaga, che ricerca e che, alla fine, trae il suo giudizio di condanna.

L’episodio, infatti, si apre sull’inquadratura da tergo dello “Straniero” che, attraverso una finestra al primo piano, osserva all’interno di una stanza il Delatore che, a sua volta, spia da dietro una tenda la copula tra il pederasta povero ed un ragazzo di vita; dunque è introdotto sin da subito il tema dello sguardo, della testimonianza visiva (premessa fondamentale della denuncia).

In seguito, dopo aver “osservato chi osserva”, lo Straniero si sostituisce al Delatore e spia dallo stesso buco tra i panneggi della tenda, cogliendo l’attimo in cui il pederasta povero sospende per un momento l’atto sessuale per addentare una mela e per offrirla al ragazzo sdraiato. La scena si ripete specularmente quando il Delatore scopre in flagrante il pederasta ricco: identica è la successione de “l’osservare chi osserva” e del “guardare ciò che l’altro ha guardato”, come simile è il gesto che fa il pederasta ricco quando si ferma per bere da un boccale di birra (senza però offrirlo, a sua volta, al compagno).

Tra queste due scene è collocato il passaggio di una processione funebre, che incrocia la strada dello Straniero mentre questi sta pedinando il Delatore tra i portici della città. La presenza della processione in questa parte dell’episodio (rimarcata, oltre dal fatto che Franco Citti le ceda il passo, dall’inserimento di un canto liturgico) è chiaramente significativa; la morte, in questo caso, è come il pannello centrale di un trittico su cui si incernierano le due scene (speculari) del rapporto sessuale. Ma oltre ad un generico e risaputo accostamento di eros e thanatos qui abbiamo, più particolarmente, l’accostamento esplicito tra omosessualità[182] e morte; morte derivata, chiaramente (almeno da questo punto di vista), non dalla omosessualità in sé ma (come si vedrà tra poco) dall’aberrazione corruttrice e nefasta sul corpo e contro il corpo che il potere (ovunque e comunque repressivo) implica e richiede.

In seguito al pedinamento[183] del Delatore lo Straniero si imbatte nei “mandanti” di quest’ultimo: l’Apparitore e, soprattutto, l’Arcidiacono della città[184]. Il ritratto dell’Arcidiacono è dato con poche ma efficaci inquadrature: in piedi, con la veste viola cupo e con in mano il pastorale (“l’uncino” chauceriano del potere temporale), ghigna di soddisfazione di fronte ad un contadino che gli sta mostrando due oche portate in tributo. Le inquadrature, come ho detto, sono poche e, inoltre, di breve durata, ma definiscono con efficacia iconica la figura dell’Arcidiacono e, in modo particolare, le fattezze e le manifestazioni del Potere incarnato. Si potrebbe anche fare un passo ulteriore dicendo che il prelato, nel suo aspetto osceno e terribile, ricorda per analogia i quattro signori di Salò[185]; in particolare quando questi esprimono la loro soddisfazione passando in rassegna il frutto dei rastrellamenti operati dai loro sgherri. Infatti, accanto all’Arcidiacono si trova l’Apparitore: giovane, con gli occhi azzurri e freddi che guardano nel vuoto da dietro un crocifisso di ferro; il “volenteroso esecutore” degli ordini della curia e il “fecondo procacciatore di carne di peccatori”[186] ricorda, per certi versi (non dimenticando, però, le caratteristiche del suo ritratto nei Tales), le pagine degli Scritti corsari e delle Lettere luterane (che Pasolini scriverà di lì a poco) che parlano della nuova generazione (“la nuova gioventù”) scaturita dai bassifondi del neocapitalismo: amorale fino all’anomia e quindi pronta manovalanza squadrista per la più repressiva delle dittature[187].

Quanto ho appena detto sulle manifestazioni del potere e della sua capacità repressiva e “irreale” trova mirabile esemplificazione nella sequenza del rogo.

I campi medi delle tribune dei notabili che aprono la scena, danno subito lo spunto per un’interessante osservazione. Pasolini ha utilizzato, nel realizzare queste inquadrature, un espediente tecnico particolare; per cui le facce dei notabili sono inserite all’interno di buchi circolari ritagliati in un telo dipinto[188] (un po’ come i pannelli per le fotografie nei luna park). Questa “bidimensionalità indotta” può essere vista anche solo come un ennesimo ritorno del riferimento e del gusto per la codificazione pittorica (dalle schiere dei santi delle pale prerinascimentali via via sino alla frontalità assoluta dei mosaici bizantini), ma mi sembrerebbe più appropriato, anche in virtù di questa “forzatura tecnica” così insolita, ravvisarvi anche una componente di più deciso espressionismo. La parata distante[189] e mostruosa dei volti appiccicati allo sfarzo multicolore delle vesti sembra alludere alla disumanità e alla scandalosa irrealtà che il potere imprime, in primo luogo, ai suoi tutori ed artefici[190].

L’impressione di disumanità e di irrealtà aumenta man mano che procede e si attua il rito dell’esecuzione capitale, non essendo per nulla attenuata dalle notazioni, per così dire, sarcastiche che accompagnano l’allestimento del rogo e la presentazione del condannato a morte. Mi riferisco ai due sketch introdotti entrambi dall’urlo “un momento!» che sembra, solo per un attimo, voler interrompere provvidenzialmente l’esecuzione, ma che, in realtà, proviene solamente dallo zelo assurdo di quanti si affannano attorno al patibolo. Infatti il primo urlo introduce un ragazzo dai capelli lunghi che corre a capofitto per portare un'altra fascina per il rogo; il secondo, ripetuto due volte, è gettato dal frate confessore che, quasi allegramente, porta il crocifisso per l‘eventuale redenzione in punto di morte.

Anche il ritratto dello stesso condannato a morte appare allineato sullo stesso registro comico; si pensi al modo in cui scalcia e si dibatte quando è portato di peso sul patibolo o allo svenimento improvviso che lo coglie (in una scena precedente) quando l’Apparitore gli comunica la pena che lo aspetta per il fatto di non avere il denaro sufficiente per pagarlo.

Ma, come si è detto, nonostante queste apparenti divagazioni comiche (ma in realtà grazie – anche – a queste divagazioni) la rappresentazione del rogo del sodomita nel Racconto del Frate è una delle parti più intensamente drammatiche di tutta la Trilogia della vita.

Tutta la scena è dominata (e, in un certo senso, condizionata[191]) dalla figura e, soprattutto, dallo sguardo dello Straniero che si aggira, spingendosi fra la folla attonita, scandendo il succedersi dei fatti con il roco reiterare del suo “frittelle… frittelle…”; parole che sembrano quasi distillare, a goccia a goccia, il dilacerante urlo di accusa che, di lì a poco, lo Straniero sembrerà lanciare. Quando il rogo viene acceso, infatti, mentre le urla del condannato si confondono al fragore delle fiamme, lo Straniero sembra attratto inesorabilmente verso il centro di quello spettacolo orribile, cerca ansiosamente un varco tra la folla fino, addirittura, ad appoggiare il mento alla spalla di una guardia. Ed è in quel momento che si commuove (lui, il diavolo) ed ha quello scatto repentino della testa verso l’alto, verso il fumo che si eleva contro la facciata della cattedrale, verso i notabili che si ritirano, soddisfatti ed un po’ infastiditi, dalla loro loggia.

In quello scatto, in quello sguardo, si condensano l’urlo che si è detto, e la condanna.

Prima di procedere ulteriormente bisogna dire che la figura interpretata da Franco Citti (nel suo primo aspetto di osservatore silenzioso definito più sopra come “Straniero”) è assente in Chaucer; ma non solo, tutta la scena del rogo del sodomita è da considerarsi quasi esclusivamente come un’invenzione pasoliniana. Nei Canterbury Tales, infatti, la parte riguardante le estorsioni e le persecuzioni dell’Arcidiacono e dell’Apparitore vengono trattate in maniera piuttosto concisa, costituendo questa solamente l’antefatto dell’episodio dell’incontro con il diavolo; inoltre l’unico accenno esplicito alle pena capitale viene fatto solamente riguardo ai lussuriosi (eterosessuali però); mentre non si allude, neanche lontanamente, al peccato di sodomia[192]:

“Abitò un tempo dalle mie parti un Arcidiacono, uomo di alto paraggio, il quale arditamente infliggeva castighi a reprimere fornicazione, stregoneria, ed anche ruffianesimo, diffamazione ed adulterio, a correggere ufficiali ecclesiastici, testamenti, contratti e astensione dai sacramenti ed anche molte altre maniere di delitti che non è d’uopo ora di ripetere; e usura ed anco simonia.”

“Ma per certo il maggior danno lo fece ai lussuriosi; dovevano friggere se venisser presi…”

“Femmine pure teneva nella sua [dell’Apparitore] paga, le quali all’orecchio gli dicevano se ser Roberto, ser Ugo, o Gianni o Rufo o chi altri mai fosse avesse con loro giaciuto. Così egli e la femmina erano d’un animo solo. Ed egli metteva mano ad una citazione contraffatta, e chiamava a capitolo e lui e lei, per poi spogliare l’uomo e lasciar libera la femmina.”

Soprattutto grazie a quest’ultima citazione ci si può rendere conto di come Pasolini, invece, abbia incisivamente trasformato la materia del racconto facendo assumere alla prima parte dell’episodio la fisionomia sdegnata del vibrante atto d’accusa e quella cupa e apocalittica della profezia.

Lungi dall’essersi limitato ad una rivendicazione o ad una querimonia pamphlettistica di stampo libertario su i diritti degli omosessuali, Pasolini fa balenare, per un attimo, quelle tematiche che troveranno la loro più compiuta espressione sulle pagine delle Lettere luterane o degli Scritti corsari e nella sua ultima opera cinematografica. L’isolamento, la repressione e la distruzione della diversità, la nevrotizzazione e al degradazione del corpo e del sesso, e, soprattutto, l’avvento o l’imminenza di un “universo orrendo” costituito da pragmatici detentori del potere e da amorali manovali del crimine.

Dunque, le ragioni sottese all’introduzione del tema (anche) autobiografico dell’omosessualità e della sua persecuzione, vanno ricercate all’interno dell’urgenza di espressività e di “somatizzazione” proprie della denuncia e della profezia. Ancora una volta (ma sempre più fortemente) il poeta ritrova il suo ruolo nel pubblico martirio[193], nella rappresentazione del proprio olocausto, in modo che alle urla straziate del condannato a morte si sovrappongano quelle di chi è continuamente vocato a “gettare il proprio corpo nella lotta”.

Nonostante i cupi presagi, quindi, l’atto d’accusa conserva ancora una forza ed una ragione d’essere; nello scatto commosso di Franco Citti verso la cattedrale e verso i potenti che appaiono sulla loggia brucia “quell’eroismo disperato”[194]che riapparirà ancora una volta (ma in un contesto ben diverso e, se possibile, ancor più disperato) nel pugno chiuso alzato da Ezio, prima di morire, davanti ai quattro signori di Salò.

Poco da dire sulla seconda parte dell’episodio che segue fedelmente il testo ma che, nell’economia del racconto cinematografico, ha una funzione accessoria e, come dire, “pretestuale” nei confronti della prima parte; sovvertendo, in questo modo, la struttura narrativa della novella chauceriana che, come si è visto, aveva il suo motivo di maggior interesse nel “tranello della guastada”, teso dal diavolo per far cadere nella sua rete il cinico Apparitore.

2.4. Chaucer

Se si esclude il Prologo generale (in cui Pasolini appare insieme agli altri pellegrini), il personaggio di Chaucer compare all’interno del film in quattro occasioni. Ma, a differenza delle parti che componevano il macro-episodio dell’Allievo di Giotto nel Decameron, le occasioni in cui il regista appare all’interno del film risultano decisamente ridimensionate sia dal punto di vista della durata sia da quello dell’importanza strutturale e “dell’impronta” lasciata sugli altri episodi.

Le quattro “apparizioni” del regista, inoltre, elevandosi raramente al di sopra della mera “notazione a margine”, sono assimilabili (e quasi interscambiabili) fra di loro. Si limitano ad accompagnare la narrazione dei fatti attraverso la loro registrazione passiva; quindi si può dire che ricoprano, in un certo senso, una posizione mediana rispetto alle manifestazioni dell’estro demiurgico dell’Allievo di Giotto e il risucchiamento del narratore all’interno del vortice del racconto proprio del Fiore delle Mille e una notte.

Silenzioso, quasi sempre nel suo studio, da solo, rintanato in uno scranno imponente che lo “avvolge” quasi ad isolarlo dal mondo esterno, il personaggio di Chaucer manifesta la propria appartenenza ad una fase ulteriore del divenire storico proprio nella sua separatezza, nella sua lontananza e nel suo disagio rispetto al “brulichio puramente esistenziale” dove, a suo tempo, l’Allievo di Giotto affondava a piene mani nella ricerca dei corpi e dei volti per le proprie creazioni artistiche. La ricerca di Pasolini\Chaucer, invece, è significativamente limitata al piano della memoria o della trasposizione letteraria; il sorriso che accompagna il suo lavoro è assorto, nostalgico, e l’unica “realtà” in cui affonda le mani è costituita dai pesanti tomi sotto cui nasconde una copia del Decamerone[195], celata opportunamente allo sguardo censorio della moglie-tiranno.

Anche l’epilogo del film (soprattutto se confrontato a quello del Decameron e all’ambigua domanda che lo accompagna) risente di questa “marginalità” e di questo ripiegamento retrospettivo verso la memoria e la codificazione letteraria. Pasolini\Chaucer scrive in calce all’opera appena conclusa:

“Qui finiscono i Racconti di Canterbury raccontati per il solo piacere di raccontare.
Amen[196]

Si è ben lontani, dunque, in questa riproposizione del concetto del puro godimento dell’ontologicità del narrare, dal dubbio dell’artista di fronte al concretizzarsi della propria ispirazione.

Nonostante questa marginalità di cui si è appena detto, all’interno dei micro-episodi che hanno come protagonista Pasolini c’è spazio per il ritorno di alcuni temi “eterni” per la sensibilità poetica dell’artista. Mi riferisco al I frammento, in cui si lo scrittore, all’interno del dormitorio della locanda e in compagnia degli altri pellegrini, si appresta a scrivere il Racconto del Cuoco[197]. Mentre tutti gli altri dormono, Pasolini\Chaucer getta uno sguardo intorno; una lenta panoramica destra-sinistra inquadra i pellegrini assopiti mentre, dall’esterno, penetra nella stanza la melodia conosciuta di Fenesta ca’ lucive; la panoramica percorre tutto il perimetro della stanza fino ad arrivare a soffermarsi su un ragazzo nudo che, ancora sveglio, tiene un gatto in braccio e guarda, assorto, verso lo scrittore.

La pulsante onnipresenza del sesso unita alla coscienza dilacerante della morte: ecco come un’apparentemente banale notazione si trasforma in un ricettacolo dolente delle ossessioni e delle maledizioni più private del poeta.

2.5. Racconto del Cuoco

2.5.1. L’hobby del sonetto

“Quando ho girato Canterbury era un periodo molto particolare, ero molto, molto, molto infelice, non ero adatto per una trilogia nata all’insegna della spensieratezza, dello «stile medio», del sogno, e anche del comico, per quanto astratto. E forse se non fossi stato così infelice, non mi sarebbe venuto in mente di citare Chaplin così apertamente, con bastoncino e cappello”[198]

Qual è la causa di questa infelicità, che sembrerebbe mettere in crisi tutto il progetto (appena iniziato) della Trilogia della vita?

La sceneggiatura dei Racconti di Canterbury (dove l’episodio tratto dal Racconto del Cuoco possiede già ascendenze chapliniane[199]) fu terminata entro l’inizio dell’estate del ’71 quando iniziarono i sopralluoghi in Inghilterra per la scelta delle ambientazioni e dei personaggi del film[200]. Da pochi mesi, Ninetto Davoli si era fidanzato con una ragazza della sua età esprimendo chiaramente la sua intenzione di “fare sul serio”. È questo fatto, la scelta esclusiva di una compagna operata da Ninetto (l’amore casto di una vita), che fa precipitare Pasolini nel più cupo sconforto.

In agosto scriveva a Paolo Volponi, in risposta ad una lettera sulle impressioni di quest’ultimo alla lettura di Trasumanar organizzar:

“Avrei saltato di gioia leggendo quello che mi dici delle mie poesie – se non fossi in un periodo in cui sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta  una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui (…)”[201]

Sempre all’agosto del 1971, risale l’inizio di una raccolta poetica (a tutt’oggi, solo parzialmente edita[202]) intitolata L’hobby del sonetto; costituita da 118 sonetti (più alcuni frammenti) scritti in Italia e in Inghilterra fino al febbraio del 1973. La maggior parte di questi componimenti[203] (stando almeno ai pochi pubblicati) è dominata dall’espressione del dolore annichilente che deriva dal forzato distacco (sentimentale, non fisico) da Ninetto; dolore a cui è strettamente intrecciato il rimpianto straziante della gioia che questo periodo, ormai concluso, portava con sé:

“Il vostro posto era al mio fianco,
e voi ne eravate anche fiero; dicevate,
del sedile della macchina presso il volante,
«Qua ci devo stare solo io». Le annate

che fanno una vita passarono in un istante.
Qualcosa che aspettava in agguato
accadde. Ma io non so che cosa. Siete distante
da me, pare per un amore. Vi ho dato

ogni potere sulla mia esistenza,
e voi, certo per umiltà, per obbedire
a un destino che vi vuole povero,

non sapete che farne: e io son senza
alcun diritto, nel consorzio civile,
di pretendere che non mi diate dolore.

Canterbury”

 

Penso a voi e mi dico: «L’ho perduto»
- con un dolore che potrei esprimere morendo,
non altrimenti. Dopo un minuto
 ripenso a voi: e lietamente riprende

forza la vostra immagine. Rifiuto
allora di piangervi, ricredendomi.
Poi di nuovo vi considero perduto.
Siete o non siete un altro, mio tremendo

Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.

Ma il conoscervi ha mutato
tutto: e se vi perdo vuol dire
che mi ritrovo, senza vita, dov’ero.

Bath, 24 ottobre 1971”

 

“C’era nel mondo – nessuno lo sapeva -
qualcosa che non aveva prezzo,
ed era unico: non c’era codice né Chiesa
che lo classificasse. Era nel mezzo

della vita e, per confrontarsi, non aveva
che se stesso. Non ebbe, per un pezzo
nemmeno senso: poi riempì l’intera
mia realtà: Era la tua gaiezza.

Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n’è rimasto

Un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.

Benvenuto, 3 Febbraio 1973”[204]

 

Ritengo che questa digressione verso una zona marginale della produzione letteraria e, soprattutto, verso la vita del poeta, sia non meno necessaria di quelle che sono state fatte, a suo tempo, a proposito dell’ideologia e delle espressioni artistiche “maggiori”. Già allora, infatti, si è cercato di mettere in evidenza come alla maturazione del pensiero ideologico e delle argomentazioni sociologiche corrispondesse, sul piano esistenziale, una “assunzione su di sé” (quasi una somatizzazione) dei punti dolenti delle problematiche affrontate. Pasolini non si limitava ad analizzare, a denunciare, a prendere atto del mutamento antropologico avvenuto nel cuore dell’universo popolare; ma lo viveva personalmente, nel suo peregrinare notturno e ossessivo per le borgate romane (o per una città dell’oriente arabo o dell’africa nera postcoloniale), ne soffriva gli effetti e le degradazioni negli aspetti più intimi e profondi della sua vita.

In questo caso, d’altro canto, si cerca di evidenziare come un episodio del vissuto del poeta (il “tradimento” innocente di Ninetto) si intrecci a doppio filo sia con l’analisi pasoliniana della metamorfosi sociale sia, e soprattutto, con la realizzazione di una sua opera cinematografica[205].

2.5.2. L’episodio

Il Racconto del Cuoco, infatti, se fin da subito appare come un inno alla santa leggerezza e incoscienza della gioia di vivere (incarnati naturalmente, agli occhi di Pasolini, in Ninetto), d’altro lato si presenta immediatamente come un inno viziato e offuscato dalla straziante consapevolezza della irrimediabilità della perdita.

Il continuo ricorso alla citazione chapliniana, poi, talmente esplicita e ossequiosa da ricordare la puntigliosità dei vari tableaux vivantes, oltre a confermare per l’ennesima volta l’attitudine pasoliniana al pastiche, può essere visto come un espediente atto a distanziare la materia del racconto attraverso la figura ironizzante dell’Auctor, che viene posto come un’intercapedine tra l’opera e le sue scaturigini poetico-esistenzali. Le varie gag “alla Charlot”, dunque, fortemente stilizzate e come racchiuse all’interno di una rigida e codificata successione, permettono a Pasolini di affrontare e filmare ciò che altrimenti (ovvero preso di petto senza il ricorso a Chaplin) sarebbe stato quasi intollerabile[206].

La trama del racconto (che nei Canterbury Tales è lasciato ambiguamente sospeso ed incompleto) ha come unico filo conduttore il peregrinare erratico e gioioso di Perkin\Ninetto tra i bassi e le architetture paleoindustriali dei Docks londinesi. Perkin è di un’incoscienza sublime e innocente[207], alle prese con la necessità dell’appagamento dei bisogni primari (naturalmente il cibo ed il sesso), canta una medesima canzone sguaiata sia quando Bill gli presenta la moglie sgualdrina sia quando è posto sulla gogna al pubblico ludibrio; in modo che ogni cosa risulta illuminata e nello stesso tempo dissacrata dalla sua inscalfibile allegria.

Ma, come si è detto, questa allegria è come contagiata e snaturata dalla febbrile ossessione pasoliniana, che si accanisce verso qualcosa a cui sa di dover presto rinunciare. E allora la luce che scaturisce da questa allegria è una luce che illumina ma non scalda, perché riflessa dalla nostalgia e dal ricorso inevitabile alla citazione che, come uno “scudo di Perseo”, permette di sopportarne il peso della perdita..

Si pensi, ad esempio, alla scena iniziale, quando Perkin viene spinto dal padrone sul pavimento della locanda in cui lavora; sul viso del giovane appare, come stampato, un sorriso radioso ma immobile, tirato stancamente ai lati del viso, come se rimanesse l’immagine mentre ne è scomparsa la vita. Oppure si pensi al ritorno della consueta inquadratura pasoliniana[208] di Ninetto, che fa capolino con gli “occhi ridarelli” da dietro un cesto di uova, questo ricorso di Pasolini ad un immagine così cara in un contesto carico dei flebili umori della nostalgia, appare fortemente come lo struggente vagheggiamento del tempo passato, da parte dell’amante, di fronte al suo “tremendo Signore\ che non sa cosa gli capita”.

2.6. Racconto del Mugnaio

Sono davvero poche le osservazioni che si possono fare a proposito di questo episodio. E questo non tanto per una mancanza o una cattiva riuscita dell’episodio in sé, ma perché in esso ritornano e si confermano (non assumendo, però, caratterizzazioni o coloriture particolari) tematiche e modalità comuni ai Racconti di Canterbury, su cui ci si è gia soffermati[209].

Dunque il sesso visto come antagonista, come via d’uscita dalle prevaricazioni del potere costituito (il matrimonio della bella Alison con il repellente legnaiolo) ma, contemporaneamente, potere prevaricante egli stesso, con le sue leggi, le sue coercizioni, le sue violenze.

Si pensi all’ossessione erotica di Nicola, lo Studente di Oxford, concentrata, nonostante le accorate dichiarazioni di amore profondo[210], nell’incontenibile prorompere del pene eretto che appare, continuamente impugnato e stretto per placarne le urgenze[211], come la principale preoccupazione e il vero pungolo del tranello inventato dallo Studente.

L’incontro amoroso dei due giovani, inoltre, nella loro smaniosa ricerca del sesso dell’altro, assume le caratteristiche di una lotta - scherzosa e accesa dalla libido, ma pur sempre lotta - quindi connotata da quelle tendenze di dominio e prevaricazione di cui si è parlato. Se, dunque, da un lato il sesso vissuto da Alison e Nicola può apparire intriso dal desiderio cupo del corpo e della carne (con cui si esprime il mondo eterno ed ancestrale al centro della poetica pasoliniana); d’altro lato appare già illuminato dalla “cattiva coscienza”, repressiva e straniante, nata con l’affacciarsi di quel mondo alla storia e alla prassi borghese. C’è l’appagamento senza la gioia, la passione muta che non scopre nulla, ma che nevroticamente e caparbiamente chiede ciò che le è dovuto per “diritto sociale”, poiché, come si è visto, il sesso non è più evasione dalle coercizioni del potere costituito, ma ne è divenuto una delle manifestazioni, assumendone principi e modalità.

Si discosta parzialmente da quanto ho appena detto il ritratto di Assalonne, il sacrestano innamorato di Alison, che si aggira assieme al sorridente amico Martin nei vicoli oscuri di Oxford, nella ricerca, ansiosa ma serena, dello sfogo d’amore. Mi riferisco, in particolar modo, al canto notturno fatto sotto le finestre del legnaiolo o alla scena in cui il ragazzo, strappato dal calore dei balli della festa a palazzo con la speranza di un incontro con Alison, attende fiducioso la comparsa del viso della ragazza, effondendo copiosamente le sue “smancerose litanie da innamorato” (che poi avranno, nell’inversione bocca-ano della beffa, un compenso così ingrato). In queste inquadrature[212], nel volto assorto del ragazzo che, immerso nel blu intenso della notte estiva, mormora tra sé:«Ormai sono un signore. Dopo questo [il bacio] verrà sicuramente qualche altra cosa…», vive (o sopravvive) ancora il mistero e l’occulta sacralità che caratterizzano l’eros primigenio e incosciente di quegli “adorabili” che “non sanno di avere diritti”, ma che vivono (contumaci rispetto alla storia) nel loro universo chiuso ed immutabile[213].

2.7. Racconto della Donna di Bath

In questo episodio le sovrapposizioni e le contaminazioni tra potere e sessualità diventano ancora più esplicite e cogenti, trovando la loro oggettivazione esemplare nella figura della Donna di Bath che, con la sua vertiginosa logorrea castrante[214] e mortifera, imperversa e domina tutto il racconto.

Pur ricordando quanto si è detto a proposito della scarsa rilevanza della cornice chauceriana nel film di Pasolini, non si può far meno di notare come l’oggetto del racconto della Donna di Bath (la quale compare sia nel prologo[215] che nel racconto vero e proprio) è la Donna di Bath stessa[216]: lei parla di se stessa che parla; e prolunga, dunque, la narrazione in vertiginose prospettive da mise en abyme, che costituiscono (al di là delle vicende narrate) il vero punto focale del racconto. “Il piacere di raccontare”, in questo modo, si avvolge mostruosamente su se stesso, creando iperboliche spirali di parole che debordano in ogni direzione ricoprendo e soffocando la materia del narrare; che, così, appare completamente prona e docile alla volontà tirannica della donna.

La forza della Donna di Bath risiede nel denaro, nei suoi possedimenti caparbiamente ammassati matrimonio dopo matrimonio, e che ora le permettono di porsi in una posizione del tutto insolita per le donne del tempo[217]: la posizione di chi esercita il potere e, strumento, ne è espressione tangibile.

Come si è detto, la parte della vita in cui il potere della Donna di Bath trova la sua manifestazione più evidente (e deleteria) è la sessualità; basti pensare alla scena in cui la donna “chiede” a Giannozzo (lo studioso) di sposarla; i due si sono appartati durante una festa popolare e la donna ha iniziato con noncurante disinvoltura a masturbare l’uomo (dopo che questi, con altrettanta noncuranza, aveva piazzato sul pene la mano della donna):

Donna di Bath: Sono venuta qui per parlarti, Giannozzo!

Giannozzo (assolutamente assente, perso dietro quanto gli sta succedendo tra le gambe): Parla!

Donna di Bath: Tu Giannozzo mi hai fatto un incantesimo, e inutile che lo neghi!

Giannozzo: Ah?

Donna di Bath: Sì, tutta la notte ho sognato di te. Volevi uccidermi mentre stavo distesa a pancia in alto e il mio letto era coperto di sangue… Tu mi hai stregata e perciò dovrai sposarmi, Giannozzo! (mentre dice questo affretta i movimenti)

Giannozzo: Sposarti?… Ma sono troppo giovane!

Donna di Bath: Uhm! Ma vedi, mio marito poveretto sta crepando e tutti sanno bene, quelli che se ne intendono, che il mio sogno è di buon augurio perché «sangue» significa «oro»!

E subito dopo la parola «oro» inizia, significativamente, la scena del funerale-matrimonio; in cui la Donna di Bath si inginocchia davanti al sepolcro del marito defunto, per poi correre immediatamente davanti all’altare per sposare Giannozzo; il tutto senza soluzione di continuità, persino il prete che officia i due sacramenti, il funerale e la cerimonia nuziale, è lo stesso.

Dal letto coniugale - su cui era apparsa, all’inizio dell’episodio, la Donna di Bath insieme al quarto marito – si è passati direttamente alla tomba, per poi ritornare ancora al letto coniugale, ai piedi del quale sono collocati in fila i pitali di tutti i mariti defunti della donna e, naturalmente, quello nuovo di zecca dello sposo novello; quasi a voler dire che la serie dei coniugi (e delle morti) non è certo conclusa.

L’oro, che anche nella pagina chauceriana è legato simbolicamente al sangue, esprime la sua forza degradante sul sesso, contaminandolo, come si è detto, e legandolo perversamente alla morte; una morte che deve essere intesa, ancora una volta, in senso lato, cioè come morte del sacro di fronte alle trasformazioni e alle esigenze della storia.

2.8. Racconto del Fattore

Poco da dire anche nel caso di questo episodio. Anche qui, come nel Racconto del Mercante e (soprattutto) come nel Racconto del Mugnaio, il desiderio sessuale viene presentato come un’incoercibile volontà prevaricante e caparbia; i due ragazzi ottengono l’appagamento di ciò che vogliono considerandolo l’adempimento di un diritto, un procacciarsi ciò che gli spetta; l’amore di una notte con la giovane Tilde è ritenuto dai giovani studenti il giusto risarcimento per le ruberie del Mugnaio: il sesso degradato a merce di scambio.

Opposta a questa degradazione, però, sta la giovinezza “santa” di Alano e Giovanni e la “santità” del loro impulso erotico (nella sua parte inconscia e “animale”, mentre, come si è visto, l’eros viene svilito e “adoperato” consciamente come beffa e sopraffazione). Si pensi, ad esempio, all’allegro inseguimento del cavallo nel tardo pomeriggio della rorida campagna inglese; oppure al gesto, che fanno i due giovani, di toccarsi reciprocamente il membro per verificarne l’erezione[218]. Ma soprattutto si pensi al tenero ed ingenuo amore che prova Tilde per l’amante quasi sconosciuto, al suo rifiuto e alla sua sfida all’autorità paterna quando prepara la torta ai due giovani con la farina rubata, ai suoi primi piani silenziosi in cui, per un attimo, si addensa lo stupore e la soggezione sacrale di fronte al mistero della sessualità.

2.9. Racconto dell’Indulgenziere

“Radix malorum est Cupiditas. Ad Thimotheum VI”

Nei Canterbury Tales il Racconto dell’Indulgenziere è, in realtà, un discorso articolato secondo le norme classiche dell’Institutio oratoria quintilianea; la narrazione delle avventure dei tre ragazzi e della loro ricerca del ladro chiamato “la Morte” corrisponderebbe, quindi, all’exemplum, l’aneddoto illustrativo atto a corroborare e a dimostrare quanto viene asserito nel tema che apre l’orazione.

La citazione di S. Paolo dalla prima lettera a Timoteo posta all’inizio del Racconto dell’Indulgenziere, dunque, costituisce il tema discorso, ovvero l’enunciazione del principio che informa il resto della narrazione. In questo modo, l’exemplum risulta approntato a mostrare come “la Morte” (metaforica e reale) che incontrano i tre amici, derivi dalla loro fame d’oro e dalle azioni malvagie che questa li spinge a compiere.

Non importa se alla fine il discorso viene vanificato, con un procedimento comico-parodico, dallo stesso Indulgenziere che, con una disinvoltura disarmante, tenta di vendere le sue false reliquie per spillare un po’ di denaro ai compagni di viaggio; ciò che importa è che tutto il racconto è pervaso da quella tensione cupa e moraleggiante che Pasolini aveva individuato tra le specificità chauceriane rispetto alla “coscienza tranquilla” del Boccaccio.

Anche nell’episodio cinematografico dei Racconti di Canterbury permane l’atmosfera plumbea e tormentata dei Tales; atmosfera che trova, negli improperi paolini[219] declamati da Rufo mentre orina sulle teste dei clienti nell’osteria, la sua espressione più compiuta e pregnante:

Rufo: Eh… eh, ha proprio ragione San Paolo: Dio distruggerà il cibo del ventre e il ventre del cibo!

[…]

Rufo (Orinando su una donna impellicciata): Ah! Ah! Tieni prendi questo, donna mandata dal diavolo ad accendere il fuoco della lussuria e a soffiarvi dentro, con le tue sgualdrine!

[…]

Rufo (Orinando su dei vecchi ubriaconi): All’inferno! Nel fuoco eterno pagherete questo peccato! Ah, viziosa cosa è il vino, e l’ubriachezza è causa di sventure. Ah, ubriaconi, la vostra faccia è stravolta, il vostro fiato acre, siete schifosi da abbracciare! Vorreste fare tutti come Sansone[220]. Ma Dio sa se Sansone bevve mai vino! Leggete la Bibbia, cretini!

[…]

Rufo (Continuando c. s.): Ah… E adesso che vi ho predicato della crapula, voglio mettervi in guardia contro il gioco!

[…]

Rufo: Il gioco è il padre della menzogna e dell’inganno, amici miei, il padre del maledetto turpiloquio e della più indegna bestemmia di Cristo! Uh! Principe che ha il vizio del gioco perde il suo prestigio di regnante! Imparatelo, ignoranti!

Ma il furore apparente di tutta questa sequela di invettive viene dissolto dall’ironia con cui vengono lanciate[221], Rufo, infatti, non è altro che un appartenente a quella compagnia di giovani che vive “ai margini della società” e che è appena uscita dalle stanze del bordello al piano superiore della locanda.

È da notare il rilievo particolare che Pasolini dà alle diverse modalità del rapporto erotico dei cinque giovani con le prostitute; con cinque sequenze all’interno di altrettante stanze, il regista sembra quasi voler stilare un “catalogo delle perversioni” che sembra anticipare, lugubremente, l’ordine chiuso sadiano della villa di Salò. C’è l’impotente, il masochista, quello che tratta la ragazza alla stregua di un Juke-Box[222] infilandole dei soldi in bocca, oppure quello che “sublima a comando” l’atto sessuale coprendo di dolci parole la ragazza con cui fa l’amore, per poi staccarsene con indifferenza una volta che l’atto è concluso, eccetera.

Ma bisogna dire che nonostante lo svilimento del sesso che queste perversioni comportano, i cinque giovani sono ancora in possesso della loro realtà fisica; cioè non vivono ancora l’eros come dissociazione o nevrosi, ma lo fanno ricadere all’interno del loro vitalismo incosciente ed animale. Seppur degradato, il corpo non è ancora negato, non è ancora stato distrutto e annientato da quel “genocidio” epocale che è la premessa necessaria “all’universo orribile” di Salò e del neocapitalismo.

Infatti la morte che colpisce improvvisamente Rufo è quella morte che ha sempre accompagnato, come un assiduo compagno di viaggio, la nozione di “vita” e di “vitalità”[223] lungo tutta l’opera del poeta; si può dire che respiri ancora l’aria delle “piccole morti” di Ragazzi di vita, oppure dei versi luminosi e strazianti delle prime Poesie a Casarsa.

«La Morte» cercata dai tre giovani per vendicare l’amico, invece, ha una colorazione tutta chauceriana, poiché, come si è detto, è il frutto diretto dell’azione corruttrice delle monete d’oro e dalla smania del loro possesso. Ma mentre nel caso di alcuni episodi precedenti (il Racconto del Frate e il Racconto della Donna di Bath su tutti) il motivo della nefandezza del potere era interiorizzato o addirittura introdotto da Pasolini stesso, questa volta il motivo “rimane sulla pagina” e permette al regista una rappresentazione estetizzante del racconto di Chaucer che, giustamente, Adelio Ferrero vede proficuamente contaminata da echi del teatro elisabettiano[224].

Si pensi, su tutte, alla sequenza dell’omicidio e dell’avvelenamento reciproco dei tre amici, quando - in un controluce che ricorda il finale del Racconto del Frate – si profilano le sagome dei tre ragazzi, in un primo tempo intente all’azione violenta dell’accoltellamento, quindi piegate su se stesse negli spasmi della morte subitanea, che le fa cadere riverse sulle monete d’oro a cui tutto il male viene ricondotto (Radix malorum est Cupiditas).

2.10. Racconto dell’Apparitore e prologo[225]

Il Racconto dell’Apparitore è solamente uno sketch, poiché Pasolini ha riportato solamente la scena “dell’offerta” lasciata da Tommaso morente sulla mano dell’avido frate, tralasciando quella parte (invero un po’ stucchevole) in cui Chaucer si dilungava sul metodo escogitato per dividere (come era stato promesso) tra tutti i frati del convento quanto era stato donato dal malato.

Paradossalmente, ciò che rimane del racconto vero e proprio serve in realtà ad introdurre il Prologo sul viaggio del frate nell’oltretomba; nel primo infatti si delinea la personalità cupida e profondamente miscredente del frate, che poi si troverà a ricevere la visita, per lui davvero importuna e maleaccettata, del messo divino.

La stessa rappresentazione dell’inferno ha qualcosa di “empio” e di dissacrante; il messo divino non ha nulla di angelico, è solamente un ragazzaccio dallo sguardo ottuso al quale vengono appiccicate delle ali e a cui viene fatta ripetere (parafrasandola) una citazione dantesca completamente (e volutamente) fuori luogo:«È stato deciso così là dove si può ciò che si vuole e non chiedere di più!»; le torture ai dannati e i demoniacci multicolori[226], inoltre, appaiono connotate da una pesantezza “fisica” che fa svanire la delirante follia del modello boschiano, in favore della greve rappresentazione di un inferno stralunato che trova il suo culmine nel boato della scoreggia finale di Satanasso e nell’espulsione dei frati dall’ano del mostro.

Si è ben lontani dalla rappresentazione, teofanica e lancinante, del Giudizio giottesco del Decameron; mentre in quel caso l’artista sapeva ancora porsi di fronte alla pura sacralità dei corpi e delle cose, nei Racconti di Canterbury l’artista si ripiega su se stesso, sulla propria erudizione e sulla tradizione letteraria[227], ed inizia a percepire dietro l’angolo la scomparsa e il rifiuto di quei corpi e di quelle cose (l’abiura).


CAPITOLO IV

Il fiore delle Mille e una notte

1. Il florilegio sinfonico[228].

Mentre per i primi due film della Trilogia della vita è stato proficuo un confronto tra l’autore del testo letterario e il regista del film, nel caso delle Mille e una notte ci si trova, fin da subito, di fronte “all’impossibilità materiale” di un tale confronto. Come è noto, infatti, il novelliere non è frutto del lavoro di un unico autore, né tantomeno di un'unica età storica o di un’unica zona, bensì è il risultato di una lunga stratificazione e di una secolare rielaborazione in senso popolare di molteplici fonti appartenenti a diverse culture e a epoche diverse.

Su una base indubbiamente indiana[229], infatti, si innestano componenti persiane, irachene ed, infine, egiziane; in modo tale che alla disparità delle origini corrisponde una diversità degli stili, dei generi e persino degli esiti letterari. Le Mille e una notte - come è logico aspettarsi data la molteplicità degli strati, delle fonti e il diverso talento artistico dei vari (e anonimi) autori e rimaneggiatori – “sono un’opera composita e di diseguale valore, in cui accanto a parti eccellenti ve ne sono altre mediocri e altre insignificanti e scadenti[230]. A tale tendenza “disgregatrice” si contrappone, però, la valenza unificante ed assimilatrice che hanno avuto i secoli di tradizione e rielaborazione popolare; infatti, sempre il Gabrieli dice:

“Tanta e così disparata materia d’origine aria e semitica, indiana e iranica, mesopotamica ed egiziana (e potremmo anche aggiungere giudaica e sirio-cristiana, e perfino, in qualche parte più recente, occidentale), è livellata se non fusa sotto una patina unitaria, che le dà un aspetto letterariamente abbastanza uniforme.“ [231]

Inoltre:

“Questa patina conguagliatrice potremmo chiamarla assai più musulmana che araba, nonostante che la lingua sembri suggerirci quest’ultima denominazione. In realtà, il genuino spirito ed ethos dell’antico arabismo è estraneo alle Mille e una notte, per quanto in verso e in prosa esse volentieri parlino d’Arabi, di beduini, di deserti. (…) nel loro complesso le Mille e una notte sono il prodotto di una matura civiltà cittadina, etnicamente assai composita e lontana non solo dalla primitiva vita del deserto (gli Arabi beduini compaiono per lo più in veste di predoni e banditi), ma anche dalla grande storia dei primi secoli dell’Islam, dei califfi e delle conquiste, di cui nelle nostre novelle non restan più che vaghi anacronistici ricordi.” [232]

Il punto di vista espresso da questa civiltà cittadina, poi, è un punto di vista prevalentemente popolare; il mondo splendido e abbacinante dei palazzi principeschi, come quello popolato dalle apparizioni fantastiche dei ginn e delle fate, sono visti attraverso “gli occhi avidi e curiosi del popolo”, infatti:

“…appena si incrina la stilizzazione del fantastico e del meraviglioso, ecco far capolino l’autentica vita popolare di una metropoli medievale d’Oriente (…) i suoi veri protagonisti sono sensali, bagnini, cambiavalute, asinai e barbieri, sarti e tintori, cuochi e acquaioli che si urtano per la strada e il suq, si affollano nelle botteghe e i khan, ed intessono fra loro le trame delle novelle realistiche, o mettono tocchi di realismo nelle scialbe e monotone storie d’amore e avventura dei figli di re e dei magnati.” [233]

Per la prima volta, dunque, all’interno della Trilogia della vita e nel confronto con un testo carico dei secoli della tradizione letteraria, Pasolini si trova di fronte, in primo luogo, ad una “scomparsa dell’autore”, ad un suo dissolversi nelle mille mani e nelle mille bocche e orecchie della tradizione orale e scritta; quindi ad un venir meno di quel fecondo incontro tra due personalità e due sensibilità diverse (quella dell’Auctor e quella del regista) che aveva caratterizzato i primi due film, in favore di un’immersione nella magmatica e ribollente stratificazione di più epoche e di più culture che caratterizza il novelliere musulmano. Inoltre, in secondo luogo, nella scelta delle novelle che avrebbero composto la sceneggiatura del film, Pasolini non dovette operare una scelta paragonabile a quella fatta a suo tempo per il Decameron e per i Racconti di Canterbury, cioè non dovette ritagliarsi delle “sue” Mille e una notte epurandone gli elementi cortesi o borghesi in favore delle più schiette ambientazioni popolari. Infatti, come si è visto, tutte (o quasi tutte) le Mille e una notte possono essere considerate come riunite ed assimilate da una visione popolare “dal basso”; così il più umile dei mendicanti e lo splendido califfo Harún ar-Rashíd, passando per i mille mercanti ed artigiani che compongono il mosaico versicolore dell’opera, partecipano di una stessa cultura, uno stesso linguaggio, in un certo senso anche di una stessa dignità.

Questo non vuol assolutamente dire che, in occasione del Fiore delle Mille e una notte, Pasolini rinunci ad una “sua” visione dell’opera accettandone acriticamente i contenuti senza rielaborarli alla luce della propria sensibilità[234], ma che, nel porsi di fronte all’opera da trasporre cinematograficamente, il regista rinuncia a quella visione parziale e fortemente angolata che aveva contraddistinto il suo approccio a Chaucer e a Boccaccio, in favore di un approccio frontale che non trascura né privilegia nulla (almeno a priori). Ed è questo approccio che, secondo me, ha indotto Pasolini a preporre quel “Fiore” al titolo del suo film, poiché solamente l’opera tratta dalle Mille e una notte può essere considerata un’antologia esemplare[235] del novelliere a cui fa riferimento; mentre gli altri due film, pur ispirandosi ad opere relativamente meno vaste, ne escludevano elementi fondanti e cruciali (ad esempio l’epopea borghese del Decamerone e la forte componente moraleggiante ed esortativa dei Canterbury Tales).

1.0.  La struttura

“L’inizio del film è diventato graffiato e un po’ sommario anche perché ho tolto un quarto d’ora. Per esempio, alla scena della vendita della schiava, che è «rubata», ci arrivavi in un disegno più pacato, più costruito. Questo accorciare ha reso l’inizio più impressionistico. Nella seconda parte, e questo non è più casuale, scatta l’invenzione a scatole cinesi. Una serie di figure realistiche, che man mano vedi essere incastrate in altre figure realistiche, diventa serie di figure di finzione”[236]

Rintracciare le singole novelle su cui si basano gli episodi del film non è del tutto agevole. Innanzi tutto perché, come si vedrà fra poco, la struttura del film non è costituita, come nei primi due film, da una rigida successione di episodi a sé stanti, ma da un’elaborata struttura ad incastro di alternanze e di racconto nel racconto; in secondo luogo per la trasformazione e il riadattamento che subiscono singoli brani di novelle all’interno del film; infine, anche se hanno rappresentato una difficoltà minore, il cambiamento di molti nomi dei protagonisti e il ricorso sporadico (per alcuni aspetti marginali di alcune novelle) ad un testo diverso rispetto all’edizione Einaudi (che considero, come ho detto, l’edizione base[237]).

Il lungo episodio di Zumurrud e di Nur ed-Din è tratto dalla Storia di Alì Shar e della schiava Zumurrud[238], con l’aggiunta del piccolo aneddoto di Harún ar-Rashíd e le tre schiave[239] nella scena in cui Nur ed-Din viene massaggiato dalle tre ragazze che lo hanno sollevato con una carrucola, e con l’inserimento di una parte della Storia del facchino e delle ragazze[240] nelle scene del lavoro di Nur ed-Din come facchino e de “l’indovinello della piscina”.

Il gruppo dei tre piccoli episodi che hanno come elemento unificatore il sovrano Harún ar-Rashíd si rifanno rispettivamente (dal primo all’ultimo) alla Storia di Harún ar-Rashíd e di Zobeida[241], alla Storia di Abu Nuwàs e di Harún ar-Rashíd[242], e ad una novella che non compare nell’edizione Einaudi ma che si rifà, probabilmente, ad una parte della Storia del principe Camaralzaman che compare nelle edizioni[243] tratte dalla traduzione francese del Galland.

Infine, le storie di Tagi e di Azíz sono tratte (rispettando le modalità dell’inserimento dell’una nell’altra presenti nell’originale) dalla Storia dell’amante e dell’amato: Tagi al-Mulúk e Dúnya e dalla Storia di Azíz e Aziza[244], con l’inserimento dei racconti dei due monaci che in realtà appartengono alla già citata Storia del facchino e delle ragazze.

Come ho già accennato più sopra, è l’episodio di Zumurrud e di Nur ed-Din quello che in questo film ricopre la funzione di cornice unica, su cui si innestano “per geminazione” gli altri racconti che, a loro volta, ne generano altri; quindi, a differenza del macro-episodio dell’Allievo di Giotto nel Decameron che era legato agli altri episodi del secondo tempo da un rapporto “creatore-creazione”, gli intrecci tra “l’episodio-base” e gli altri si moltiplicano e diventano più intricati per la molteplicità dei piani narrativi e del rapporto “narrante-narrato”.

Ed è per questo motivo che ho definito come “sinfonico” (mutuando l’aggettivo – come ho detto – da un’affermazione di Lino Micciché) il florilegio che costituisce il film; infatti i rapporti e le cesure tra i singoli episodi - che possono permanere in sottofondo quando inizia la narrazione di un nuovo racconto, per poi ripresentarsi riprendendo il “il filo melodico” dove era stato interrotto[245] - possono ricordare in maniera affascinante le successioni e i ricorsi dei vari temi melodici all’interno dei movimenti di una sinfonia.

La struttura del film può essere riassunta in questo modo:

 

- Zumurrud e Nur ed-Din[246] I

 


- Zeudi e Harún ar-Rashíd

 

(Zumurrud legge a Nur ed-Din)                - Sium

 

- Bershame e Giana

 

 

- Zumurrud e Nur ed-Din II

 

 

 


- Dúnya

 

- Tagi I

(Azíz racconta a Tagi)        - Azíz e Aziza

(Munis legge a Nur ed-Din)

- Tagi II                                          - Shazaman

(I due monaci raccontano a Tagi)     

- Yunan

 

- Tagi e Dúnya

 

Zumurrud e Nur ed-Din III

 

 

Un altro elemento notevole del Fiore delle Mille e una notte rispetto agli altri film della trilogia è la mancanza del personaggio dell’Autore interpretato dal regista stesso. Apparentemente, questo sembrerebbe dovuto esclusivamente alla mancanza effettiva di un autore per tutte le Mille e una notte, quindi dell’impossibilità pratica di introdurre un personaggio simile al Pasolini\Allievo di Giotto o al Pasolini\Chaucer (e con le stesse valenze metafilmiche).

Ma questo non è del tutto vero.

Infatti a questo punto è opportuno fare una breve digressione sulla sceneggiatura originale e sul tipo di cornice e di struttura che Pasolini aveva, in un primo tempo progettato.

Il film si sarebbe dovuto aprire con delle riprese ambientate nel Cairo contemporaneo, “città immensa e informe, in cui la tradizione e la modernità si mescolano in modo caotico, come fango e polvere[247]; in questi squarci di una città del terzo mondo affacciata al mondo neocapitalista si aggirano quattro ragazzi, “giovinetti sottili come spade, e se non proprio «belli come lune», quasi[248] che si recano, infine, in un palmizio ai margini della città. In questo posto isolato, i quattro (Mohamed, Ahmed, Alì e Nur ed-Din) dapprima giocano una partita a pallone, quindi, continuando a parlare il loro “incomprensibile arabo”, si distendono all’ombra di un cespuglio di fichi d’india ed iniziano a masturbarsi:

“Infine, con un sorriso leggero, ma senza colpa, quasi come una abitudine, una segreta tradizione, Mohamed slaccia la cinta dei blue-jeans, e faticosamente, dalla cerniera rotta, tira fuori il suo membro già eretto, secco, pulito, potente. Anche gli altri, sempre parlando fra loro, a frasi interrotte, e con risa leggere, fanno come lui; e cominciano a godere da soli guardandosi l’un l’altro.

Mohamed si getta con la testa indietro, posando i ricci sulla terra rossa, e continua a masturbarsi, guardando in alto (nel cielo spietatamente azzurro, dove esalano i rumori volenterosi della città, e le sue musiche ingenuamente strazianti dai motivi eternamente uguali).

Gli occhi di Mohamed, neri e opachi che sembrano effondere la loro luminosità nella pelle trasparente, sono fissi i un’immagine. Un’immagine ricca e immobile come un cristallo.” [249]

E in questo momento inizia la “visione di Mohamed”, ovvero il primo episodio del Fiore delle Mille e una notte. Tutti gli episodi del primo tempo, infatti, dovevano essere introdotti come visioni, come apparizioni dei fantasmi di un’epoca remota che si presentassero agli occhi “fissi e concentrati nel vuoto” di ciascuno dei ragazzi.

In questo progetto della cornice del primo tempo del film, si sarebbero presentati, con ugual forza e uno di fianco all’altro, gli elementi e i simboli su cui si è visto essere fondata tutta la Trilogia della vita[250]: il rapporto antitetico ed esorcizzante nei confronti della cultura (o postcultura) e del mondo neocapitalista (rappresentato dal Cairo moderno), ma anche l’angosciata e disperata constatazione della irrimediabile “vittoria” e “colonizzazione” di questo mondo ai danni del retaggio secolare della cultura del popolo (i jeans che avvolgono i corpi dei “giovinetti sottili come spade”); il recupero del mondo scomparso attraverso il sogno, la visione, ma, soprattutto, attraverso la centralità assoluta di quel “membro già eretto, secco, pulito, potente” visto come il  simbolo per eccellenza del corpo e della sessualità.

Inoltre, Pasolini aveva progettato di collocare al centro del film un lungo intermezzo basato sul gruppo di novelle appartenenti alla Storia del sarto, del gobbo, dell’ebreo, del soprintendente e del cristiano[251], novelle che, come si è visto, non sarebbero comparse nella versione definitiva del film.

Ma è nel progetto di sceneggiatura del secondo tempo su cui si addensano i motivi di maggior attenzione, e di maggior fascino.

Nel prologo di questa parte del film, sarebbero ritornati i quattro ragazzi del primo tempo che, ancora discinti, stanno distesi all’ombra del palmizio mentre il sole sta lentamente calando. Nella descrizione del regista si delinea con più nettezza il panorama della periferia della città moderna (così simile ma anche così straziantemente diverso dalle borgate romane degli anni Cinquanta):

“Il sole è calato un po’, la sua luce, più radente, illumina il povero palmizio, coi mucchi di rifiuti, e le casupole di periferia, di una molle luce rossastra.

Più acuti e accorati giungono i suoni dei clacson e le canzoncine della radio: coperti per qualche istante dal rombo di un aereo che solca il cielo azzurro, così azzurro da sembrare irreale, come il cielo di un mosaico o di una miniatura”[252]

Quand’ecco che si avvicina al palme si avvicina uno straniero “che si aggira come se cercasse qualcosa, o osservasse qualcosa con assorto interesse”, è l’autore del film che, grazie ad alcuni particolari inconfondibili, si deduce sarebbe dovuto essere impersonato da Pasolini stesso:

“È l’autore del film, vestito del resto quasi come i quattro ragazzi cairoti. Egli cammina eccitato e assorto. Guardando intorno a sé così avidamente che quasi ha un’espressione stanca e esausta nel viso.

A un tratto tira fuori un bloc-notes a quadretti, da poche lire, e prende disordinatamente appunti indecifrabili, buttati giù con nervosismo esaltato.

Poi gira ancora intorno il suo volto magro e il suo sguardo febbrile.”[253]

Tipico di Pasolini è anche il dialogo che, di lì a poco, l’autore instaura con i ragazzi, chiedendo ad ognuno il lavoro che fa; quando però la domanda gli viene rivolta da uno dei ragazzi, ecco che inizia la parte più scopertamente metafilmica della sceneggiatura originale e, se Pasolini l’avesse mantenuta nel film, di tuta la Trilogia della vita:

“L’autore allora accarezza anche il più grande, Nur ed-Din sulla cadopa nera.

Nur ed-Din (accettando la carezza): E tu, che lavoro fai?

Autore: Lo scrittore…

I ragazzi lo guardano ammirati.

Nur ed-Din: E che cosa scrivi?

Autore: Poesie, racconti…

Nur ed-Din: E di che cosa parlano?

Autore (sorridendo): Di niente: sono fiabe!…”[254]

A questo punto inizia una vera e propria dichiarazione di poetica, in cui risuonano (un po’ forzatamente) le argomentazioni del regista attorno all’impegno e al ruolo dell’artista nella società (e con una punta – ironica - della polemica “anti-neo-zdanovista”):

“Poi li guarda un po’, come scrutandoli, oppure come se li conoscesse da sempre.

Autore: Voi pensate che uno scrittore debba solo scrivere cose che aiutino il popolo nella sua lotta?

Nur ed-Din: Sì!

Autore: Siete tutti d’accordo su questo?

Anche gli altri acconsentono, con dignità e con timidezza.

Autore: Ma voi pensate che… mettiamo, anche un feddayn che fa la guerra… durante le pause della guerra… col fucile tra le gambe… non abbia diritto a sognare o ad ascoltare anche storie che non riguardano la sua lotta?

I ragazzi sono incerti, non capiscono bene il problema, e aspettano…

Allora l’autore, sorridendo, come scherzando con loro, fa un gesto retorico, che non farebbe mai se non sorridendo e scherzando: alza il pugno chiuso.

Autore: Io sono comunista, e nella vita sono insieme con gli operai che lottano per la loro libertà e i loro diritti.

Però non posso per questo rinunciare alla mia libertà e al mio diritto di raccontare fiabe!

I ragazzi sorridono, comprendendolo abbastanza, e assentendo…

(…)

L’autore resta sempre, scherzoso, col pugno chiuso teso in alto…

Autore: E raccontando le mie libere fiabe, non voglio scandalizzare solo i piccolo-borghesi, ma anche i piccolo-borghesi comunisti!

(…)

Autore: I giovani che disapprovano da sinistra il sesso e la gioia di vivere sono figli dei vecchi che li disapprovano da destra…

(…)

Autore: Bisogna avere la libertà di raccontare storie politiche, non l’obbligo di raccontare storie politiche!”[255]

Dunque, in queste parole, si ha il riconoscimento della propria matrice politica (sicuramente scherzoso ma senza aver portato l’antifrasi fino in fondo) fatto attraverso il gesto del pugno chiuso e il ricorso ad una affermazione intrisa (forse anche qui un po’ scherzosamente) dalla “pura luce” degli anni Quaranta (“Io sono comunista, e nella vita sono insieme con gli operai che lottano per la loro libertà e i loro diritti.”); ma, accanto a questo, si ha anche la rivendicazione della libertà dell’artista e, soprattutto, la constatazione che, accanto ai soliti piccolo-borghesi, ora sono sorti i piccolo-borghesi comunisti, ugualmente da scuotere e da scandalizzare attraverso il sesso e la gioia di vivere presenti nell’opera dell’artista.

Finita questa parte che, come si è visto, è quella più esplicitamente connotata dal punto di vista metafilmico e programmatico, inizia una parte in cui le ragioni della poetica tornano ad essere meno scoperte, ma non per questo meno forti (anzi), calandosi all’interno di quel linguaggio delle cose, dei gesti e dell’eros che Pasolini individuava (nel bene e nel male) come il più forte e pregnante[256]:

“[subito dopo la fine delle enunciazioni suddette] È indubbiamente un grido conclusivo. E tutto scende ilarmente di tono, alle cose normali e sempre leggermente peccaminose della vita.

Autore (a voce bassa e con tono leggero): Come vi chiamate?

Ragazzi: Mohamed… Ahmed… Nur ed-Din… Alì…

Autore: Come siete belli! Uno più bello dell’altro!

E accarezza con ancora maggiore tenerezza la lieve guancia bruna e imberbe di Alì, stringendoselo un po’ a sé. Alì lascia fare come un innocente cucciolo.

Ma l’autore si rivolge per primo al più grande, Nur ed-Din, e, forse con un po’ di batticuore, gli chiede:

Autore: Nur ed-Din, posso darti un bacio? Vuoi?

Nur ed-Din trova la cosa naturale, e sorride socchiudendo gli occhi e stringendo la testa appena tra le spalle, come a dire: «Eccomi qua!».

L’autore si stacca da Alì, e si avvicina a Nur ed-Din, lo prende per le spalle, lo rovescia appena sulla polvere rossa, e posa le labbra sulle sue labbra carnose: dapprima leggermente, poi premendo sempre più forte. Nur ed-Din chiude gli occhi.”[257]

E su questo bacio tra l’autore e il ragazzo si sarebbe inserita (come una visione di quest’ultimo) la novella di Zumurrud e Nur ed-Din, alla cui fine si sarebbe ritornati al palmizio alla periferia del Cairo per un nuovo bacio ad un altro ragazzo e per l’inizio di un nuovo episodio; in modo tale che queste inquadrature avrebbero costituito (analogamente a quelle delle masturbazioni del primo tempo) una sorta di proto-cornice al film.

Anche questa volta la visione trasognata della novella delle Mille e una notte è legata al motivo erotico, ma ad esso si aggiunge la presenza (al tempo stesso affascinante e inquietante) dell’autore “reale” del film.

In questa presentazione, incontestabilmente intrisa di dichiarato e coraggioso[258] autobiografismo, di uno dei probabili incontri di cui era colma la vita di Pasolini, si manifestano soprattutto (aldilà dell’autobiografia, ma senza ignorarla) elementi significativi dal punto di vista dell’espressività artistica. L’autore, infatti, conosce e può recuperare alla sua arte il mondo di cui piange la scomparsa, immergendosi nell’esistente, ricercando e “vivendo su di sé” ciò che ancora rimane al di fuori del nuovo mondo (quest’ultimo rappresentato simbolicamente dal Cairo nuovo che si allunga verso la periferia, con i suoi clacson e i suoi aerei).

Di questa cornice, nel film, non è rimasta alcuna traccia evidente, forse perché la presenza di un Autore così nettamente definito sarebbe risultata pesante nei confronti dell’economia del film e avrebbe costituito un’inutile zavorra per quel lieve gioco di sogni che è Il fiore delle Mille e una notte; io ho preferito comunque riportarne le caratteristiche e i motivi perché in essi risiedono molte chiavi interpretative del film e della trilogia.

2. La folle umanità del potere e la liberazione del sesso[259].

Nei capitoli prercedenti si è tentato di dimostrare come, soprattutto nei Racconti di Canterbury, alla presenza e all’azione del potere nella storia, corrispondesse una tendenza corruttrice e degradante che agiva sul rapporto dell’individuo con il proprio corpo e con la propria sessualità, facendo assumere a questo rapporto l’aspetto di una manifestazione del potere stesso, con le sue violenze, le sue prevaricazioni, le sue castrazioni, la sua irrealtà.

Nel Fiore delle Mille e una notte, invece, questa incombente presenza carica di presagi ferali (si era parlato di un’anticipazione di Salò) sembra scomparire del tutto, lasciando il posto in favore di un diverso tipo di potere che, invece di rappresentare un “altro” irreale e distruttivo, partecipa della stessa realtà delle cose, degli uomini e dei corpi, e non ha più, verso quest’ultimi, una valenza nevrotizzante o repressiva.

Questo tipo di potere, in quanto espressione della stessa cultura barbarica del popolo a cui è applicato (e non più, quindi, antagonista implacabile e dalle aspirazioni egemoniche su questa cultura), può manifestarsi anche con crudeltà e dispotismo (vedi, ad esempio, le due spietate crocifissioni ordinate da Zumurrud\Wardan), ma senza mai venir meno a quella concezione sacrale della vita (e della morte) su cui questa cultura si fonda; in poche parole la violenza, la tortura, persino l’assassinio non implicano mai la dissacrazione del corpo e la sua riduzione a vile merce di scambio o a materia inerte nelle mani del potere[260] (Salò).

Quanto ho appena detto risulta evidente se si prende in considerazione il gruppo di piccoli episodi che può essere chiamato, riassuntivamente, come “gruppo di Harún ar-Rashíd” e di cui fanno parte le tre novelle, legate tra loro, lette da Zumurrud a Nur ed-Din nella prima parte del film.

In questi tre episodi, ambientati in un’Etiopia annegata nel sole subequatoriale, il potere barbarico e astorico di cui si è parlato si manifesta nella persona di Harún ar-Rashíd[261], il sovrano perennemente sorridente che nel primo episodio, mentre si avvicina di soppiatto per spiare Zeudi che fa il bagno, sembra un vecchietto spiritato tutto preso dal suo folle e gioioso desiderio del corpo della moglie. Questa gaia follia sembra essere il tratto distintivo del sovrano, sembra guidare i suoi innocui capricci, la sua insaziabile curiosità, e fanno ritrovare al potere una qualità che gli era finora sconosciuta: l’umanità[262].

Umanità del potere che non si limita al solo ritratto di Harún ar-Rashíd, ma può essere estesa a tutti i sovrani che compaiono all’interno del Fiore delle Mille e una notte (il padre bonario di Yunan e il re che ospita Shazaman trasformato in scimmia); così come il suo aspetto folle, leggero, demistificatorio (e demistificato) che ritorna, ad esempio, nella processione in pompa magna per la presentazione a corte della scimmia, oppure alle risate che accompagnano il disvelamento (dagli ingombranti ornamenti regali) del corpo nudo di Zumurrud\Wardan ad Hayat, la sua novella sposa[263], eccetera.

Di pari passo con questa trasformazione radicale del potere, procede una conquista che fin’ora era anch’essa ignota, la conquista del corpo e la liberazione del sesso, in particolare della sessualità omosessuale. Il fiore delle Mille e una notte, infatti, più che per l’amore eterosessuale pieno e pacificato di Zumurrud e di Nur ed-Din o di Tagi e Dúnya[264], si distingue dagli altri due film della trilogia per i rapporti omosessuali finalmente liberati dalla cappa ossessiva del peccato (Ciappelletto) e della repressione (il Racconto del Frate). Difatti, già nel Decameron, l’amore eterosessuale poteva realizzarsi compiutamente al di fuori di ogni nevrosi; mentre è solo nell’ultimo film della Trilogia della vita che l’omosessualità può raggiungere questa pienezza e riassaporarne la realizzazione[265].

Le parti del film in cui il rapporto omosessuale viene trattato esplicitamente sono in tutto quattro, ma di queste solo due sono in qualche modo significative.

La prima è la piccola storia del poeta Sium (nell’originale Abu Nuwàs) che invita tre giovani ad un banchetto nella sua tenda (“Mangiamo, beviamo, poi voi riprendete piacere l’uno dall’altro e, se volete, tutti insieme date piacere a me”); ma, mentre nel testo delle Mille e una notte l’allegro banchetto veniva interrotto dal sopraggiungere sdegnato di Harún ar-Rashíd (che poi avrebbe minacciato di condannare a morte il poeta), nel film il sovrano non compare e l’episodio rimane come sospeso nella contemplazione del sereno godimento di Sium.

Questa mancanza dell’arrivo di Harún ar-Rashíd (quindi questa mancanza del momento repressivo del potere) conferma quanto si è detto a proposito della liberazione del sesso e della piena realizzazione dell’omosessualità.

In questo episodio, inoltre, nel personaggio del poeta Sium, sembrerebbe ritornare in germe – e come fantasma – la figura del regista che, come si è visto, era presente nella stesura della sceneggiatura originale; basti pensare alla scena dei baci e delle poesie dedicate ai tre giovani che potrebbe ricordare le scene analoghe dei baci all’ombra del palmizio che erano previste nel progetto originario del film; ma, soprattutto, ci si dovrebbe soffermare su una battuta del poeta:

Sium: Ehi voi, ragazzi! Posso leggervi questi miei versi? Li ho scritti tanti anni fa quando ancora ero giovane quasi come voi: (apre un libro e legge) «Un annoso vecchio con voglie giovanili ama i bei ragazzi, ha la passione dei divertimenti. Si alza la mattina nello spirito di Mossul!. Ah, città della purezza! Ma non sogna altro tutto il giorno che la vita peccaminosa di Aleppo!

La battuta non è interessante per la poesia in sé, che non è invenzione pasoliniana ma è presa dal testo del novelliere, ma per il fatto che questi versi, introdotti come “scritti tanti anni fa quando ero giovane quasi come voi”, ricordino nel loro contrasto tra purezza e peccato molte composizioni di Poesie a Casarsa (scritte, appunto, in gioventù), tra cui:

“Ciantànt al mè spiéli
ciantànt mi petèni…
al rît tal mè vùli
il Diàul peciadôr.

Sunàit, més ciampànis
paràilu indavòur
(…)

Cantando al mio specchio, cantando mi pettino… - ride nel mio occhio – il diavolo peccatore – suonate mie campane – cacciatelo indietro…”

Il secondo[266] momento in cui si ha la rappresentazione di un rapporto omosessuale è all’interno dell’episodio di Yunan (uno dei due monaci che lavorano al mosaico nel giardino di Dúnya) quando il giovane incontra il ragazzo nascosto sottoterra, e fa un bagno insieme a lui per poi addormentarcisi insieme. Il fatto che Yunan, in seguito, accoltelli nel sonno l’amico appena incontrato, non deve essere considerato come una negazione della felicità del rapporto o della possibilità della sua realizzazione; ma solamente come un realizzarsi dell’ineluttabilità di un tragico destino avverso. Se l’appagamento sessuale è solo sfiorato, o toccato per qualche istante, per il sopravvenire della morte, esso rimane intatto e autentico, e quindi non represso né degradato, nella pura bellezza del corpo di Yunan più volte inquadrato (quasi a volerlo preservare) nella fissità dell’inquadratura frontale.

Un’ulteriore ritorno del tema dell’omosessualità (seppur all’interno di una beffa) si ha alla fine del film, quando Zumurrud travestita da re Wardan fa credere a Nur ed-Din di voler avere con lui un rapporto contro natura; alle iniziali comiche schermaglie del ragazzo segue, dietro scherzosa minaccia di morte della ragazza, l’altrettanto comico cedimento rassegnato alla volontà del sovrano, che ben presto rivela la propria identità facendosi toccare il pube. Se, da un lato, sembrerebbe esserci una contaminazione tra coercizione e omosessualità[267], la rivelazione e le risate finali alleggeriscono immediatamente il racconto, e permettono al film di chiudersi, all’insegna del ritrovamento e della consolazione, con il sospiro di Nur ed-Din: «Che notte! Dio non ne ha creato di eguali! Il suo inizio fu amaro, ma come dolce la sua fine!»

3. Leggerezza e Fedeltà.

“La fedeltà è un bene, ma è un bene anche la leggerezza.”

Questa frase non compare nel testo delle Mille e una notte, dove la parole pronunciate salvifiche dette da Azíz a Budur la pazza[268] sono un banale: “La fedeltà è buona e l’inganno è cattivo”; ma, d’altro canto, la frase è assente anche nella sceneggiatura originale, dove si legge: “La fedeltà è bene, la leggerezza è male”, dunque la sistemazione definitiva di questa frase, nella forma con cui compare nel film, deve essere avvenuta in un momento ulteriore del lavoro pasoliniano.

Questo vuol dire che, almeno in una fase preliminare, il rapporto tra leggerezza e fedeltà – che, in un certo senso, informa tutto l’episodio (e forse tutto il film) svelandone il significato e la morale interna – non era ancora un rapporto complementare (seppur di una complementarietà che sfiora l’ossimoro) ma era tutto giocato su una netta opposizione tra le due qualità. Di questa “tardiva modificazione” del testo delle Mille e una notte bisogna, dunque, tener conto qualora si voglia interpretare l’episodio ed analizzarne le dinamiche interne.

All’interno del racconto la fedeltà è chiaramente impersonata da Aziza - che nasconde il suo divorante amore per il cugino e la lenta morte a cui questo la conduce, per aiutarlo a conquistare Budur e ad essere felice - mentre la leggerezza si manifesta, altrettanto chiaramente, nel comportamento di Azíz, che si macera nell’amore per la bella sconosciuta e persegue ansiosamente il suo sogno, senza accorgersi minimamente delle condizioni della cugina.

L’indifferenza di Azíz, però, non è così candida come apparentemente potrebbe sembrare, ma risponde ad una precisa scelta morale: Azíz, in realtà, decide consciamente di fingere di ignorare l’amore di Aziza e di lasciarla a struggersi nella propria sofferenza. Illuminante, a tal proposito, è una scena che altrimenti apparirebbe piuttosto enigmatica. Azíz è appena ritornato da un ennesimo incontro con Budur e trova inaspettatamente sua madre:

Azíz: Dov’è Aziza?

Madre: È su in terrazza, tutta sola, che piange.

Azíz (meravigliato): Cos’ha?

Madre: Ma che cuore hai di lasciarla così, senza nemmeno chiederti di che male soffre!

Azíz resta per un attimo sovrappensiero, poi esce correndo in terrazza.

Come vede Aziza, Azíz fa finta di ignorarla. Si siede col viso rivolto verso i tetti della città.

Aziza (dolcemente): Azíz! Azíz! Allora Azíz, le hai recitato quei versi? [si riferisce a quei versi che Aziza chiede, ogni volta, ad Azíz di ripetere a Budur]

Azíz: Sì! E lei mi ha risposto con questi versi: «Chi ama deve nascondere il proprio segreto e rassegnarsi».

Aziza (chinando la testa come se proseguisse il discorso): «Egli ha cercato di rassegnarsi, ma non ha trovato in sé che un cuore disperato dalla passione». Domani mattina, quando la lasci, recitale i versi che ho detto ora. Hai capito?

Azíz: Sì… sì…

L’attimo in cui Azíz resta pensieroso, e il modo quasi risentito con cui sopravanza Aziza e va a sedersi sul limite della terrazza per gettare uno sguardo panoramico sulla città, tradiscono la “malafede” del giovane e la mancanza di innocenza da parte della sua leggerezza.

Ma questa leggerezza, comunque, è fonte di bellezza, è fonte di grazia e permette ad Azíz, quando Budur decide di ucciderlo, di salvarsi la vita per ben due volte (anche se la seconda gli costerà la perdita della virilità).

A questa leggerezza, come si è detto, ribatte la fedeltà disumana di Aziza, che immola se stessa nel tentativo di appagare il desiderio del cugino per la bella sconosciuta. Nel suo sentimento assoluto e silenzioso, e nella struggente mansuetudine delle sue azioni, Aziza ricorda il personaggio di Lisabetta del Decameron; come per la ragazza innamorata di Lorenzo, infatti, il pianto di Aziza rimane concentrato e nascosto nella limpidità dei suoi occhi azzurri, e nella lucida constatazione (liricamente intensissima) di quel “Io morirò” pronunciato, con voce sommessa ma chiara, mentre sta vegliando sul sonno di Azíz.

Questo discorso sulla fedeltà e sulla leggerezza si complica ulteriormente se ci si sofferma a pensare, anche per un attimo, che la parte di Azíz è interpretata da Ninetto Davoli; e se si ricordano i versi (già citati, a proposito dell’episodio del Racconto del Cuoco nel capitolo precedente) di due sonetti scritti solo pochi mesi prima delle riprese del Fiore delle Mille e una notte[269]:

             (…)
Siete o non siete un altro, mio tremendo

Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.

                (…)”

 

             (…)
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n’è rimasto

un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.”

È davvero piccolo lo sforzo che si deve fare per immaginare questi versi pronunciati dalla piccola Aziza, così come compare all’interno del film; e altrettanto piccolo è lo sforzo che occorre per vedere in quel “tremendo Signore che non sa cosa gli capita” e che, “leggero”, distrugge “gaiamente” quell’amore “così casto”, il ritratto di Azíz che, gaio e nel contempo crudele (perché non innocente), è trascinato via prepotentemente dal desiderio per Budur.

Ma mentre nei Racconti di Canterbury Pasolini aveva interposto tra sé e Ninetto lo schermo codificato della citazione chapliniana, in questo caso il regista riesce ad affrontare senza filtri interposti la materia del racconto, e ad approdare al lucido e sublimato riconoscimento che, se la fedeltà è un bene, allora lo è anche la leggerezza; e, dunque, se è vero che Ninetto ha scelto di “obbedire” - come dice Pasolini rivolgendosi a lui in un sonetto qui non riportato[270] - a un destino che vi vuole povero”, è altrettanto vero che non è “scomparso dalla vita” del poeta, ma gli rimane accanto con la sua “lieve gaiezza” così diversa, ma anche così necessaria, alla “fedeltà” pasoliniana verso “quel nostro amore così casto”.

Sotto il segno duplice della leggerezza e della fedeltà (ma solo fino a un certo punto) può essere vista la vicenda di Zumurrud e Nur ed-Din; infatti, alla costante resistenza che la ragazza oppone a chi vuole dominarla e possederla, sembrerebbe contrapporsi la leggerezza di Nur ed-Din nel soddisfare le richieste delle donne che incontra nel suo peregrinare in cerca dell’amata schiava. Dico “sembrerebbe” perché le azioni dei due giovani sono, in realtà, guidate dal diverso e contrario presentarsi della fortuna e dal diverso atteggiamento richiesto da ciò che è tratto in sorte. Zumurrud, infatti, deve continuamente affrontare personaggi o situazioni ostili: il furioso Rashid, Giawan il ladro curdo, il pericolo di essere uccisa qualora venisse scoperta la sua reale identità quando si spaccia per Wardan, eccetera; mentre tutti gli incontri che fa Nur ed-Din (a parte il malvagio Barsum il cristiano all’inizio dell’episodio) sono di donne benefiche che lo aiutano nella sua ricerca di Zumurrud o che lo accolgono quando è prostrato dalla stanchezza e dalla sofferenza. Il rapporto sessuale con queste è visto come un gioioso ringraziamento e un temporaneo risollevamento dell’animo a cui segue, ben presto, l’angoscia per la mancanza dell’amata.

Significativo, in tal senso, è un brano della sceneggiatura originale, in cui si descrive il risveglio di Nur ed-Din dopo l’amore con Munis e le sue sorelle:

“Dopo l’amore si sono addormentati. Anche Nur ed-Din: ma solo per poco.

Infatti quando è ancora buio e non si sentono più rumori, si sveglia d’improvviso come per un cattivo sogno.

Si guarda intorno. Vede le tre donne addormentate. Vede il suo corpo nudo, i suoi vestiti sparsi per la stanza. L’ubriachezza gli è passata, il sogno è finito ed egli si mette a piangere.

Si alza, afferra i suoi vestiti, se li infila in fretta e furia e scappa fuori singhiozzando e chiamando a voce alta Zumurrud.”[271]

La leggerezza di Nur ed-Din, dunque, è molto relativa e i suoi numerosi incontri sessuali (per altro assenti nel testo delle Mille e una notte) non sono altro che delle tappe verso la sua fedele ricerca della schiava amata solo per una notte.

La fedeltà di Zumurrud, d’altro canto, è resa live dalla prontezza d’animo con cui risponde ai mutamenti della sorte; basti pensare, ad esempio, al mutamento repentino che avviene sul suo viso quando, portata da Giawan al covo dei ladri, il suo rapitore si allontana lasciandola sola con l’anziano padre dei curdi: solo un attimo prima coperta dalle lacrime, solleva il volto sorridente (per ingraziarsi il vecchio) e dice: «Scommetto che hai la testa piena di pidocchi… eh? Se vuoi, ti spidocchio un po’ Vuoi? Eh? Vuoi?»; oppure si pensi al dialogo che intrattiene (spacciatasi per un uomo) con il Visir della città in mezzo al deserto, quando questi gli chiede di sposare la figlia:

Zumurrud sta per passare la soglia del palazzo, quando viene fermata dal Visir.

Visir: Prima di essere incoronato, dovrai prendere moglie. Eccola lì, mia figlia. (la indica)

Zumurrud (imbarazzatissima): E chi ti ha detto che ho voglia di prendere moglie?

Visir: L’usanza vuole così. Se disobbedisci sarai gettato dall’alto della torre.

Zumurrud (convinta): Allora sia fatta la volontà di Dio!

Si può dire, dunque, che nell’episodio di Zumurrud e Nur ed-Din il rapporto dialettico e complementare tra leggerezza e fedeltà si complichi ulteriormente intrecciandosi profondamente alle figure dei due protagonisti, secondo le modalità tipiche della sineciosi pasoliniana:

“La libertà sessuale è necessaria alla creazione? Sì. No. O forse sì. No, no, certamente no. Però… sì. No è meglio no. O sì? Ah, incontinenza meravigliosa! (Ah, meravigliosa castità.)”[272]

4. La dimensione onirica e fantastica[273].

“[parlando del Fiore delle Mille e una notte] Il film che ne è venuto fuori è l’unione di due elementi che ci sono anche nel libro, ma che io ho un po’ occidentalizzato: realismo e visionarietà. C’è tanta polvere, ci sono tante facce povere, ma c’è anche un ritmo ampio, l’illimitatezza dei sogni”[274]

“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni”

Nella citazione da Le mille e una notte posta, da Pasolini, nei titoli di testa del film, si delinea un altro aspetto fondamentale del film: l’importanza del sogno, e il continuo ricercare la verità da un sogno all’altro.

Se, su un piano più ampio, tutti gli episodi del film (anche quelli, per così dire, “realistici”) possono essere considerati dei sogni, delle visioni di un mondo ormai perso irrecuperabilmente[275], ciò che interessa ora è analizzare il rilievo che hanno i sogni, nel senso proprio e ristretto del termine, nell’economia interna dell’opera.

La vicenda sognata di una colomba che muore da sola dopo aver liberato un compagno dalla rete, ad esempio, guida le azioni della bella Dúnya che rifiuta di prender marito per aver constatato, proprio attraverso la visione, quanto sia fallace la fedeltà degli uomini. Cambierà idea solamente quando il suo sogno verrà completato[276] dalla nuova visione che prende vita nel mosaico, fattole costruire da Tagi, che le appare nel padiglione del suo giardino.

Le scene che seguono questa “rivelazione”, le lunghe sequenze silenziose dell’amore tra Dúnya e Tagi, conservano, nella loro limpidezza sospesa, il sapore del sogno della ragazza[277] che trova il suo centro onirico, ancora una volta, nell’immagine consueta del pene del ragazzo accanto al quale, significativamente, la ragazza si addormenta felice.

Un altro episodio in cui le immagini del rapporto sessuale appaiono distillate in un’atmosfera onirica, è quello di Azíz e Aziza, dove si hanno le scene, accumulate e ripetute, degli incontri amorosi tra Azíz e Budur la pazza. Queste immagini, che apparentemente sembrerebbero sondare estenuantemente le possibili varianti del rapporto erotico, in realtà debbono essere viste come una celebrazione del rapporto sessuale attraverso la citazione e la codificazione colta. Infatti, stando alla sceneggiatura originale, queste immagini (in particolare quella di Azíz che lancia una freccia a forma di fallo nella vulva della donna) dovevano appartenere all’orgia che il padre di Yunan preparava per il figlio nel tentativo di dissuaderlo dal viaggio in mare; quest’orgia, nello testo pasoliniano, è descritta come una rappresentazione a metà tra lo spettacolo e il rito iniziatico di matrice religiosa, mentre le scene di sesso sfrenato sono mutuate dalla produzione miniaturistica e scultorea indiana:

“Yunan coi suoi abiti preziosi, che lo rendono bello come un Dio, è seduto su uno sgabello, con accanto un giovane schiavo e una giovane schiava che lo servono, baciandolo e accarezzandolo. Intorno c’è la sua piccola corte.

Davanti a lui si svolge l’orgia, che il visir ha preparato come uno spettacolo o una funzione sacra. I musici suonano infatti una musica che potrebbe essere orgiastica ma potrebbe anche essere sacra.

Una trentina di coppie si congiungono davanti agli occhi del principe, nei modi più folli e impensati: così come esse sono rappresentate nelle miniature indiane o nelle sculture dei templi di Kajurao o di Madras.

Sono coiti di uomo e donna, di uomo e uomo, di donna e donna. Ma ci sono anche coiti bestiali: un cavallo, un asino, un orso possiedono donne e ragazzi.

Ma tutto avviene in una eleganza e in un raccoglimento di azione rituale.

Una donna vestita di abiti d’oro è in ginocchio, con un arco e una freccia: sulla punta di questa freccia è fissato un fallo di legno dipinto. Un’altra donna vestita d’oro è accanto a lei, col ventre scoperto e le gambe alte: con le mani sotto le cosce, essa si apre il sesso, perché la donna con l’arco possa scoccare la freccia e infilarle il fallo nel ventre.”

Pure se ci si trova di fronte ad una rassegna di tutti gli eros possibili, quanto appaiono distanti i perversi cataloghi sadiani dei quattro signori di Salò!

Il fatto di avere accennato sommariamente alla vicenda di Yunan, offre il destro per parlare del ruolo che ricopre il sogno e la visione all’interno di questo episodio.

Mentre nel caso di Dúnya il destino parlava alla protagonista attraverso le immagini, nel caso di Yunan le rivelazioni giungono, mentre questi tiene gli occhi chiusi, portate da una voce fuori scena[278] che, dapprima, gli ordina di partire per mare, quindi gli descrive il modo per abbattere il soldato di bronzo. Gli occhi chiusi, infatti, sono il motivo dominante di questo episodio; tutte le azioni decisive e scritte nel destino del giovane sono compiute come in uno stato di sonnambulismo, di veglia apparente; si pensi ad esempio alla scena dell’accoltellamento del ragazzo appena incontrato, sulle immagini dell’uccisione è sovraimpressa (espediente tecnico usato da Pasolini assai di rado) l’inquadratura in dettaglio degli occhi di Yunan immersi nel sonno, come per esprimere il dominio assoluto che ha la visione onirica sulle azioni cui il giovane era predestinato.

Accanto alla dimensione onirica, anche il fantastico ha un ruolo all’interno del film. Questo risulta evidente nell’episodio raccontato da Shazaman.

L’apparizione di un ginn, il volo sul deserto, la metamorfosi in scimmia, l’incantesimo liberatorio pronunciato dalla principessa Ibriza, tutti i motivi del meraviglioso appaiono concentrati in quest’episodio, accanto ai temi consueti del sesso e della tragicità dell’amore[279]. Ma questi motivi, in realtà, appaiono piuttosto estranei ed accessori nei confronti del nucleo centrale del racconto; sembrano più un omaggio stilizzato all’universo fantastico delle Mille e una notte.

Infatti gli elementi di principale interesse dell’episodio sono si stringono attorno all’intensità drammatica della scena della mutilazione della ragazza e alla figura del demone interpretata (ovviamente) da Franco Citti. Ancora una volta, infatti, il personaggio interpretato dall’attore romano appare come uno dei più nettamente delineati e dei più affascinanti del film. Un demone fosco e spietato, dall’aspetto terribile e vagamente zingaresco, doppiato con la stessa voce baritonale dalla vaga calata emiliana che aveva il Diavolo nel Racconto del Frate; si aggira per la città in cerca di Shazaman come un lucido assassino che insegua la sua vittima, tenendosi un velo tra i denti[280] e brandendo davanti a sé le scarpe del “traditore”, come se fossero la sentenza di una spietata condanna.

Ma, come il Diavolo del Racconto del frate poteva commuoversi ed essere giusto nelle proprie azioni o come Ciappelletto poteva sacrificarsi in punto di morte per il bene dei due usurai, così il demone del racconto di Shazaman, pur se metodicamente e barbaramente crudele nel punire la ragazza, conserva un certo senso della giustizia e conserva la vita al giovane (trasformandolo, però, in scimmia) non avendo la prova certa della sua colpevolezza.

Anche in questo caso si è ben lontani dalla cieca anarchia del potere (l’unica autentica anarchia) che vige nella villa chiusa di Salò, dove viene creato un codice di leggi con il proposito perverso di seguirne la lettera e, nel contempo, di sovvertirla continuamente.


CAPITOLO V

La Trilogia della vita

1. Il Genocidio[281], l’Abiura e Salò.

“Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono i lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. […] Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica  e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio – dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare.”[282]

“Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi[283] identici atti, hanno lo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968.”[284]

“Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo.”[285]

In questi tre interventi, di tono e di umore diverso, prende forma quello stadio ulteriore della maturazione del pensiero ideologico pasoliniano, che vede nel “genocidio culturale” il suo concetto principale e qualificante.

Nei capitoli precedenti si è visto come, alle soglie e durante la lavorazione della Trilogia della vita, Pasolini vedesse nel corpo e nel linguaggio del corpo una zona non ancora “colonizzata” dal nuovo potere. Alla constatazione del dilagare inarrestabile del neocapitalismo nel tessuto della società, si opponeva (anche se in un’opposizione disperata) ciò che rimaneva di pre-verbale e di pre-culturale (il corpo e il sesso, appunto) in quella vita popolare che, nei suoi modelli culturali e nei suoi ideali, era già stata sommersa dal nuovo capitale.

La fine del lavoro del regista attorno alla Trilogia della vita sembrerebbe coincidere[286] con la caduta rovinosa di quest’ultima illusione; ora anche il corpo, l’ultimo baluardo “dell’idea dell’uomo” di fronte all’entropia consumistica, sembrava aver perduto la sua innocenza e il riflesso della sua primitiva autenticità. Pasolini prendeva ormai coscienza del fatto che in Italia (in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali e in lieve anticipo rispetto a quelli del Terzo Mondo) era avvenuto un vero e proprio genocidio[287], che aveva annientato (sulla falsariga delle esecuzioni di massa “reali” della Seconda Guerra Mondiale) intere generazioni di esseri viventi che, nel giro di un decennio, erano state inghiottite dalla storia per essere sostituite dalle masse anonime e assimilate, senza alternative reali, all’ideologia borghese.

Se dunque, per un breve periodo, era stata possibile una “fuga nel corpo e nel passato” con la regressione “scandalosamente reazionaria” dei film della trilogia, ora questa regressione appariva del tutto inattuabile per il venir meno di ciò che era stato il suo centro e il suo fulcro ideale: il corpo del popolo.

È in questo contesto ideologico che va collocato quel documento, lucido e sofferto al tempo stesso, pubblicato postumo sul «Corriere della Sera» del 9 novembre 1975 (ma scritto il 15 giugno dello stesso anno), con il titolo di: Ho abiurato la «Trilogia della vita»[288].

La constatazione della “degenerazione dei corpi e dei sessi” proiettava, retroattivamente, su tutto ciò che era stato l’esaltazione di quegli “«innocenti» corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali”, la luce malata del disinganno, della disperazione. Se, infatti, ora è diventato “immondizia umana” ciò che Pasolini aveva “proiettato nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo”, allora vuol dire che già allora, cioè nel momento di questa proiezione, questi corpi erano destinati a diventarlo, erano vocati a questo olocausto. I “puri” sottoproletari pasoliniani “erano quindi degli imbecilli costretti ad essere adorabili, degli squallidi criminali costretti ad essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti”; poiché il “il crollo del presente implica anche il crollo del passato” e la vita (tutta la vita) si trova ad essere “un mucchio di insignificanti e ironiche rovine”.

Basta anche una sommaria conoscenza di quello che era stata l’opera e l’universo poetico pasoliniano prima di questo scritto, per intuire quali tenebre e quali angoscianti risoluzioni nascondessero queste parole ferme e strazianti.

Inoltre, a questo risoluto e impietoso sguardo che Pasolini getta su quella che era stata la “materia poetica” della Trilogia della vita (e di così gran parte della sua produzione artistica, e della sua esistenza) si accompagna la constatazione del fatto che proprio ciò che doveva costituire, nelle intenzioni dell’artista, la parte “scandalosamente ideologica” di questi film, era stata inglobata e stravolta a proprio favore dall’onnivoro pragma neocapitalista. Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte erano diventati dei film di cassetta, ma non solo; avevano infatti dato origine all’effimero successo del cosiddetto «filone boccaccesco», ovvero di quella serie di prodotti subculturali che proponevano, ambientandole in un medioevo pretestuale, avventure salaci e picarismi di maniera.

Dunque, nell’impossibilità pratica di un riecheggiamento del passato scomparso e nel profilarsi all’orizzonte dell’universo orrendo di un presente senza alternative, ecco manifestarsi la necessità di un’opera che affrontasse questo presente (seppur attraverso la mediazione della metafora e del riferimento letterario) e si ponesse in una posizione di assoluta e incontrovertibile “non assimilabilità”; ecco Salò.

2. Trilogia della vita o Tetralogia della morte[289]?

Ora che si è arrivati a concludere, dopo l’analisi dettagliata dei tre film, il profilo della Trilogia della vita, risulta necessario considerare se quelle che erano le premesse e le intenzioni del loro autore (una celebrazione “scandalosa”[290] della gioia del corpo e dell’ontologia del racconto) siano state soddisfatte, e con quali risultati.

I film della trilogia, pur se assimilabili a un disegno e a una prospettiva comune, appaiono, in realtà, molto diversi tra loro (se non addirittura opposti).

 

Il Decameron è forse il film più complesso, il più eterogeneo, quello in cui il registro stilistico è più libero di spaziare lungo tutte le gradazioni dell’espressione artistica; senza, per questo, pregiudicare l’unità dell’opera. La coesistenza tra la sessualità greve dell’episodio di Peronella o di donno Gianni, ad esempio, e il nitore tragico di quello di Lisabetta, è assicurata da quel sostrato comune che pervade tutto il film ed è costituito dall’inno, insieme sacrale e sensuale (nella misura in cui i due elementi in Pasolini appaiono compenetrati), rivolto alla vita e all’esistente nelle sue innumerevoli manifestazioni.

Il fatto che la morte sia un elemento perpetuamente presente in questo inno (quasi come un basso continuo che contrappunti la melodia principale) non deve essere visto come una limitazione al godimento esistenziale, oppure come un suo ribaltamento nella dialettica Eros-Thanatos, ma come una componente fondante ed essenziale di questo godimento e di questa esaltazione.

La morte, come si è visto, ha sempre accompagnato, durante tutto l’arco della produzione artistica pasoliniana, l’inestinguibile amore del poeta per la vita e l’empito ansioso del suo appagamento. Si potrebbe dire, inoltre, che lo stessa concezione sacrale delle cose, che è stata vista come uno dei fulcri interpretativi dell’opera di Pasolini, non può prescindere da un rapporto diretto con la morte velato di atavico misticismo[291].

Da un certo punto di vista, Il Decameron può essere considerato come il film più riuscito della Trilogia della vita, perché, in primo luogo, in esso trovano piena realizzazione il motivo del recupero della memoria, effettuato sui due registri complementari (e in esemplare equilibrio) della riscoperta del corpo nella pura gioia dell’esistente e del ricorso alla mediazione colta del testo boccacciano[292] e della citazione pittorica. In secondo luogo, questi elementi presentano ancora la freschezza del piacere per la (ri)scoperta di un nuovo modo di fare cinema (seppur, come si è visto, con gli eterni ricorsi delle consuete tematiche pasoliniane) che non si è ancora appesantita e non è ancora sprofondata nelle pieghe del potere e della coscienza straniante del peccato dei Racconti di Canterbury, e nemmeno non ha disciolto i suoi confini nell’assolutezza del sogno che percorre tutto Il fiore delle Mille e una notte.

 

Come ho cercato di evidenziare nell’analisi dettagliata del film, il demone che sembra pervadere I racconti di Canterbury, che contamina la sessualità turbandone nevroticamente il godimento, che si insinua nei rapporti umani stravolgendoli nelle logiche irreali del potere, è il demone della coscienza infelice, del peccato, dell’affacciarsi del mondo popolare alla storia (visto come l’inizio dell’emancipazione borghese e della sua scissione dalle sorti del proletariato[293]).

Questa diversa posizione dei Racconti di Canterbury nei confronti del Decameron, per non parlare del Fiore delle Mille e una notte, risulta particolarmente evidente se si considerano, oltre alle influenze (notevoli) del modello chauceriano, la diversa ambientazione e il diverso sfondo sociale che delimitavano l’orizzonte del film pasoliniano. Alla Napoli vista come enclave commoventemente opposta agli assalti del mondo nuovo, si sostituiva il “mondo ormai storicizzato, borghese” di un paese del capitalismo maturo:

“Devo dire che il mondo che ho trovato in Inghilterra, quando giravo Canterbury, era molto diverso: a Napoli e nell’Oriente non avevo confini, potevo scatenare intorno a me questo linguaggio della terra, delle cose, delle case, dei vulcani, delle palme, delle ortiche e soprattutto della gente. Invece in Inghilterra quel mondo è ritagliato dalla mania di un bambino, e le persone che sceglievo appartenevano a un mondo ormai storicizzato, borghese, e questa costrizione pesava sul mio stato d’animo.”[294]

Sullo stato d’animo del poeta, come si è visto, pesava anche, e soprattutto, la brusca fine a cui sembrava ormai giunto “quell’amore così casto” che Pasolini provava per Ninetto; il quale, in quel periodo, si era fidanzato con una ragazza con l’intenzione di sposarla. Ben oltre al semplice interesse biografico, la fine di questo amore potrebbe essere vista come l’esemplificazione tangibile della percezione pasoliniana del mutamento sociale in atto. L’allontanarsi progressivo nel passato e la percezione della perdita di quel mondo che Pasolini amava in Ninetto, nella sua gaiezza, nella sua spontaneità, trovava alcuni dei suoi sfoghi espressivi nei versi, accorati e rassegnati al tempo stesso, de L’hobby del sonetto e “nell’infelice” citazione chapliniana del Racconto del cuoco.

Nei Racconti di Canterbury, inoltre, l’eterogeneità (che si era ravvisata tra le qualità del Decameron) subisce un mutamento in senso quantitativo e qualitativo, tanto che si assiste ad una notevole frammentazione della materia del racconto. Questa impressione è accresciuta dall’alterno esito degli episodi; infatti, a racconti per certi versi riusciti (anche se perfettamente conchiusi all’interno dello spazio loro assegnato) come quello del Frate, dell’Indulgenziere e del Mercante se ne alternano altri che lo sono decisamente meno; ad esempio il Racconto del Fattore in cui si assiste all’appiattimento e all’inspessimento greve su i temi consueti; oppure (spiace ammetterlo) il Racconto del Cuoco tutto rinserrato “nell’aere cupo” della citazione pedissequa e dell’infelicità lucida e inconsolabile per la perdita recente, eccetera.

 

Nel Fiore delle Mille e una notte, i rigidi castoni che racchiudevano, e isolavano, gli episodi dei Racconti di Canterbury sembrano disciogliersi sotto il sole dell’oriente musulmano. La fluida materia dei racconti si compenetra mirabilmente nel gioco sinfonico dei continui rimandi e dell’agile trascorrere da un sogno all’altro.

“Sogno” deve essere qui inteso come qualcosa di diverso dalla mera componente onirica all’interno degli episodi (di cui, comunque, si è cercato di indagarne la rilevanza); bensì deve essere considerato come un principio applicato al Fiore delle Mille e una notte nella sua interezza.

I luoghi, i sorrisi, soprattutto i corpi appaiono come immersi nella luce dorata del sogno, quasi che possano essere recuperati, ormai, solo attraverso l’esperienza onirica, l’espressione del subconscio; poiché nella memoria è già cominciata quell’opera retroattiva di decadimento di cui si è parlato a proposito dell’Abiura.

Il fiore delle Mille e una notte, infatti, che sembrerebbe testimoniare un’avvenuta conciliazione del potere con la natura e con la sessualità (e quindi con l’uomo), in realtà esprime anche una fase ulteriore della maturazione che, passata attraverso I racconti di Canterbury, approderà, di lì a poco, a quella negazione della natura e della sessualità che è Salò. Pur essendo incontestabile il fatto che sia il secondo film della trilogia quello che presenta più analogie con l’opera postuma di Pasolini, è altrettanto vero che Il fiore delle Mille e una notte, nella sfolgorante e intensissima riaffermazione del mondo che è scomparso, ha tutto il carattere di un congedo definitivo, un definitivo abbandono di quei corpi e di quei luoghi in favore del nulla, il nuovo, l’incubo.

Dall’assolutezza onirica di questo film, da quell’aurea di conciliazione con l’esistente che lo permea, e soprattutto dalla mancanza di rigide divisioni tra episodi, deriva una degli aspetti salienti del Fiore delle Mille e una notte nei confronti degli altri due film; ovvero il suo carattere monocorde, l’esistenza di uno stesso registro[295] che, lungi dall’essere un difetto, resta sotteso ad ogni racconto. Non esiste più, come invece accadeva per Il Decameron, quel brioso trascolorare del registro stilistico lungo tutta la durata del film; ma, d’altro canto, non si ha nemmeno quella disgregazione del film in diverse gemme, di diversa qualità e diverso taglio, che avveniva nei Racconti di Canterbury .

 

Sotto molti aspetti, si può dire che il fatto che Pasolini abbia rinnegato, nell’Abiura, i suoi tre film non deve sorprendere più di tanto. Infatti l’Abiura è presente in germe fin dal momento stesso in cui Pasolini progettò la Trilogia della vita. Nella rievocazione nostalgica di un passato scomparso attraverso il corpo e il sesso del popolo, già si leggevano, in controluce, le necessità del futuro rinnegamento di questa rievocazione; l’Abiura, insomma, può essere considerata paradossalmente come una “condizione necessaria” all’esistenza stessa della Trilogia della vita.

Ma una risposta alla domanda che pongo nel titolo di questo paragrafo, richiede un esame della trilogia lungo la prospettiva che parte da Salò e si proietta retrospettivamente.

Sulla scorta delle interpretazioni che si sono date, alla luce di quanto si è detto a proposito dei singoli episodi, delle intere opere e delle relazioni tra i film stessi, è legittimo ritrovare un ceppo comune che permetta di accomunare questi tre film con Salò o le centoventi giornate di Sodoma? Si può inoltre parlare, in luogo di Trilogia della vita, di Tetralogia della morte?

È indubitabile (si è cercato di dirlo più volte) che, da un certo punto di vista, i tre film possano essere considerati come le tappe consecutive che portano a Salò; inoltre, in alcuni casi, si è ravvisato come (soprattutto nei Racconti di Canterbury) fossero presenti riecheggiamenti sadiani più o meno vaghi. Ma questa similitudine fra alcuni elementi e, soprattutto, la “consecutività” del rapporto con l’ultimo film pasoliniano andrebbero, secondo me, limitate solamente al piano di una netta opposizione tra le due parti in causa. Se è vero, infatti, che la trilogia costituisca il preludio di Salò, è altrettanto vero come quest’ultimo si ponga, nei confronti dei film che lo hanno preceduto, come la loro negazione, come l’effetto della loro abiura[296].

Inoltre, il far rientrare Salò all’interno di un gruppo di film (pur se in una posizione peculiare rispetto agli altri) ne limita l’effetto dirompente e la programmatica inassimilabilità. È sintomatico di ciò, il fatto che Salò abbia creato attorno a sé uno spazio vuoto, che non abbia generato alcun filone o nuovo corso, ma che si erga, nella metà esatta di un decennio, come l’estrema tra le pietre d’inciampo; forse inascoltata, forse fraintesa, ma certamente non assimilabile da nessun potere, per quanto assoluto.


APPENDICE

Abiura dalla Trilogia della vita

 

Io penso che, prima, non si debba mai, in nessun caso, temere la strumentalizzazione da parte del potere e della sua cultura. Bisogna comportarsi come se questa eventualità pericolosa non esistesse. Ciò che conta è anzitutto la sincerità e la necessità di ciò che si deve dire. Non bisogna tradirla in nessun modo, e tanto meno tacendo diplomaticamente per partito preso.

Ma penso anche che, dopo, bisogna saper rendersi conto di quanto si è stati strumentalizzati, eventualmente, dal potere integrante. E allora se la propria sincerità o necessità sono state asservite o manipolate, io penso che si debba avere addirittura il coraggio di abiurarvi.

Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro momento culminante, il sesso.

Tale sincerità e necessità hanno diverse giustificazioni storiche e ideologiche.

Prima di tutto esse si inseriscono in quella lotta per la democratizzazione del “diritto ad esprimersi” e per la liberalizzazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni Cinquanta e Sessanta.

In secondo luogo, nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei “mass media” e quindi della comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli “innocenti” corpi con l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali.

Infine, la rappresentazione dell’eros, visto in un ambito umano appena superato dalla storia, ma ancora fisicamente presente (a  Napoli, nel Medio Oriente) era qualcosa che affascinava me personalmente, in quanto singolo autore e uomo.

Ora tutto si è rovesciato.

Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata bruscamente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.

Secondo: anche la “realtà” dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.

Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.

 

                                                         II

 

Però, a coloro che criticavano, dispiaciuti o sprezzanti, la Trilogia della vita, non venga in mente di pensare che la mia abiura conduca ai loro “doveri”.

La mia abiura conduce a qualcos’altro. Ho il terrore di dirlo: e cerco prima di dirlo, com’è mio reale “dovere”, degli elementi ritardanti. Che sono:

a) L’intransgredibile dato di fatto che, se anche volessi continuare a fare film come quelli della  Trilogia della vita, non lo potrei: perché ormai odio i corpi e gli organi sessuali. Naturalmente parlo di questi corpi, di questi organi sessuali. Cioè dei corpi dei nuovi giovani e ragazzi italiani, degli organi sessuali dei nuovi giovani e ragazzi italiani. Mi si obietterà: “Tu per la verità non rappresentavi nella Trilogia corpi e organi sessuali contemporanei, bensì quelli del passato”. E’ vero: ma per qualche anno mi è stato possibile illudermi. Il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo. Ma oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente svalutato. I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano – che sono poi quelli che io proietto nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo – se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano: erano quindi degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti, ecc. ecc. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.

b) I miei critici, addolorati o sprezzanti, mentre tutto questo succedeva, avevano dei cretini  “doveri”, come dicevo, da continuare a imporre: erano “doveri” vertenti la lotta per il progresso, il miglioramento, la liberalizzazione, la tolleranza, il collettivismo ecc. ecc. Non si sono accorti che la degenerazione è avvenuta proprio attraverso una falsificazione dei loro valori. Ed ora essi hanno l’aria di essere soddisfatti! Di trovare che la società italiana è indubbiamente migliorata, cioè è divenuta più democratica, più tollerante, più moderna ecc. Non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l’Italia: relegano questo fenomeno nella cronaca e ne rimuovono ogni valore. Non si accorgono che non c’è alcuna soluzione di continuità tra coloro che sono tecnicamente criminali e coloro che non lo sono: e che il modello di insolenza, disumanità, spietatezza è identico per l’intera massa dei giovani. Non si accorgono che in Italia c’è addirittura il coprifuoco, che la notte è deserta e sinistra come nei più neri secoli del passato: ma questo non lo sperimentano, se ne stanno in casa (magari a gratificare di modernità la propria coscienza con l’aiuto della televisione). Non si accorgono che la televisione, e forse ancora peggio la scuola dell’obbligo, hanno degradato tutti i giovani  e i ragazzi schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie: ma considerano ciò una spiacevole congiuntura, che certamente si risolverà – quasi che un mutamento antropologico fosse irreversibile . Non si accorgono che la liberalizzazione sessuale anziché dare leggerezza e felicità ai giovani e ai ragazzi, li ha resi infelici, chiusi, e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi: ma di ciò addirittura non vogliono occuparsene, perché non gliene importa niente dei giovani e dei ragazzi.

c) Fuori dall’Italia, nei paesi “sviluppati” – specialmente in Francia – ormai i giochi sono fatti da un pezzo. E’ un pezzo che il popolo antropologicamente non esiste più. Per i borghesi francesi, il popolo è costituito dai marocchini o dai greci, dai portoghesi o dai tunisini. I quali,  poveretti, non hanno altro da fare che assumere al più presto il comportamento dei borghesi francesi. E questo lo pensano sia gli intellettuali di destra che gli intellettuali di sinistra, allo steso identico modo.

 

                                                        III

 

Insomma, è ora di affrontare il problema: a cosa mi conduce l’abiura dalla Trilogia?

Mi conduce all’adattamento.

Sto scrivendo queste pagine il 15 giugno 1975, giorno di elezioni. So che se anche – com’è molto probabile – si avrà una vittoria delle sinistre, altro sarà il valore nominale del voto, altro il suo valore reale. Il primo dimostrerà una unificazione dell’Italia modernizzata in senso positivo; il secondo dimostrerà che l’Italia – al di fuori naturalmente dei tradizionali comunisti – è nel suo insieme ormai un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici. L’Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente. Tout va bien: non ci sono nel paese masse di giovani criminaloidi, o nevrotici, o conformisti fino alla follia e alla più totale intolleranza, le notti sono sicure e serene, meravigliosamente mediterranee, i rapimenti, le rapine, le esecuzioni capitali, i milioni di scippi e di furti riguardano le pagine di cronaca dei giornali ecc. ecc. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione.

Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?).

 

 

“Corriere della Sera”, Milano, 9 Novembre 1975


BIBLIOGRAFIA

 

§         AA. VV., Pier Paolo Pasolini, in «Italian Quarterly», n. 81\82, autunno 1980-inverno 1981.

§         AA. VV., Pasolini, in «Narrativa», febbraio 1994.

§         AA. VV., Omaggio a Pasolini, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1976.

§         C. ANNARATONE, Il deperimento della storia nell’egotismo di Pasolini, in «Cinema Nuovo», n. 270, 1981.

§         T. ANZOINO, Pasolini, «Il Castoro», Nuova Italia, Firenze 1970.

§         M. ARGENTIERI, Il fiore puro e angosciato delle «Mille e una notte», in «Rinascita», agosto 1974.

§         M. BARATTO, Realtà e stile nel Decameron, Neri Pozza, Venezia, 1970.

§         L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977.

§         L. BINI, La parabola della rivoluzione nel cinema di Pasolini,in «Letture», n. 3 1975.

§         L. BINI, Pier Paolo Pasolini poeta del sottoproletariato, in «Letture», n.1 1975.

§         F. BREVINI (a cura di), Per conoscere Pasolini, Mondadori, Milano 1981.

§         G.P. BRUNETTA, Forma e parola nel cinema: il film muto: Pasolini e Antonioni, Liviana, Padova 1970.

§         G.P. BRUNETTA, Gli scritti cinematografici di Pasolini, in «La Battana», Fiume, n. 32, marzo 1974.

§         G.P. BRUNETTA, Storia del cinema italiano (1960-1993), Editori Riuniti, Roma 1993.

§         E. BRUNO, La sacralità erotica del Decameron di Pasolini, in «Filmcritica», Roma, n 217, agosto 1971.

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§         F. CAMON, La moglie del tiranno, Lerici, Roma 1969.

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§         G. CONTI CALABRESE, Pasolini e il sacro, prefazione di G. Scalia, Jaca Book, Milano 1994.

§         A. COSTA, Pasolini: il fiore dell’ossessione, in «Cinema e Cinema», n. 2 gennaio-marzo 1975.

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§         M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Borlinghieri, Torino 1970 (rist.).

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§         R. ESCOBAR, Pasolini il passato e il futuro, in «Quaderni Medievali»,n. 3, giugno 1977.

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§         F. GALLUZZI, Pasolini e la pittura, Bulzoni, Roma 1994.

§         G. GAMBETTI, Pasolini da Boccaccio a Chaucer. Per una «trilogia popolare, erotica, libera», in «Cineforum», n. 121, marzo 1973.

§         W.E. LAPARULO, Lingua e dialetto nella prosa e nel cinema di Pier Paolo Pasolini, in «Canadian Journal of Italian Studies», primavera-estate 1980.

§         E. Magrelli (a cura di), Con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni, Roma 1977.

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§         L. MICCICHÉ, Pasolini nella città del cinema, Marsilio Editori, Venezia 1999.

§         Le mille e una notte, Prima versione integrale dall’arabo diretta da Francesco Gabrieli, Einaudi, Torino 1948 (e successive edizioni).

§         N. NALDINI, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989.

§         P.P. PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 1965.

§         P.P. PASOLINI, Le belle bandiere.Dialoghi 1960-65, a cura di G.C. FERRETTI, Editori Riuniti, Roma 1977.

§         P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, prefazione di G. Giudici, Garzanti, Milano 1993, 2 voll. (nuova edizione negli “Elefanti”, ivi 1995-1996, 4 voll.).

§         P.P. PASOLINI, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957 (nuova edizione Einaudi, Torino 1976).

§         P.P. PASOLINI, Il caos, a cura di G.C. FERRETTI, Editori Riuniti, Roma 1979.

§         P.P. PASOLINI, Empirismo Eretico, Garzanti, Milano 1972.

§         P.P. PASOLINI, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976.

§         P.P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi, Torino 1975.

§         P.P. PASOLINI, Per una censura democratica contro la permissività di stato, «Cinema Nuovo», n 239, gennaio-febbraio 1976.

§         P.P. PASOLINI, Petrolio, a cura di M. Careri e G. Chiarcossi, con una nota filologica di A. Roncaglia, Einaudi, Torino 1992.

§         P.P. PASOLINI, Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964.

§         P.P. PASOLINI, Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1955 (nuova edizione Einaudi, Torino 1979, con un’appendice contenente Il metodo del lavoro e I parlanti).

§         P.P. PASOLINI, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961 (nuova edizione Einaudi, Torino 1982).

§         P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll. Mondadori, Milano 1998.

§         P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll. Mondadori, Milano 1999.

§         P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. SITI, Mondadori, Milano 1998.

§         P.P. PASOLINI, San Paolo, Einaudi, Torino 1977.

§         P.P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975 (nuova edizione 1990, con una prefazione di A. BERARDINELLI).

§         P.P. PASOLINI, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 1962.

§         P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, a cura di Giorgio Gattei, Cappelli Editore, Bologna 1975; ora anche in edizione Mondadori, Milano 1990.

§         P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, Milano 1995.

§         P.P. PASOLINI, Una vita violenta, Garzanti, Milano 1959 (nuove edizione Einaudi, Torino 1979).

§         G. PERUZZI, Filosofi di ieri per alcuni registi d’oggi, in «Cinema nuovo», novembre-dicembre 1974.

§         S. PETRAGLIA, P.P. Pasolini, «Il Castoro Cinema», La Nuova Italia, Firenze Lug\Ago 1974.

§         F. PRONO, La religione del suo tempo in Pier Paolo Pasolini, in «Cinema Nuovo», n. 215, gennaio-febbraio 1972.

§         R. RINALDI, Pier Paolo Pasolini, Mursia, Milano 1982.

§         G. SANTATO, Pier Paolo Pasolini. L’opera, Neri Pozza, Vicenza, 1980.

§         E. SICILIANO, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978.

§         O. STACK, Pasolini on Pasolini, Thames and Hudson, London- New York 1969 (traduzione italiana: Pasolini su Pasolini, conversazioni con Jon Halliday, trad. it. di Cesare Salmaggi, Guanda, Parma 1992).

§         M.G. STONE, Pier Paolo Pasolini: per la morale del pensiero, in «Nuovi Argomenti», n. 40 ottobre-dicembre 1991.

§         L. TERMINE, Il fiore delle Mille e una notte, in «Cinema Nuovo», settembre-ottobre 1974.

§         G. TURRONI, Film d’autore, film di consumo, film di poesia, in «Bianco e Nero», Roma XXXII, n. 1\2, gennaio, febbraio 1971.

§         G. ZIGAINA, Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1995.

 


FILMOGRAFIA

Il Decameron

Orso d’argento al Festival di Berlino come speciale riconoscimento della Giuria con la seguente motivazione: «per il rigore artistico, la maturità cinematografica e il corposo umorismo con cui Pasolini ha ricreato l’ironia irriverente del Boccaccio e non soltanto ha raggiunto la pittoresca autenticità del Medioevo ma vi ha tradotto, con sana vitalità, un’immagine del mondo d’oggi».

 

Un film di Pier Paolo Pasolini

Il Decameron, da Il Decameron di G. Boccaccio

1970 by P.E.A. s.a.s., Roma

 


con

Franco Citti

Ninetto davoli

Jovan Jovanovic

Vincenzo Amato

Angela Luce

Giuseppe Zigaina

Gabriella Frankel

Vincenza Cristo

P.P. Pasolini

Giorgio Jovine

Salvatore Bilardo

Vincenzo Ferrigno

Luigi Seraponte

Antonio Diddio

Mirella Catanesi

Vincenzo De Luca

Erminio Nazzaro

Giovanni Filadoro

Lino Crispo

Alfredo Sivoli

 

Guido Alberti

Giacomo rizzo

E. Jannotta Carrino

Vittorio Vittori

Monique Van Voren

Enzo Spitaleri

Luciano Telli

Annie Marguerite Latroye

Gerard Exel

Wolfang Hillinger

Francor Marlotta

Vittorio Fanfoni

Uhle Detlef Gerd

Gianni Rizzo

Adriana Donnorso

E. Maria de Juliis

Patrizia De Clara

Guido Mannari

Michele Di Matteo

Giovanni Esposito

Giovanni Scagliola

Giovanni Davoli


 


Aiuti regia

 

Assistente alla regia

Segretaria edizione

Assistente al montaggio

Ispettore di produzione

Segretario di produzione

Operatore alla macchina

Aiuto operatore

Assistenti operatore

 

Fotografo di scena

Arredatore

Aiuto scenografo

Aiuto costumista

Truccatore

Parrucchiere

Fonico

Costumi eseguiti dalla

 

Sergio Citti

Umberto Angelucci

Paolo Andrea Mettel

Bearice Banfi

Anita Cacciolati

Sergio Galiano

Vittorio Bucci

Giovanni Ciarlo

Carlo Tafani

Alessio Gelsini

Giuseppe Fornari

Mario Tursi

Andrea Fantacci

Carlo Agate

Piero Cigoletti

Alessandro Jacoponi

Jole Cecchini

Pietro Spadoni

Sartoria Farani

 


Edizione

Sincronizzazione eseguita

nello Studio Cinefonico

Mixage

Assistente mixage

Direttore di produzione

Organizzatore generale

Costumi

Scenografia

Musiche a cura dell’autore

Collaborazione del M.

Montaggio

 

Enzo Ocone

 

Palatino

Mario Morigi

Gianni D’amico

Mario Di Biase

Alberto De Stefanis

Danilo Donati

Dante Ferretti

 

Ennio Morricone

Nino Baragli

Tatiana Morigi

Direttore della fotografia

Technicolor

Tonino Delli Colli

 


 

Prodotto da

Franco Rossellini per la P.E.A. – Produzioni Europeee Associate s.a.s.

 

Una coproduzione

P.E.A. - Produzioni Europeee Associate s.a.s., Roma

Les productions artistes associes, Parigi

Artemis film, Berlino

 

Scritto e diretto da

Pier Paolo Pasolini


I racconti di Canterbury

Alberto Grimaldi presenta

Un film di Pier Paolo Pasolini

 

I racconti di Canterbury

dai Canterbury Tales di G. Chaucer

 

Primo premio «Orso d’oro»

Festival di Berlino 1972

 


con

Hugh Griffith

Laura Betti

Ninetto Davoli

Franco Citti

Josephine Chaplin

Alan Webb

Pier Paolo Pasolini

I.P. Van Dyne

Vernon Dorthcheff

Adrian Street

O.T.

Derek Deadmin

Nicholas Smith

George Datch

Dan Thomas

Michel Balfour

Jenny Runacre

Peter Cain

daniele Buckler

John Francis Lane

Settimo Castagna

Athol Coats

Judy Stewart Murray

Tom Baker

Oscar Fochetti

Willounghby Goddard

Peter Stephens

Giuseppe Arrigo

Elisabetta Genovese

Gordon King

Patrick Duffett

Eamann Howell

Albert King

Eileen King

Heather Johnson

Robin Asquit

Martin Whelar

John Mclaren

Edward Mountheith Kervin

Franca Sciutto

Vittorio Fanfoni

 


 

 

 

 

Aiuti regia

 

Assistente alla regia

Segretaria edizione

Assistenti al montaggio

 

Ufficio Stampa

Ispettore di produzione

Segretaria di produzione

Coordinatori produzione inglese

 

Operatore alla macchina

Aiuto operatore

Fotografo di scena

Mixage

Aiuto scenografo

Aiuto costumista

Arredatore

Truccatore

Parrucchiere

Fonico

Capo Macchinista

Capo elettricista

Rumori e effetti speciali

 

 

Sergio Citti

Umberto Angelucci

Peter shepard

Beatrice banfi

Anita Cacciolati

Ugo De Rossi

Studio Longardi

Ennio Onorati

Franca Tasso

Adriano Magistretti

Anthony Moore

Carlo Tafani

Maurizio Lucchini

Mimmo Cattarinich

Gianni D’amico

Carlo Agati

Vanni Castellani

Kenneth Muygleston

Otello Sisi

Giancarlo De Leonardis

Primmiano Muratore

Augusto Diamanti

Alberto Ridolfi

Luciano Aurellotti

 


Una produzione

P.E.A. - Produzioni Europeee Associate s.a.s., Roma

Copyright MCMLXXI by P.E.A.

 

La Produzione ringrazia per la gentile collaborazione

The Dean Canterbury Cathedral – Canterbury

The Dean Wells Cathedral – Wells

The National Trust For Places of Historic Interest or

National Beauty

The Department of the Environment

The British Actors Equity Association

The Wiltshine Historic Building Trust

 

e le città di


Canterbury

Cambridge

Bath

St. Ossyth

Laver Marney

Lavenham

Wells

Chipping Campden


 

 

Edizione Enzo Ocone

 

Musiche a cura dell’autore con la collaborazione del

M. Ennio Morricone

e delle case discografiche                                         Topic Records

Cinefonico Palatino

Caedmon Records

Sincronizzazione eseguita nello studio                     Philips

Costumi eseguiti dalla Sartoria Farani

Costumi Danilo Donati

Scenografia Dante Ferretti

Montaggio Nino Baragli

Direttore della fotografia: Tonino Delli Colli

Technicolor

Prodotto da Alberto Grimaldi

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini

 


Il fiore delle Mille e una notte

Gran Premio Speciale della giuria del

Festival Internazionale di Cannes 1974

 

Alberto Grimaldi presenta

Un film di Pier Paolo Pasolini

 

Il fiore delle Mille e una notte

United Artists Corporation, 1974

 

con


Ninetto Davoli

Franco Merli

Ines Pellegrini

Franco Citti

Teresa Bouché

Margaret Clementi

Luigina Rocchi

Francesco Paolo Governale

Zeudi Biasolo

Elisabetta Vito Genovese

Alberto Argentini

Salvatore Sapienza

Barbara Grandi

Gioacchino Castellina

Abadit Ghidei

Salvatore Verdetti

Luigi Antonio Guerra c.s.c.

Francelise Noel

Christian Alegny

Jocelyn Munchenbach

Jeanne Gauffin Mathieau

Franca Sciutto c.s.c.

 


 

Aiuti regia

 

Segretaria edizione

Assistente al montaggio

Aiuto al montaggio

Ispettori di produzione

 

Segretaria di produzione

Amministratori

Operatore alla macchina

 

Umberto Angelucci

Peter Sheperd

Beatrice Banfi

Ugo De Rossi

Alfredo Menchini

Giuseppe Banchelli

Alessandro Mattei

Carla Crovato

Daniele Tiberi, Maurizio Forti

Alessandro Ruzzolini

Assistente operatore

Fotografo di scena

Parrucchiere

Truccatore

Fonico

Ufficio Stampa

Mixage

Sincronizzazione

Effetti Ottici Speciali

 

Marcello Mastrogirolamo

Angelo Pennoni

Jole Cecchini

Massimo Giustini

Luciano Welisch

Nino Naldini

Fausto Ancillai

N.I.S., Roma

Rank Film Labs, England

 


 

Costumi eseguiti dalla Sartoria Farani

Parrucche della Ditta Rocchetti-Carboni

Calzature della Ditta Pompei

Spedizioni a cura della Ditta Cecchetti

 

Una produzione

P.E.A. - Produzioni Europeee Associate s.a.s., Roma

Les productions artistes associes, Paris

 

La produzione ringrazia i governi dell’Etiopia, della Repubblica Araba dello Yemen, della Repubblica Popolare dello Yemen, dell’Iran e del Nepal che grazie alla loro ospitalità e collaborazione hanno permesso la realizzazione di questo film.

 


Edizione

Costumi

Scenografia

Musiche a cura di

Montaggio

 

Direttore della fotografia

Technicolor

Direttore della produzione

Collaborazione alla sceneggiatura

Enzo Ocone

Danilo Donati

Dante Ferretti

Ennio Morricone

Nino Baragli e

Tatiana Casini Morigi

Giuseppe Ruzzolini (A.I.C.)

 

Mario Di Biase (A.O.C.D.)

Dacia Maraini


Prodotto da

Alberto Grimaldi

 

Scritto e diretto da

Pier Paolo Pasolini

 

«La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni» (da Le Mille e una notte).

 

 

 

 


RINGRAZIAMENTI

Ringrazio:

Daniele Gatto (per l’aiuto provvidenziale)

Silvia Merlin

Enrico Bologna

Chiara Segala e Ape

La Copifor

Giorgio Tinazzi

Rosa Maria Salvatore

Alessandra Lighezzolo

Ed Vedder

Stone Gossard

Mike MacCready

Jeff Ament

Matt Cameron

I Rage Against The Machine

Il dolce nume di Fabrizio De André

Francesco Guccini

Laura Marini (?)

e (naturalmente) Marina Lovato

 

Un ringraziamento particolare, seppur (colpevolmente) tardivo, a Simone Filippi, amico e fratello.

 



[1] Per l’appellativo di “Trilogia della vita” dato ai film Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il Fiore delle Mille e una notte, mi rifaccio ad una definizione che diede, in più occasioni, lo stesso Pasolini (cfr. ad esempio lo scritto più noto che riguarda i tre film, ovvero L’abiura dalla «Trilogia della vita».)

Inoltre, un’analisi unitaria dei film della trilogia è autorizzata, oltre che dalle numerose affinità tematiche strutturali e ideologiche, da numerosi interventi pasoliniani che tendono ad assimilare queste tre opere in un unicum inscindibile. Cfr., fra le tante testimonianze, questo brano di un’intervista del ’72 su I racconti di Canterbury:

“Non si può parlare di trilogia. In realtà si tratta di uno stesso film, diviso in capitoli. Ma siccome ho terrore del tempo (ci vuole un anno di lavoro per ogni film) ho preferito farlo in pezzi per non essere tropo tagliato fuori dalla realtà”

Da Un drôle d’uccello pour P., a cura di G. Langlois, «Les Letteres Françaises», 1° marzo 1972; cit., tradotta in italiano, in Pier Paolo Pasolini: il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano de Giusti, Cinemazero, Pordenone 1979, p. 105.

[2] P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, nell’edizione di Tutte le opere a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 1998; nella Cronologia a cura di N. Naldini, vol. 1 p. CLXXXVII.

[3] P.P. PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 1965; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 pp. 584-590.

[4] P.P. PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 pp. 591-596.

[5] Ibidem; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 pp. 472-489.

[6] P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 1 pp. CLXXXVII.

[7] “…ci sono gli strati di una Roma senza antichità, tutta moderna, quotidiana, pezzente e di una attualità che brucia come una fiamma ossidrica ad una velocità vorticosa. (Arnardo aveva ragione: il Colosseo e il Teatro di Marcello, quattro pietre rotte. Illuminati dai riflettori, poi, sono così soli che a guardarli fanno rabbrividire…) ” da Squarci di notti romane (1950) in P.P. PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 p. 332.

[8] Nel gennaio del 1948 i contadini abitanti i dintorni di San Vito al Tagliamento manifestarono, occupando anche una villa di possidenti, per l’attuazione del lodo De Gasperi promesso da due anni. “Per lodo De Gasperi deve intendersi la decisione politica, arbitrata da Alcide De Gasperi, con la quale, nel 1946, si assegnavano ai mezzadri una serie di compensi quale risarcimento degli intralci al lavoro e dei danni arrecati dalla guerra all’economia contadina, Il lodo contemplava anche l’assunzione di mano d’opera disoccupata.” Da E. SICILIANO, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978.

[9] P.P. PASOLINI, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 1962; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 pp. 5-326 (con un’appendice contenente: I parlanti, Romans, [L’episodio del vespasiano], Aspreno e Marcellina, [La morte di Don Paolo], Un articolo per il «Progresso»).

[10] P.P. PASOLINI, Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964 nella sezione Una disperata vitalità, ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, prefazione di G. Giudici, Garzanti, Milano 1993, 2 voll. (nuova edizione negli “Elefanti”, ivi 1995-1996, 4 voll.), p. 725.

[11] Il 22 ottobre del 1949 Pasolini fu denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico avendo avuto, stando all’accusa, una relazione sessuale con tre ragazzi a Ramuscello il 30 settembre durante una festa di paese. Dopo l’inevitabile scandalo fu espulso dal Pci di Udine e rimosso dal posto di insegnante della scuola di Valvasone, nonostante le proteste dei genitori degli alunni. In seguito, non essendoci stata una querela di parte, non ci fu, in secondo grado, nessuna condanna per il reato di corruzione di minori e un’assoluzione per insufficienza di prove per il reato di atti osceni in luogo pubblico. Cfr. la Cronologia di N. NALDINI in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 1 pp. CLXXIV-CLXXV e E. SICILIANO, Vita di Pasolini, op. cit., pp. 140-146.

[12] P.P. PASOLINI, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961 (nuova edizione Einaudi, Torino 1982), ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., pp. 453-454.

[13] Dalla poesia Il pianto della scavatrice in P.P. PASOLINI, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957 (nuova edizione Einaudi, Torino 1976); ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., pp. 243-263.

[14] Vedi l’inchino rituale di Stracci, filmato a velocità doppia, davanti al capitello votivo nella Ricotta, oppure il segno della croce “sbagliato” di Balilla, interpretato sempre da Mario Cipriani, nel finale di Accattone.

[15] Ibidem, pp. 333-334.

[16] L’articolo fu pubblicato sul «Corriere della Sera», 1 febbraio 1975, poi raccolto in P.P. PASOLINI, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975 (nuova edizione 1990, con una prefazione di A. BERARDINELLI); ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, nell’edizione di Tutte le opere a cura di W. SITI, Mondadori, Milano 1998, pp. 404-411.

[17] L’articolo fu pubblicato sul «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975, poi raccolto in P.P. PASOLINI, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp.  674-680.

[18]Poi raccolti parzialmente in P.P. PASOLINI, Le belle bandiere.Dialoghi 1960-65, a cura di G.C. FERRETTI, Editori Riuniti, Roma 1977; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 877-1089.

[19]Dalla poesia La Realtà pubblicata nel 1964 in P.P. PASOLINI, Poesia in forma di rosa, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., p. 634.

[20] Ibidem, dalla Nuova poesia in forma di rosa nella sezione Una disperata vitalità, pp. 752-753

[21] Ibidem, dal Poema per un verso di Shakespeare nella sezione Una disperata vitalità,  p. 710.

[22] Ibidem, nella sezione Poesie mondane, p.619.

[23] P.P. PASOLINI, La ricotta, sceneggiatura letteraria in Alì dagli occhi azzurri, op. cit.; ora anche in  P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 p. 845.

[24] P.P. PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 p. 864. In precedenza la poesia era comparsa, sempre con il titolo di Profezia, in P.P. PASOLINI, Poesia in forma di rosa, op. cit. nella sezione Il libro delle croci.

[25] P.P. PASOLINI, Poesia in forma di rosa, op. cit.

[26] Dall’intervista rilasciata a Manlio Cancogni: Se nasci in un piccolo paese sei fregato ne «La Fiera letteraria», XXII, 50, 14 febbraio 1967; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p.1621.

[27] P.P. PASOLINI, Alì dagli occhi azzurri, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., p. 862

[28] P.P. PASOLINI, Le ceneri di Gramsci, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., p. 227

[29] Dal Poema per un verso di Shakespeare in P.P. PASOLINI, Poesia in forma di rosa, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., p. 717.

[30] «Tempo» n. 16, 19 aprile 1969; poi in P.P. PASOLINI, Il caos, a cura di G.C. FERRETTI, Editori Riuniti, Roma 1979; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1206.

[31] Dagli “appunti in versi per una poesia in prosa” Il Pci ai giovani!!, «Nuovi Argomenti», n. 10, aprile-giugno 1968; poi in P.P. PASOLINI, Empirismo Eretico, Garzanti, Milano 1972; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., pp. 1440-1450.

[32] Ibidem, pp. 1441-1442

[33] Ibidem, pp. 1445-1446

[34] Cfr. l’intervista rilasciata a Ferdinando Camon in F. CAMON, La moglie del tiranno, Lerici, Roma 1969; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1639-1640.

[35] Dalla poesia Ciants di un muàrt (Canti di un morto) in P.P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi, Torino 1975; ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit.,  pp. 1116-1117.

[36] Dalla dichiarazione presentata da Pasolini al dibattito Per una cultura democratica contro la censura di stato (Bologna 14 dicembre 1974), poi su «Cinema Nuovo», a. XXV, n. 289, gennaio-febbraio 1976; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., p. 2698.

[37] P.P. PASOLINI, Lettere luterane, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 569.

[38] J. DUFLOT, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini (1969), Belfond, Paris 1970, 2a edizione accresciuta : P.P. Pasolini, les dernièrs paroles d’un impie (1969-1975), a cura di J. DUFLOT, Belfond, Paris 1981. Traduzione italiana: P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, a cura di J. DUFLOT, Editori Riuniti, Roma 1983; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1465

[39] Da Ideologia e poetica una conversazione registrata a Roma il 14 dicembre 1972, a cura di Gideon Bachmann, pubblicata su «Filmcritica» n. 232 del marzo 1973, pp. 88-91, a p. 90.

[40] Dalla poesia Callas, in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., p. 1903 nella sezione «poesie disperse  i».

[41] Porcile ha in questa sistemazione schematica, ed imprecisa, dell’opera pasoliniana una posizione eccentrica, sia in virtù della sua caratterizzazione grottesca e sarcastica (mi riferisco alla parte “tedesca”), sia per la maggior “leggibilità politica” presente nel tema dell'obbedienza-disobbedienza del figlio e dell’alleanza tra il vecchio capitalismo nazionalsocialista ed il nuovo. Pasolini, fra l’altro, pensava che proprio grazie a questa maggior leggibilità (quasi una concessione al gusto del pubblico) la parte sulla continuità tra la Germania nazista e quella neocapitalista di Bonn sarebbe stata quella più gradita.

[42] S. PETRAGLIA, P.P. Pasolini, «Il Castoro Cinema», La Nuova Italia, Firenze Lug\Ago 1974, p. 90.

[43] Un articolo emblematico è Ciò che è neo-zdanovismo e ciò che non lo è, apparso su «Nuovi Argomenti», n. 12, ottobre-dicembre 1968; poi in P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., pp. 1451-1457.

[44] J. DUFLOT, Entretiens avec…, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1461-1462.

[45] M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Borlinghieri, Torino 1970 (rist.).

[46] J. DUFLOT, Entretiens avec…, op. cit. ; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1480.

[47] Ibidem.

[48]Dalla poesia Lungo le rive dell’Eufrate, in «Tempo illustrato», 3 maggio 1969; ora in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., pp. 1878-1879.

[49] Ibidem, p. 1882.

[50] A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio Editori, Venezia 1977, p. 115.

[51] Ibidem, p. 116.

[52] Pasolini negli Appunti, commentando una sequenza di lavoro nei campi di contadini della Tanzania postcoloniale, dice:”Una nuova nazione è nata, i sui problemi sono infiniti; ma i problemi non si risolvono, si vivono. E la vita è lenta, il procedere verso il futuro non ha soluzione di continuità. Il lavoro di un popolo non conosce né retorica né indugi. Il suo futuro è nella sua ansia di futuro, e la sua ansia è una grande pazienza

[53] L. MICCICHÉ, Pasolini nella città del cinema, Marsilio Editori, Venezia 1999, p. 191; cfr. anche p. 26.

[54] Nell’articolo Travestiti da poveri, «Tempo» n. 25, 21 giugno 1969; ; poi in P.P. PASOLINI, Il caos, a cura di G.C. FERRETTI, Editori Riuniti, Roma 1979; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica…, op. cit., pp. 1222-1224.

[55] Cfr. la poesia L’uomo di Bandung  del 1961 su P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., pp. 1773-1782.

[56] «Il Giorno», 20 marzo 1970, ora in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 207-212.

[57] Pasolini credeva erroneamente (derivando la sua convinzione, a quanto sembra, da Gianfranco Contini) che «tetis» in greco significasse «sesso, sia maschile che femminile». Cfr. Carlo di Tetis: il nome di una delle due personificazioni del protagonista di Petrolio. Inoltre Pasolini in un’intervista rilasciata a Dacia Maraini pubblicata su «Vogue Italia», maggio 1971; ora anche su P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1670-1681; dichiarò che da bambino, a tre anni, associava il binomio Teta-veleta al sentimento di affetto che gli suscitavano i ragazzetti che giocavano davanti alla sua casa (in particolare era attratto dall’incavo dei loro ginocchi). Inoltre lo stesso binomio era associato al seno della madre.

[58]Dalla poesia Significato del rimpianto, in P.P. PASOLINI, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., pp. 1152-1155.

[59] Da Tetis, l’intervento di Pasolini al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna dal 15 al 17 dicembre 1973, pubblicato in volume a cura di V. BOARINI (Cappelli, Bologna 1973); ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 257-264.

[60] Da un’intervista rilasciata a Tommaso Anzoino in T. ANZOINO, Pasolini, «Il Castoro», Nuova Italia, Firenze 1970; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1656-1669, a p. 1659.

[61] Ibidem, p. 264.

[62] Ibidem, p. 261-262.

[63] Ibidem, p. 261.

[64] Da Ideologia e poetica, cit., p.90.

[65] Ibidem.

[66] Ibidem, p. 88.

[67] Ibidem.

[68] Con Pier Paolo Pasolini, op. cit., p.94.

[69] Da Io e Boccaccio, intervista rilasciata a Dario Bellezza su «L’Espresso», 22 novembre 1970; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1647-1655.

[70] Con Pier Paolo Pasolini, a cura di E. Magrelli, Roma, Bulzoni 1977; pp. 99-100.

[71] Dalla recensione del Decameron di Giovanni Grazzini sul «Corriere della Sera», 29 giugno 1971.

[72] Da Decameron, intervista con P. P. Pasolini a cura di Nabil Reda Mahaini su «Cinema Sessanta», n. 87/88 gennaio-aprile 1972, pp. 62-70, a p. 62.

[73] Entrambe le citazioni provengono dal saggio Il cinema impopolare pubblicato su «Nuovi Argomenti», n. 20, ottobre-dicembre 1970, poi su P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, op. cit.; ora anche su P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., pp. 1600-1610, a p 1600 e a p. 1601.

[74] Da Ideologia e poetica, a cura di Gideon Bachmann, cit., p. 89.

[75]Io pronuncio da qualche tempo proposizioni reazionarie. E sto pensando a un saggio intitolato «come recuperare alla rivoluzione alcune affermazioni rivoluzionarie?»” da Con Pier Paolo Pasolini, op. cit., pp. 99-100. Cfr. inoltre la poesia Ode a Carlo Martello in P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., pp. 2338-2339, in cui ipotizzava “follemente” come sarebbe potuta essere la storia d’Europa se a Poitiers avessero vinto gli arabi.

[76] Da Ideologia e poetica, a cura di Gideon Bachmann, cit., p. 90.

[77] Da Eros e cultura, un’intervista rilasciata a Massimo Fini pubblicata su «L’Europeo», 19 settembre 1974; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1708-1718, a p. 1709.

[78] “[I critici] rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire” da Tetis, cit., p. 262.

[79] Ibidem.

[80] Per comodità, d’ora in poi, indicherò come “Decameron” il film di Pasolini, e come “Decamerone” l’opera del Boccaccio, eccettuando i titoli delle indicazioni bibliografiche in cui manterrò la scrittura originale.

[81] In realtà le novelle che compaiono nel Decameron sono dieci poiché la novella di Alibech fu tagliata in fase di montaggio (vedi oltre).

[82] Da Decameron, intervista con P.P. Pasolini a cura di Nabil Reda Mahaini, cit., a p.65.

[83] Cfr. la sceneggiatura scritta in appendice alla sceneggiatura desunta dal film Decameron in P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, a cura di Giorgio Gattei, Cappelli Editore, Bologna 1975; ora anche in edizione Mondadori, Milano 1990, pp.69-78; oppure con le sceneggiature originali in P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, Milano 1995, pp. 152-166.

[84] Cfr., ad esempio, la novella di Federigo degli Alberighi (IV, 9) che inizialmente “in cortesia spendendo si consuma” in seguito “miglior massaio fatto” può arricchirsi e vivere felice. Secondo Baratto, però, i valori di provenienza cortese che devono essere recuperati dal passato sono preminenti rispetto a quelli di derivazione borghese che “tendono a collocarsi su un piano subalterno, costituiscono il supporto indispensabile più che l’ideale normativo della convivenza umana”; M. BARATTO, Realtà e stile nel Decameron, Neri Pozza, Venezia, 1970.

[85] Riporto il brano per esteso:

“Capi, padri, signori: i) I più adorabili
di tutti sono quelli che non sanno di avere diritti.
ii) Sono adorabili anche quelli che pur sapendo
di avere dei diritti, non li pretendono.

iii) Sono abbastanza simpatici, poi, quelli
che lottano per i diritti degli altri...”

Dalla [Postilla in versi] a P.P. PASOLINI, Lettere luterane, op. cit., ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 718-721, a p. 721.

[86] Da Intervista con P.P. Pasolini, in «Cinemasessanta» n. 87/88, gennaio-aprile 1972; il corsivo è mio.

[87] Da Io e Boccaccio, intervista rilasciata a Dario Bellezza, cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1652.

[88] Ad esempio: G. FOFI, Pier Paolo Pasolini: Decameron, su «Quaderni Piacentini» n. 44/45, 1971.

[89] Ad esempio si può confrontare il napoletano del Decameron con quello dei compari del marito di Nannina in Accattone. Da notare il ritorno (nel Decameron ma anche nei Racconti di Canterbury) della canzone Fenesta ca’ lucive di cui si parlerà più avanti.

[90] Da Io e Boccaccio, intervista rilasciata a Dario Bellezza, cit.

[91] Secondo alcuni Boccaccio da vecchio rinnegò il capolavoro della maturità per le «sconcezze» che in esso erano presenti; questa convinzione si rivelò una chimera già nel 1962 quando Vittore Branca identificò nel codice Hamilton 90 di Berlino una copia autografa del Decamerone scritta negli ultimi anni di vita dello scrittore fiorentino. Pasolini però sembra dare parzialmente credito alla vecchia tesi (rimasta, per altro, in alcuni casi invalsa anche nella critica più recente) del “Boccaccio bigotto”.

[92] Da C’est le Décameron qui m’a choisi, «La Galerie», n. 111, dicembre 1971, p. 88.

[93] Da Con Pier Paolo Pasolini, op. cit. p. 100.

[94] P.P. PASOLINI, La ricotta, sceneggiatura letteraria, op. cit., vol. 2 p. 845.

[95] Da Decameron, intervista con P.P. Pasolini a cura di Nabil Reda Mahaini, cit., a p.65.

[96] Una possibile ragione della caduta dell’episodio girato a Sana’a nello Yemen, può essere l’intenzione di riservare al solo Fiore delle Mille e una Notte le ambientazioni “arabe” e “barbariche”.

[97] L’episodio, escludendo la I parte, è completamente inventato rispetto alla quinta novella boccacciana della VI giornata, la quale parla unicamente di Giotto (e non un suo allievo “dell’alta Italia”) e di Forese Rabatta che vengono sorpresi dalla pioggia e ridono del loro misero aspetto (vedi più oltre nella trattazione del singolo episodio).

[98] Per “trista vergogna” si deve intendere non la contrizione di chi si pente, ma «quella che nasce dal dispetto di vedersi scoperto e dal cruccio dell’umiliazione» (Sapegno). Riporto per esteso il passo dantesco (Inf. XXIV, 127-132):

E io al duca: «Dilli che non mucci
e domanda che colpa qua giù ‘l pinse;
ch’io ‘l vidi uomo di sangue e di crucci».

E ‘l peccator, che ‘ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso di me l’animo e ‘l volto,
e di trista vergogna si dipinse;”

Si ricordi, inoltre, la lettura romantica, intrisa di satanismo byroniano, del passo di Vanni Fucci come espressione de «l’orgoglio del peccatore».

Mi sembra superfluo ricordare in questa occasione il rapporto continuo con Dante che Pasolini ebbe nella sua carriera (dall’originario progetto della Mortaccia a Petrolio, dalla citazione nei titoli di testa di Accattone alla suddivisione in gironi di Salò, ecc.).

[99] Da ricordare, inoltre, la similitudine (che sopra ho chiamato “assonanza”) tra il racconto del vecchio (ma soprattutto l’originale boccacciano) e l’episodio successivo di Masetto nel convento di monache.

[100] Inoltre il rapporto risulta viziato e corrotto per il fatto di non essere spontaneo ma prezzolato.

Si potrebbe trovare una similitudine piuttosto esteriore tra Pasolini e Ciappelletto (del cui confronto parlerò più avanti) ricordando i racconti (e gli abbozzi di racconto) dei primi anni romani e, naturalmente, Ragazzi di vita che trattano la tematica della prostituzione maschile. Cito, per fare un esempio, il racconto Giubileo in P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., pp. 242-257. Per il rapporto del Pasolini uomo con i “facili” incontri omosessuali (non necessariamente prezzolati) dei primi anni romani si veda E. SICILIANO, Vita di Pasolini, op. cit., pp. 159-161 e p. 168; in particolare si noti la dialettica peccato-purezza e l’ossessione del «Demone del Riccetto» (Siciliano). Ma, mi rendo conto, la tematica è vastissima e radicata in tutta l’opera e in tutta la vita (fino alla morte) del poeta.

[101]Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso…

[102] Si veda il grottesco saluto con cui si congeda da Ciappelletto: «E, mi raccomando, torna con la grana!» accompagnato dal gesto eloquente (anche troppo) del pollice e dell’indice.

[103] Cfr., in modo particolare, L. MICCICHÉ, Pasolini nella città del cinema, op. cit., pp. 93-122, e soprattutto il paragrafo Cecafumo: un’inquadratura «ideologica», pp. 108-116.

[104] Vedi la famosissima sequenza del tuffo dal ponte degli angeli.

[105] Pasolini, in tutta la sequenza della confessione, calca fortemente la mano del sarcasmo e del grottesco; la recitazione di Franco Citti e, soprattutto, quella di Giuseppe Zigaina, che interpreta il frate, è iperbolicamente deformata man mano che si avvicina all’acme della vicenda. Si vedano gli insistenti e piagnucolosi «» del frate che vuole strappare la confessione del “gran peccato” opposti ai reiterati «Nooo!» del “penitente”.

[106] Mi riferisco al passo dantesco (Purg. V, 104-107) su Buonconte da Montefeltro citato da Pasolini, fra l’altro, nei titoli di testa di Accattone:

“…l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ‘l mi toglie…”

[107] Dalla prima parte dell’intervento alla Terza Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro (27 maggio-4 giugno 1967), uscito con il titolo La paura del naturalismo (Osservazioni sul piano-sequenza), su «Nuovi Argomenti», n.s., n. 6, aprile-giugno 1967, pp. 11-23; poi in P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., pp. 1555-1561, alle pp. 1560-1561. A quanto mi risulta, questa dovrebbe essere la prima enunciazione pubblica di questo concetto, inoltre in questo intervento Pasolini introduceva le sue argomentazioni sul p.s. e sul significato dato dal montaggio facendo l’esempio delle riprese amatoriali dell’omicidio di J.F. Kennedy

[108] Ibidem. Riporto il testo per esteso (il corsivo è nell’originale):

“È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti significativi (e non più modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile,certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell’ambito […] di una Semiologia Generale). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.

[109] Secondo Pasolini era necessaria una Semilogia Generale per descrivere il “linguaggio della realtà” di cui il Cinema (inteso come langue astratta contrapposta alla parole della concreta realizzazione filmica) è la “lingua scritta”. Devo necessariamente astenermi dall’approfondire questo argomento vasto e complesso che meriterebbe una trattazione autonoma ben più esaustiva; perciò rimando ai saggi e agli interventi pasoliniani sul cinema raccolti in Empirismo eretico ed in particolare a La lingua scritta della realtà, Essere è naturale, Res sunt nomina, Il non verbale come altra verbalità e soprattutto Il codice dei codici in cui si delineava il concetto di un Ur-codice a fondamento di tutti i sistemi linguistici. Si veda inoltre, per uno sguardo d’insieme di questa parte della saggistica pasoliniana, G.P. BRUNETTA, Gli scritti cinematografici di Pasolini, «La Battana», n. 32, marzo 1974.

[110] «Rinascita», a. XXIII, n. 33, 25 agosto 1967, col titolo I sintagmi viventi e i poeti morti; poi in P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., pp. 1573-1581. Pasolini riteneva questo articolo un’appendice della relazione tenuta a Pesaro nel maggio-giugno 1967 (vedi sopra).

[111] Purg. III, 103 ss.

[112] P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., p. 1575. I corsivi sono miei.

[113] Ibidem.

[114] Ritratto irriverentemente come un contadino paonazzo a cui è stata calcata in testa la mitra a forza e che impugna il pastorale come se fosse un badile.

[115] Non mi sento di avallare fino in fondo la tesi di coloro (tra cui lo stesso Zigaina) che vedono nel personaggio di Ciappelletto un autoritratto del regista. Sicuramente, però, sono legittimi e affascinanti i parallelismi tra la solitudine, la diversità e, d’altro canto, la compromissione con il potere rappresentati da Ciappelletto e la diversità “razziale” dell’artista, isolato dal consorzio civile, che critica il neocapitalismo ma sostanzialmente lo giustifica e lo fortifica finendo per esserne inglobato  compromettendosi con l’industria culturale (così come Ciappelletto insulta i due usurai per poi dichiarare di aver scherzato). Oppure si pensi alla scena del sacramento sul letto di morte, quando Ciappelletto confessa implicitamente la propria omosessualità e si rammarica di aver bestemmiato la madre; o si confronti la scena della processione dei fedeli davanti al corpo morto del “santo” con le poesie pasoliniane che parlano del ritrovamento del cadavere dell’artista o delle reazioni alla sua morte, eccetera.

    Cfr., soprattutto, G. ZIGAINA, Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 1995.

[116] P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., p. 1575. Il corsivo è mio.

[117] Io e Boccaccio, intervista rilasciata a Dario Bellezza, cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1654-1655, in cui, fra l’altro, Pasolini aveva dichiarato: “Io e gli attori (una quarantina di protagonisti, quasi tutti presi dalla strada, e assolutamente privi di ogni ambizione (…)) abbiamo fatto amicizia sul set come compagni di viaggio in un vagone di seconda, dopo aver bevuto insieme un bicchiere di vino. Avevo, si vede, la coscienza pulita nei loro riguardi: non li adoperavo per un’opera (d’arte!) estranea a loro, per poi buttarli a mare: ma giocavo con loro, e giocando ci siamo divertiti, e divertendoci ogni estraneità è sparita. Se dovessimo rincontrarci, per le strade di Napoli, ci rincontreremmo come vecchi amici.

[118] Sempre dall’intervista a Dario Bellezza: “Malgrado alla violenza non effabile che passa a palate sullo schermo, il Decameron si presenta, credo per la prima volta nella mia carriera, come un film recitato: almeno così mi sembra dal materiale che sto montando

[119] Tra le numerose analogie possibili, presenti nella produzione pasoliniana letteraria (i racconti e, soprattutto, i romanzi romani, e poi Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo) e cinematografica (i primi film “sottoproletari”), richiamo alla memoria le figure dei papponi napoletani, violenti e crudeli, presenti in Accattone.

[120] Il nuovo italiano che, secondo Pasolini, era stato irradiato dai centri tecnico-industriali, dalla televisione e dalla scuola dell’obbligo a danno dell’italiano umanistico-letterario e dei dialetti popolari. Cfr. il Capitolo I riguardo alle implicazioni e alle “contaminazioni” ideologiche presenti nella Trilogia della vita; inoltre questa osservazione sembrerebbe confermare quanto detto, all’inizio di questo capitolo, a proposito della lingua (e del dialetto) usati nel Decameron.

[121] «A’ quali [i compagni e l’albergatore] ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente, e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in un anello, dove per comprare cavalli era andato.»

[122] Ricordo la figura del frate e del vescovo-contadino nell’ultima parte dell’episodio di Ciappelletto.

[123] Così diversa dai sorrisi pieni e puri che si trovano, ad esempio, nell’episodio di Masetto.

[124] Come ho gia detto più sopra l’episodio, eccetto la prima parte, è completamente inventato.

[125] La figura del vecchio contadino a cui “lu signore nun dice mai di no” viene amabilmente tratteggiata da Pasolini come quella di un “semplice”, pago della propria esistenza e felice per la pioggia, questo risalta per contrasto se si confronta il p.p. del vecchio con quello tormentato e inquieto dell’artista, “il diverso”.

[126] Pasolini dichiarò di aver trasformato Forese in un “avvocataccio napoletano”; cfr. l’intervista Io e Boccaccio, rilasciata a Dario Bellezza, cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1649.

[127] Accanto al più volte usato parallelo negro-intellettuale Pasolini poneva, mutuandolo dal Proust di Sodome et Gomorrhe, il parallelo ebreo-omosessuale. Cfr. l’articolo pubblicato su «Tempo» n. 51, 14 dicembre 1968; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1156-1159, alle pp. 1158-1159.

[128] Dal processo, del 1956, per Ragazzi di vita (ma si potrebbe anche partire dai fatti di Ramuscello e dalla conseguente espulsione dal Pci del 1949) fino ai sequestri dei film della Trilogia della vita e di Salò, passando attraverso vari scandali e denuncie calunniose come quella della tentata rapina del Circeo. Cfr. Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977.

[129] P.P. PASOLINI, Lettere luterane, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 557-558. I corsivi sono miei.

[130]La prima apparizione del termine “bestia da stile” risale ad una conversazione con A. Aprà e L. Faccini uscita col titolo Dialogo I su «Cinema e Film», a. I, n. 1, inverno 1966-67; riproposta, parzialmente modificata, in P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit., pp. 1541-1554, di cui riporto un passo (alle pp. 1542-1543):

“[...] È molto spiacevole, [...] per un autore, sentirsi sempre considerare come una «bestia da stile».

E che tutto, per quel che lo riguarda, venga ridotto a pedina per comprendere la sua carriera stilistica.

[...] È un modo di esorcizzarmi, e forse di darmi dello stupido: uno stupido nella vita, che è magari bravo nel suo lavoro. È quindi anche un modo per escludermi e di mettermi a tacere.”

Bestia da stile, inoltre, è anche il titolo di un testo teatrale, scritto qualche anno dopo l’intervista, pubblicato postumo, Garzanti, Milano 1979.

[131]J. DUFLOT, Entretiens avec…, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1532.

[132]Questi colori sono i colori su cui si fonda tutto il film: la scena ha quindi una funzione quasi di «poetica» del film stesso.” Dal trattamento del Decameron, in P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p. 87.

[133] Cfr. i già citati saggi sul cinema presenti in P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, op. cit.

[134] Come ho già detto, l’Allievo di Giotto compare anche all’inizio dell’episodio di donno Gianni da Barolo, mentre osserva assorto compare Pietro che, al mercato con donno Gianni, accarezza e bacia un cavallo. Questa sequenza, però, non può essere considerata parte integrante dell’episodio-cornice, perché l’Allievo di Giotto risulta completamente escluso dall’azione (guarda soltanto), mentre risulta già iniziato il racconto delle vicende dei due compari.

[135] La postura del Cristo morto, come asserito da più parti, sarebbe alla base delle inquadrature di Ettore sul letto di contenzione in Mamma Roma. Evidentemente, nel caso dell’episodio del Decameron, le ragioni della citazione (se di citazione si tratta) non hanno quella pregnanza semantica che avevano nel secondo film pasoliniano, ma rimangono legate quasi esclusivamente al piano formale.

[136] Sono le parole pronunciate da Totò-Iago mentre contempla il cielo alla fine di Che cosa sono le nuvole?, episodio di Capriccio all’italiana (1967).

[137] Da un articolo postumo uscito su «Gente», 17 novembre 1975, col titolo Questo è il mio testamento; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., con il titolo [Quasi un testamento], pp. 853-871, a p. 865.

[138] P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., p. 1899; la poesia è datata 11 maggio 1969.

[139] P.P. PASOLINI, La ricotta, sceneggiatura letteraria in Alì dagli occhi azzurri, op. cit.; ora anche in  P.P. PASOLINI, Romanzi e racconti, op. cit., vol. 2 p. 845.

[140] In Medea il centauro “del mito” dice a Giasone fanciullo:

“Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tienilo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito – e comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare!”

[141] A questo proposito si confrontino gli articoli scritti da Pasolini a proposito dell’aborto in P.P. PASOLINI, Scritti corsari, op. cit.; oppure il capitolo Paradiso perduto in P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, op. cit.; entrambi anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit.; rispettivamente alle pp. 265-534 e alle pp. 1545-1550.

[142] Nella poesia Coccodrillo, scritta nel 1968 su commissione della rivista «Avantgarde» e pubblicata in appendice all’edizione del 1983 de Il sogno del centauro, si legge:

“...egli ricercava l’Autorità temuta dalla madre
non l’Autorità
esercitata dal padre – fascista, lui,
povera creatura venuta dalla predetta Bizantagna,
solo per dare pena e fare ancor più pena,
e poi crepare, come di morte naturale, di delusione.”

P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie,op. cit., p. 2086.

[143] P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1544. I corsivi sono miei.

[144] Lettera aperta a Silvana Mangano, pubblicata sul «Tempo» n. 47, 16 novembre 1968; poi in P.P. PASOLINI, Il Caos, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1140-1143. I corsivi sono nel testo.

[145] Da Io e Boccaccio, intervista rilasciata a Dario Bellezza, cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1649.

[146] “...abbiamo fatto amicizia sul set come compagni di viaggio in un vagone di seconda, dopo aver bevuto insieme un bicchiere di vino...”. Ibidem, p. 1655.

[147] Per la trascrizione dei dialoghi mi sono basato in parte su: P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, a cura di Giorgio Gattei, op. cit.

[148] Ricciardo viene immediatamente connotato come “colui che ama” per il gesto che fa, dopo il brindisi, di appoggiarsi alla colonna come sopraffatto da un’angustia sentimentale; gesto immediatamente “alleggerito” dal successivo fischiettare del ragazzo che riporta la narrazione al tono sereno che domina l’episodio.

[149] Io mi sono accorto di questa presenza solo dopo ripetute visioni, non avendone trovato nessun riferimento nella bibliografia.

[150] Si vedano, ad esempio, le già citate recensioni al Decameron di Giovanni Grazzini e Goffredo Fofi, rispettivamente sul «Corriere della Sera» e su «Quaderni Piacentini».

[151] Non a caso, sia la novella di Lisabetta sia, naturalmente, Romeo and Juliet hanno goduto di particolare fortuna durante il Romanticismo. Nonostante questo, però, non sono d’accordo con Fofi quando dice (nella già citata recensione di «Quaderni Piacentini») che Pasolini «ha trattato [la novella di Lisabetta] secondo illimpiditi schemi romantici» (anche se qui «romantico» deve essere inteso in senso lato).

[152]Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro (...); e avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano.”

[153] La fotografia del Decameron è diretta da Tonino Delli Colli.

[154] In Boccaccio la novella continuava con il reperimento, da parte dei fratelli, della testa dentro il vaso e con la successiva morte di Lisabetta per la mancanza dell’amata reliquia su cui piangere.

[155] L’aspetto del prete ricorda, per certi versi, quello del giornalista petulante della Ricotta e del signor Pellissier di Mamma Roma, entrambi interpretati da Vittorio La Paglia.

[156] Tra i contadini che festeggiano si intravede, ad un certo punto, anche quel Gennarino che aveva prestato i mantelli a Forese e all’Allievo di Giotto all’inizio dell’episodio omonimo.

[157] In realtà, nella novella boccacciana, è Tingoccio ad avere qualche remora interiore, infatti non disvela all’amico la propria tresca «per la cattività che a lui medesimo pareva fare d’amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l’avesse saputo...».

[158]Ogni libertà conquistata genera la propria servitù”. P.P. PASOLINI, Il sogno del centauro, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 1475.

[159] Dalla conferenza stampa al Festival di Berlino 1972, in «Jeune Cinéma» n. 68, febbraio 1973; cit. in Pier Paolo Pasolini: il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano de Giusti, Cinemazero, Pordenone 1979, p. 98.

[160] Cfr. l’introduzione di Attilio Brilli, Sulla via di Canterbury, all’edizione italiana dei Canterbury Tales pubblicata da Rizzoli; G. CHAUCER, I racconti di Canterbury, Rizzoli Editore, Milano 1978, traduzione di Cino Chiarini e Cesare Foligno; pp. 9-17. D’ora in poi per i riferimenti e le citazioni dai Canterbury Tales mi baserò su questa edizione italiana.

Per alcune corrispondenze testuali presenti nella sceneggiatura originale si può affermare, con buona sicurezza, che Pasolini abbia utilizzato proprio questa traduzione nel suo lavoro attorno ai Racconti di Canterbury.

[161] Intervista di Rosamund Lomax e Oswald Stack [pseudonimo di Jon Halliday], «Seven Days», 17 novembre 1971; poi in Pasolini su Pasolini, conversazioni con Jon Halliday, trad. it. di Cesare Salmaggi, Guanda, Parma 1992 (ed. or. O. STACK, Pasolini on Pasolini, Thames and Hudson, London- New York 1969); L’intervista compare unicamente nell’edizione italiana; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1394-1399, alle pp. 1395-1396.

[162] Nella sceneggiatura originale, Pasolini traduce «Summoner» con «Cacciatore di Streghe», io preferisco utilizzare la traduzione della versione italiana dei Canterbury Tales.

[163] I contadini assaltarono Londra nel 1381, mentre la Bibbia in inglese di Wycliffe è del 1380 (la stesura della maggior parte delle novelle dei Canterbury Tales viene fatta risalire, all’incirca, al 1387; anche se Chaucer si dedicherà all’opera fino alla morte, avvenuta nel 1400).

[164] Boccaccio a spasso nei pub di Londra, intervista rilasciata a Lia Quilici, «L’Espresso», 11 luglio 1971; cit. in Pier Paolo Pasolini: il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano de Giusti, op. cit., p. 100.

[165] Intervista di Rosamund Lomax e Oswald Stack, cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., alle pp. 1396-1397.

[166] L’edizione italiana dei Racconti di Canterbury venne elaborata in gran parte a Bergamo per mezzo di doppiatori non professionisti scelti nella città e nei dintorni.

[167] «Vi prego pure di scusarmi se non ho disposta la gente nel racconto secondo il loro stato come si dovrebbe; poco so come ben capite»

[168] Ad esempio, al Racconto del Mugnaio che ha come protagonista un legnaiolo cornificato, risponde il Racconto del Fattore (legnaiolo anch’egli) che ha come protagonista un mugnaio; oppure, più sottilmente, al Prologo al racconto della Donna di Bath, che sottomette tutti i cinque mariti tra cui uno studente, corrisponde il Racconto del Chierico di Oxford che riprende la storia boccacciana di Griselda sulla virtù muliebre.

[169] Per il titolo dei racconti mi rifaccio alla citata edizione Rizzoli dei Canterbury Tales.

[170] Indico con «Chaucer» gli intermezzi, non presenti nell’originale, interpretati da Pasolini.

[171] In realtà, l’episodio è tratto dal lungo prologo che la Donna di Bath fa al suo racconto vero e proprio.

[172] Cfr. il Capitolo II al paragrafo 2.1. relativo all’episodio di Ciappelletto.

[173] A questo proposito si può ricordare un’altra (celeberrima) rilettura novecentesca dell’incipit chauceriano, cioè i primi quattro versi di The Waste Land di Thomas S. Eliot:

“April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.”

Aprile è il mese più crudele, generando
Lillà dalla terra morta, mischiando
Memoria e desiderio, eccitando
Spente radici con pioggia di primavera.”

T.S. ELIOT, La terra desolata, introduzione, traduzioni e note di Alessandro Serpieri, Rizzoli Editore, Milano 1982, p. 74-75.

[174] Nella sceneggiatura originale, invece, la canzone cantata dall’Indulgenziere non viene definita; cfr. P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p246.

[175] Per uno sguardo d’insieme su tutta la Trilogia della vita rimando, però, al Capitolo V.

[176] Nei Canterbury Tales i due si arrampicano su un pero.

[177] Mi riferisco, in particolar modo, al gesto di Caterina dopo l’amplesso nell’episodio “dell’usignolo” nel Decameron.

[178] Presenti anche nei Canterbury Tales.

[179] Cfr. il paragrafo relativo all’episodio nel Capitolo II.

[180] Interpretata, curiosamente, proprio da Elisabetta Genovese, già Caterina nel Decameron.

[181] Cfr. Capitolo V.

[182] Si tenga presente, inoltre, che queste sono le prime scene esplicite di un rapporto omosessuale in Pasolini (che in questo caso fu un iniziatore), prima c’erano state le immagini solamente allusive di Teorema, in seguito la rappresentazione dell’erotismo omosessuale ritornerà solo in Salò.

[183] È curioso il fatto che, in questa scena, lo Straniero (che poi si rivelerà essere il diavolo in persona) osserva l’Arcidiacono e l’Apparitore facendo finta di seguire una processione di suore in preghiera.

[184]Dalla sceneggiatura originale (P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., pp. 366 e ss.;) ma anche da quella desunta dal film (P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Cappelli, op. cit., p. 96) si deduce che il personaggio vestito di viola è un arcidiacono; mentre alcuni elementi (come, ad esempio, il fatto che impugni un pastorale) farebbero pensare che si tratti di un vescovo.

Nei Canterbury Tales l’Arcidiacono si occupava delle punizioni temporali per conto del vescovo della città: “La gente che sparagnasse le decime o le offerte egli [l’Arcidiacono] faceva miseramente lamentare, perché prima che l’arroncigliasse il vescovo con il suo uncino [un riferimento all’estremità superiore del pastorale stravolta a simbolo della rapacità e del potere inquisitorio della chiesa], si trovava scritta nel quaderno dell’Arcidiacono. E allora era in suo potere, per diritto di giurisdizione, d’infligger castigo.

[185] Tra i quali vi è appunto un “monsignore”, simile in tutto e per tutto agli altri tre.

[186] Ricordo che nella sceneggiatura originale Pasolini , invece di «Apparitore», utilizza il termine «cacciatore di streghe».

[187] Si ricordi l’analogie fatte, in più occasioni, da Pasolini tra la nuova generazione di allora e quella della repubblica di Weimar. Cfr. il Capitolo V per una trattazione più estesa del “Genocidio culturale” e delle sue influenze sull’ultimo Pasolini.

[188] Non ho trovato alcuna notizia in proposito nella bibliografia presa in esame, per cui si tratta solamente di una mia osservazione derivata dalla visione in VHS del film.

[189] Nei primi piani dei notabili il telo dipinto viene rimosso.

[190] Ai piedi del palco ritornano gli alabardieri caricaturali che si erano già visti davanti al palazzo di Gennaio, nel Racconto del Mercante.

[191] Molte inquadrature possono essere considerate  come soggettive o semisoggettive dello Straniero.

[192] Anche nella stesura della sceneggiatura originale, i due ragazzi di vita del film sono ancora due prostitute conniventi con l’Apparitore; cfr. P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p. 365 e ss.

[193] Nella poesia In morte di P.P. Pasolini del gennaio 1976, Franco Fortini scrisse:

                            (…)
”I tuoi versi stanno. Tu mostruoso gridi.
Così le membra dello squartato sul palco.”

Da «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1976.

[194] Si consideri, fra l’altro, la ripresa  di Franco Citti di spalle che - dopo lo sguardo d’accusa - viene “cercato” dalla cinepresa a mano, che gli gira attorno come per indicarlo, per isolarlo, per renderlo “plasticamente esemplare”.

[195] Pasolini sembra, in questo modo, risolvere positivamente (en poète, chiaramente) la questione dell’effettiva conoscenza o meno, da parte di Chaucer, del testo boccacciano.

[196] Nei Canterbury Tales si legge invece:

“Qui finisce il Libro dei Racconti di Canterbury composto da Geoffrey Chaucer della cui anima Gesù Cristo abbia misericordia. Amen”

[197] Si ricordi, per analogia, il modo in cui venivano introdotte alcune novelle nel secondo tempo del Decameron, con le prime pennellate date dall’Allievo di Giotto a cui seguivano le prime inquadrature del nuovo episodio. Ma, come gli episodi del primo film sembravano scaturire dalla materia dell’affresco (che, nelle immagini e nei corpi, parlava lo stesso linguaggio della realtà), così nei Racconti di Canterbury il personaggio di Chaucer limita la propria azione creatrice alla registrazione, al ricordo, alla mediazione e alla trasfigurazione letteraria.

[198] Con Pier Paolo Pasolini, op. cit., p. 111.

[199] Cfr. P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., pp. 291-304.

[200] Per la ricostruzione di questa parte della vita di Pasolini mi sono basato, quasi esclusivamente, su N. NALDINI, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989, pp. 359-362.

[201] Ibidem, p. 361.

[202] In Bestemmia, nella sezione Poesie inedite, compaiono solo sei sonetti.

[203] Questi sonetti rappresentano un ritorno del poeta alla composizione classica, la cui forma, però, “risulta poi violata, stuprata da una voluttà di annientamento che sperde parole ed emozioni” (Siciliano). Nell’indicare l’oggetto amato, Pasolini utilizza il “voi”, si rivolge al “mio Signore” che inspiegabilmente ha reciso “il bene” rappresentato dalla gaiezza che questi incarnava naturalmente. Secondo Enzo Siciliano questi componimenti possono essere confrontati positivamente con i Sonnets di Shakespeare e con la Ballad of Reading Gaol di Wilde. Cfr. E. SICILIANO, Vita di Pasolini, op. cit., pp. 334-337.

[204] Da P.P. PASOLINI, Bestemmia. Tutte le poesie, op. cit., alle pp. 2344, 2345 e 2348.

[205] Con ciò non voglio assolutamente individuare corrispondenze univoche di dipendenza tra la vita del poeta e le sue opere e la sua ideologia (e viceversa); ma voglio dire solamente che, in Pasolini, Vita, Opera e Ideologia appaiono (rispetto ad altri autori) fortemente compenetrate le une nelle altre e quindi reciprocamente imprescindibili nel caso di un’analisi particolare.

[206] Qualcosa di simile accadrà in Salò, dove Pasolini ricorre alla doppia metafora fascismo\DeSade per affrontare “l’universo orrendo” del neocapitalismo.

[207] A differenza del protagonista, per certi versi analogo, della Sequenza del fiore di carta, che soccombe proprio per la colpevolezza della propria incoscienza.

[208] Cfr. nel Decameron il viso di Ninetto\Andreuccio che spunta da dentro la botte dove si è nascosto per sfuggire ai due ladri o dalla tomba del vescovo; oppure, per evidenziare il ricorrere di questa immagine in tutto l’arco dell’esperienza artistica pasoliniana, si pensi alla testa ricciuta che emerge, solo con gli occhi, da dietro un riparo, che compare in due disegni distinti, l’uno realizzato in Friuli dal giovane poeta, l’altro a Chia negli ultimi anni di vita (cfr. l’apparato fotografico che compare in G. ZIGAINA, Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini, op. cit.; dove, fra l’altro, l’autore rileva l’inquietante somiglianza di Pino Pelosi con questo stereotipo dell’immaginario del poeta).

[209] Soprattutto nel paragrafo riguardante il Racconto del Mercante.

[210]Alison, Alison, Alison, amore mio caro, io non desidero soltanto il tuo corpo, ma sono innamorato di te con tutta la mia anima… Non ti lascerò più, sarò il tuo servo, il tuo schiavo, ma almeno voglimi un po’ di bene!

[211] Vedi il canto goliardico dello Studente, più volte ripetuto (e che ritorna anche nel Racconto del Fattore):

“Flecte quod est rigidum
Da perenne gaudium.”

Che poi diventa (storpiato in una preghiera prima dell’ascesa ai “tini salvifici”):

“Flecte quod est rigidum
Fove quod est frigidum
Rege quod est devium
Amen.
Alleluja.”

[212] Radicalmente diversa è l’interpretazione che dà di queste scene Adelio Ferrero, che vede nei “primi piani di Assalonne (…) scontornati e galleggianti in una cromaticità notturna e illividita” un esempio di “quell’aura di tristezza greve, di febbre cupa e ossessiva della carne e del coito, che si adagia spesso, come una patina turpe e diffusa, su volti figure e gruppi”; A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, op. cit., p. 124.

[213] Anche l’atrocità della beffa finale (il ferro rovente impresso sul sedere di Nicola) può essere vista – in opposizione a quella architettata dallo Studente – come una manifestazione della violenza “barbara” e “medievale” che caratterizza questo universo.

[214] Si pensi al morso finale sul naso (che nella sceneggiatura originale può essere anche “un terribile calcio nei coglioni”) e al suo evidente significato

[215] La Donna di Bath, assieme all’Indulgenziere e all’Oste, è la figura maggiormente delineata di tutto il Prologo generale.

[216] Ricordo che l’episodio pasoliniano è in realtà tratto dal Prologo al Racconto della Donna di Bath che compare nei Tales.

[217] Sotto questo punto di vista la scena finale del morso “castratore” al naso può essere correlata all’emancipazione sull’uomo ottenuta dalla Donna di Bath.

[218] Si è già notata, soprattutto a proposito della novella di Ricciardo nel Decameron, l’importanza e il significato che ha questo gesto nei tre film pasoliniani.

[219] In realtà solo la prima è un’esatta citazione di S. Paolo (1 Timoteo 6, 10), per le seguenti l’aggettivo “paolino” va riferito allo “spirito” dell’invettiva. Pasolini infatti individuava, negli scritti del santo, due anime contrapposte: quella sublime del mistico toccato dalla grazia, e quella macerata del fariseo moralista e persecutore.

L’influenza degli scritti di S. Paolo sull’opera di Pasolini, soprattutto negli ultimi anni di vita, è un elemento ravvisato da molti critici (e da Pasolini stesso); basta pensare al tono di alcune tra le Lettere luterane o gli Scritti corsari.

Ricordo, fra l’altro, il progetto, che risale alla fine degli anni ’60, di un film su S. Paolo ambientato nel mondo contemporaneo, dove Parigi, New York e Roma sarebbero state, rispettivamente, Gerusalemme, l’antica Roma e Atene, mentre San Paolo sarebbe stato un collaborazionista dei nazisti che abbraccia le ragioni della Resistenza. Il progetto del film verrà poi abbandonato, anche se un eco dell’originario progetto permase in quel Porno-teo-kolossal (titolo provvisorio) che Pasolini avrebbe voluto girare con Eduardo De Filippo tra i protagonisti.

[220] In Chaucer questa frase ha un senso diverso, poiché “Sansone… Sansone” è riferito onomatopeicamente al respiro rotto dell’ubriaco.

[221] Il sermone di Rufo viene inoltre interrotto dal solenne calcio nel sedere che gli affibbia uno degli amici, e a cui il ragazzo risponde con uno stizzito: «Stronzo!».

[222] Cfr. l’intervista rilasciata a Dacia Maraini su «L’Espresso» del 22 ottobre 1972 (ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 1695-1700), intitolata Ma la donna non è una slot machine; intervista, però, che non parla direttamente di quest’episodio ma parte da alcune constatazioni sul ruolo della donna nei Racconti di Canterbury per poi passare ad una trattazione più ampia della condizione della donna nella società contemporanea.

[223] Cfr. M. DE BENEDICTIS, Il concetto di «vita», «Narrativa», febbraio 1994, pp. 25-64.

[224] A. FERRERO, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, op. cit., p. 123 e p.125; in realtà Ferrero ascrive la “elisabettianità” un po’ a tutti i racconti, mentre – in un altro contesto – indica nel Racconto dell’Indulgenziere (assieme a quello del Frate) uno degli episodi più riusciti dell’intero film.

[225] Vista la brevità dei due episodi, preferisco trattarli in un unico paragrafo.

[226] Vagamente ispirati ai dipinti di Bosch, ma con numerose contaminazioni sempre nell’area fiamminga.

[227] Vedi il diverso atteggiamento di Pasolini-Chaucer rispetto a quello di Pasolini-Allievo di Giotto.

[228] Per l’aggettivo «sinfonico» mi rifaccio ad una affermazione di Lino Micciché, che definisce come “essenzialmente sinfonica” la struttura portante de Il fiore delle Mille e una notte (vedi oltre). Cfr. L. MICCICHÉ, Pasolini nella città del cinema, op. cit., pp. 187-188.

[229] Di origine indiana è, ad esempio, la storia-cornice di Shahrazàd e della morte evitata continuamente attraverso la curiosità destata nel re per i racconti che, di notte in notte, la ragazza gli narra.

[230] Dall’introduzione di Francesco Gabrieli all’edizione Einaudi (la prima ed unica integrale e tradotta dall’arabo); Le mille e una notte, Prima versione integrale dall’arabo diretta da Francesco Gabrieli, Einaudi, Torino 1948 (e successive edizioni), pp. XXII, XXIII. Questo, molto probabilmente viste alcune precise corrispondenze testuali e di intreccio, è il testo usato da Pasolini nel suo lavoro attorno al film, o comunque è il testo principale di riferimento integrato, in alcuni casi, da altre edizioni (vedi oltre).

[231] Ibidem, p. XVI.

[232] Ibidem, pp. XVI-XVII.

[233] Ibidem, p. XX.

[234]Non sono stato fedele alla lettera alle Mille e una notte: ho fatto delle cose arbitrarie. Ma quello che mi interessava non era rappresentare, sia pur indirettamente, la cultura araba, o siriana ecc., ma era una forma, diciamo così, drammatica, fantastica, di cultura popolare; la mia polemica era contro la cultura della classe dominante eurocentrica.” Dalla conferenza stampa tenuta a Cannes, nel maggio del 1974; cit. in Pier Paolo Pasolini: il cinema in forma di poesia, op. cit., pp. 103-104.

[235] Esemplare ma sicuramente non esaustiva.

[236] Con Pier Paolo Pasolini, op. cit., pp. 109-110. Si noti il sapore “escheriano” (ma anche, più semplicemente, musivo) dell’immagine finale delle figure realistiche incastrate fra di loro.

[237] Le Mille e una notte dell’edizione Einaudi si rifanno ad una ristampa cairina del 1888-89 dell’edizione principe di Bulàq (1835) integrata, nel lavoro di revisione, dalla seconda edizione di Calcutta (1839-42); mentre esistono edizioni che si rifanno all’edizione di Breslavia (1826-43) o alla traduzione parziale in francese (da un manoscritto arabo proveniente dalla Siria) del Galland (1704-17), l’uomo che ebbe il merito di far conoscere l’opera in occidente.

[238] Le mille e una notte, op. cit., pp. 889-918.

[239] Ibidem, p. 1045.

[240] Ibidem, pp. 51-102.

[241] Ibidem, pp. 1037-1038. Nell’episodio pasoliniano Zobeida si chiama Zeudi.

[242] Ibidem, pp. 1023-1026. Nel film il poeta Abu Nuwàs si chiama Sium.

[243] Tra cui, in italiano, Le mille e una notte, Orsa Maggiore Editrice, Torriana 1988, pp. 389-465.

[244] Le mille e una notte, Einaudi, op. cit., pp. 440-564.

[245] Da notare anche l’importanza che hanno le musiche sul piano diegetico (e infatti questo è uno dei motivi principali per cui Micciché adotta la definizione di “sinfonico”), basti pensare a quello che può essere definito come “il tema di Dúnya” e che accompagna (dalla scena del sogno fino all’incontro finale con Tagi) tutto il gruppo di episodi narrati a Nur ed-Din da Munis; oppure si pensi all’analogo “tema di Zumurrud” che commenta i diversi rovesciamenti della fortuna nell’episodio omonimo.

[246] Per non ingenerare confusione con i titoli delle novelle delle Mille e una notte, chiamerò i singoli episodi (o le parti dei singoli episodi) con il nome dei protagonisti.

[247] P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p. 415 e ss.

[248] Ibidem, pp. 415-416. Da notare l’attrazione erotica che permea, sin da subito, da questa descrizione.

[249] Ibidem, pp. 417-418. È interessante notare come la scena della masturbazione collettiva ricordi i fatti (di per sé piuttosto comuni) che scatenarono, alla fine degli anni Quaranta, lo “scandalo di Ramuscello”, a causa del quale il poeta dovette fuggire da Casarsa per recarsi (assieme alla madre) nella capitale; cfr. Capitolo I.

[250] Almeno sul piano programmatico: infatti questo della sceneggiatura originale è solamente un progetto.

[251] Le mille e una notte, op. cit., pp. 149-179.

[252] P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p. 669.

[253] Ibidem, p. 670.

[254] Ibidem, p. 671.

[255] Ibidem, pp. 672-673, i corsivi sono nell’originale.

[256] Cfr., ad esempio, gli articoli La prima lezione me l’ha data una tenda e, soprattutto, Paragrafo sesto: impotenza contro il linguaggio pedagogico delle cose, presenti entrambi in P.P. PASOLINI, Lettere luterane, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società. op. cit., pp. 567-574.

[257] P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., pp. 673-674.

[258] “Coraggioso” è riferito al fatto che, per la prima volta in un suo film, Pasolini avrebbe manifestato questo aspetto della sua esistenza, esponendosi alla visibilità maggiore che ha il cinema nei confronti, ad esempio, della letteratura.

[259] Nell’analizzare Il fiore delle Mille e una notte, ho preferito discostarmi dalla prassi adottata per i primi due film; infatti date le caratteristiche del film e del novelliere da cui è tratto (costruzione ad incastro, scarsa differenziazione tra i personaggi, omologia delle tematiche e dei motivi salienti) ho preferito procedere per nuclei tematici distinti, evidenziando, di volta in volta, gli episodi che, per un certo aspetto, paiono più significativi di altri.

[260] Questo di potere “barbaro” e ancestrale può essere proficuamente paragonato a quello presente in Medea, nel personaggio e nel mondo di cui fa parte la strega.

[261] In realtà, nel secondo episodio, quello della festicciola del poeta Sium con i tre giovani, il sovrano Harún ar-Rashíd non compare; ma, come si vedrà fra poco, proprio questa sua assenza è significativa riguardo alla natura del potere di cui è manifestazione.

[262] Si notino, all’interno di tutto il film, le ripetute panoramiche in campo lunghissimo delle città arabe; quasi che la città (manifestazione tangibile, con le sue mura, del potere applicato) partecipi della stessa natura del paesaggio, con cui appare conciliata.

[263] Si consideri, inoltre, che Zumurrud pronuncia tra risate irrefrenabili questa battuta dall’aria apparentemente tragica «Ora conosci il mio segreto, Hayat. Se mi tradisci sarò gettata dalla torre più alta».

[264] Oppure anche quello di Bershame e Giana, che si “scoprono” reciprocamente (come aveva già fatto Caterina con Ricciardo nel Decameron) sotto lo sguardo sorridente di Harún ar-Rashíd (ancora una volta rappresentante di un potere che non reprime e non contamina il sesso) e la moglie Zeudi.

[265] Si ripensi ora, alla luce di quanto si è detto, al significato del quadruplice bacio ai quattro ragazzi arabi, da parte dell’Autore del film nella sceneggiatura originale.

[266] In realtà, il secondo momento in ordine cronologico è rappresentato dagli approcci abbozzati dallo sceicco del mercato nella seconda parte dell’episodio di Tagi, qui trascurati per la loro scarsa importanza relativamente all’argomento che sto trattando.

[267] Che non richiederebbe, necessariamente, una revisione di quanto ho detto a proposito del potere all’interno del Fiore delle Mille e una notte, visto che non ho mai negato la barbara violenza che, a volte, questo potere implica.

[268] Nelle Mille e una notte il personaggio della ragazza misteriosa non ha nome, ma viene definita solamente come «la figlia di Dalila l’imbrogliona».

[269] Pasolini effettuò le riprese del Fiore nel corso del 1973 e, mentre il primo risale alla fine del ’71, il secondo sonetto è del febbraio dello stesso anno.

[270] Ma riportato nel capitolo precedente, nel paragrafo che tratta del Racconto del Cuoco.

[271] P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p. 733. Nel film le cose vanno un po’ diversamente, Nur ed-Din si sveglia vestito e manca del tutto la scena dell’ubriacatura, mentre il rapporto sessuale con le tre sorelle è solo suggerito nella scena de ”l’indovinello della piscina”.

[272] Dall’articolo postumo Questo è il mio testamento, cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 862.

[273] Mi riferisco a “fantastico” nel senso più ampio del termine, ovvero nell’accezione “non-todoroviana” di “meraviglioso”, di “favoloso”.

[274] Dall’articolo Pasolini mille e uno, «Panorama», 30 maggio 1974, cit. in Pier Paolo Pasolini: il cinema in forma di poesia, op. cit., p. 104.

[275] E nella sceneggiatura originale, come si è visto, era esattamente così.

[276] La frase nei titoli di testa del film, infatti, è la stessa che viene pronunciata dal giardiniere di Dúnya quando questa resta stupita davanti al mosaico.

[277] Sottolineato, fra l’altro, dal ritorno di quello che ho definito come il “tema di Dúnya”.

[278] Forse è la voce dell’Asceta che muore all’inizio dell’episodio e del quale, alla fine, Yunan seguirà il destino vestendone le stesse vesti.

[279] Vedi, a questo proposito, la scena bellissima del muto colloquio tra Shazaman e la ragazza appena incontrata (ma subito amata) mentre questa viene mutilata lentamente dal demone geloso.

[280] Questo particolare, questa piccola notazione di costume, compariva nella sceneggiatura originale quando Pasolini descriveva la folla caotica del Cairo moderno:

“Intorno c’è la folla stracciona che va e viene, incessante, presa dal suo daffare senza principio né fine; le donne coi veli stretti tra i denti; i vecchi coperti dai turbantelli luridi o avvolti in burnus che sembrano vecchi asciugamani.

    Da P.P. PASOLINI, Trilogia della vita, Garzanti, op. cit., p. 415, i corsivi sono miei.

[281] Per le indispensabili premesse al concetto di Genocidio (di cui ora tratterò solo gli effetti immediati che ebbe sulla produzione pasoliniana) rimando al Capitolo I.

[282] P.P. PASOLINI, Lettere luterane, op. cit., ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 544.

[283] Si riferisce ai comportamenti codificati del consumismo neoborghese.

[284] P.P. PASOLINI, Scritti corsari, op. cit.; ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., p. 316.

[285] Ibidem, p. 382.

[286] Le riprese del Fiore delle Mille e una notte terminarono nel settembre del 1973, mentre, tra i brani riportati, il più datato è del giugno del ’74.

[287] Per il termine «genocidio» Pasolini si rifaceva a quegli scritti di Marx dove il filosofo definiva in questo modo gli effetti dell’egemonia culturale borghese nei paesi occidentali a più forte industrializzazione.

[288] Il testo integrale dell’Abiura, che io riporto in appendice, compare anche come introduzione e in appendice, rispettivamente, alla edizione Cappelli (poi anche Mondadori) e a quella Garzanti delle sceneggiature della trilogia; inoltre compare anche in P.P. PASOLINI, Lettere luterane, op. cit., ora anche in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit., pp. 599-603.

[289] Con “Tetralogia della morte” mi rifaccio ad una tesi di Lino Micciché, secondo la quale i tre film della trilogia sarebbero condizionati, oltre all’esaltazione vitalistica solo apparente, dall’ineluttabilità di una morte perennemente in agguato perché connaturata allo stesso godimento dell’esistenza. Dunque si dovrebbe parlare, sempre secondo Micciché, non di Trilogia della vita ma di Tetralogia della morte poiché i film tratti dai novellieri medievali non sono altro che fasi distinte di quella parabola che trova la sua conclusione in Salò. Cfr. L. MICCICHÉ, Pasolini nella città del cinema, op. cit.

[290] Naturalmente “scandalo ideologico” provocato da una realtà scomparsa nei confronti dell’irrealtà del mondo contemporaneo.

[291] Ribadisco, ancora una volta, che questa componente (per certi versi sicuramente religiosa) dell’animo di Pasolini non deve essere vista come un approdo (magari continuamente negato e respinto ad un livello subcosciente) ad una qualche fede positiva; casomai come un “punto di partenza”, cioè come un’innegabile eredità del mondo contadino che parlava in lui (anche) attraverso la figura della madre (vista, in questo caso, come testimone della stirpe dei Colussi, un’antica famiglia del Friuli contadino).

[292] Visto anche attraverso la prospettiva di sei secoli di tradizione letteraria.

[293] Che, in quanto diverso, inizia ad essere considerato come nemico (vedi la scena di Perkin messo alla gogna nel Racconto del cuoco).

[294] Con Pier Paolo Pasolini, op. cit., p. 111.

[295] Pur essendo, come si è visto, tratti da novelle decisamente diverse fra di loro, sia come registro stilistico, sia come esito letterario.

[296] Ricordo la conclusione dell’Abiura:

“Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò?).”