PSYCHO Regia Alfred Hitchcock
PSYCHO
(1960)
Regia Alfred Hitchcock
sceneggiatura di Joseph Stefano
(dal romanzo di Robert Bloch)
direttore della fotografia John L. Russell
SHIFT EYE:
OGGETTIVA E SOGGETTIVA STILISTICA
di
Alessandro Bernabucci
Chi è che guarda la città dall’alto fin dentro la stanza d’albergo, atterrando pindaricamente sul
cornicione della finestra di una camera d’albergo all’inizio del film? Un uccello?...
È Hitchcock stesso, naturalmente. Che con il suo sguardo ego-centro dell’azione, oscilla fra
voyerismo e feticismo spingendosi(ci) a curiosare nella vita altrui. Con questo ancoraggio
enunciativo Hitchcock ci accoglie nella sua identità visiva. La Macchina da Presa (MdP) è l’occhio
del regista, si sa; la sua (della MdP e del regista) realtà diventa la nostra realtà. Il pro-filmico
diventa filmico. Per traslato, possiamo dire che gli attanti di questo inizio siamo noi stessi, dunque.
Lo sguardo della MdP deve coincidere con quello dello spettatore; lo sguardo dello spettatore
collima con quello di Hitchcock. E’ uno shift eye da cosa si guarda a chi guarda. Ognuno di noi sta
spiando quei due amanti nella stanza d’albergo. «Mi fa guardare da quel buco di serratura
portatile?», dice Stella (Thelma Ritter), l’infermiera di “Rear window”, volendo guardare con la
macchina fotografica di Jeff (James Stewart). Alzi la mano chi non ha mai guardato dal buco di una
serratura?…e infatti: «Ma non siamo tutti dei voyeur?», rispondendo a Truffaut nel libro-intervista
“Il cinema secondo Hitchcock” (Pratiche Editrice, 1984).
Dunque: “Psycho” è senza dubbio il film più (o)scuro di Hitchcock. Il bianco/nero del film ha
toni crepuscolari. Il giorno è ombra e la notte è tenebra. Marion (Janet Leigh) da soggetto della
propria nevrosi diventa oggetto della psicosi di Norman (Antonhy Perkins), offrendosi a lui
mediante lo sdoppiamento dell’Io nel conflitto Es vs. SuperIo. La demarcazione segmentale è
visibile dal simbolico passaggio da biancheria intima bianca, indossata all’inizio, a biancheria
intima nera indossata quando Marion prepara la valigia per scappare. Marion–Norman: due nomi
speculari. Provate a leggerli da dx a sx; foneticamente si somiglieranno. E il processo
d’identificazione tra i due protagonisti scorre paludoso nel loro inconscio (quella palude dietro il
Motel dove scompare l’automobile). Anche Norman da oggetto della nevrosi della madre è
diventato soggetto della psicosi della Norman/Madre, cioè l’altro Norman. Marion non è che un
uccello da impagliare. Come la madre di Norman. L’uccello non è un feticcio della vita. Anzi. E’ la
rappresentazione simbolica della morte uccello-fallo (il gioco di parole esiste anche in inglese;
cock, come gallo, cock, come cazzo. Lascio a voi il dilettevole piacere di scoprire che viene fuori
traducendo hitch e cock…). E’ la morte di quella parte “malata” che Norman rifiuta di se stesso,
quasi fosse un omosessuale non dichiarato. Egli deve uccidere la sua parte virile e per farlo deve
uccidere la madre-donna, quel femminile che fatalmente ricorda alla dissociata mente di Norman
che lui è inevitabilmente un uomo.
Il vertiginoso sguardo di Hitchcock (l’acqua che mulinella nella doccia, le scale del campanile
in “Vertigo”) è dunque l’affermazione del processo di identificazione attraverso quello spostamento
dello sguardo che trasforma l’osservatore in osservato. Chi guarda, poi, è a sua volta guardato; un
concetto estremamente impressionista.
Questo shift eye – spostamento dello sguardo – è quello che qui chiameremo impropriamente la
soggettiva stilistica, perché ci rivela lo stato d’animo di Hitchcock (lo stato d’animo con cui
dobbiamo identificarci). Chiameremo dunque scena oggettiva la visione non filtrata da Hitchcock
e, invece, scena soggetiva stilistica (sogg.stil.) la scena vista attraverso lo sguardo interiore di
Hitchcock. Restano invariate le tassonomiche forme di inquadratura oggettiva, cioè la MdP che
assiste come un testimone fantasma senza mediare la realtà, e inquadratura soggettiva, cioè la MdP
che si sostituisce agli occhi del personaggio.
PSYCHO
(1960)
Regia Alfred Hitchcock
sceneggiatura di Joseph Stefano
direttore della fotografia John L. Russell
SCENA 1
sogg.stil.
Estate, giorno, primo pomeriggio, nell’ora più calda. Contrasto netto con l’atmosfera generale che si
respirerà durante tutto il film.
Appena entra nella stanza, lo sguardo di Hitchcock si posa su una coppia: Marion e Sam (John
Gavin). E’ evidente che sono due amanti e che da poco hanno fatto l’amore. Sam è tagliato
nell’inquadratura e non ne vediamo la testa. Appena Sam e Marion si sdraiano sul letto e
amoreggiano la Mdp avanza con decisione e si avvicina ai due. Eccitazione e maggior desiderio ci
portano a voler guardare da più vicino. È lo sguardo del voyeur che quasi vorrebbe toccare i due
che si baciano. Lei è in sottoveste e reggiseno bianchi (di nuovo il contrasto simbolico luce/buio
giorno/notte).
Lei si guarda allo specchio ma noi non la vediamo mai riflessa. Il personaggio di Marion lo
conosciamo da pochissimo; non sappiamo niente di lei. Non ci è ancora concesso conoscere il
sapere infradiegetico. Il suo conflitto è appena all’inizio, è a livello inconscio. Guardarsi allo
specchio significa mettersi in discussione con se stessi. Lo spettatore ancora non deve arrivare a
questa conclusione. E d’altronde neanche ad Hitchcock per adesso interessa.
Curiosità: ad un certo punto lui le dice che se si sposano lei dovrà leccare i francobolli nel
retrobottega. Non vedeva molto bene il matrimonio Hitchcock; d’altronde la stessa cosa la fa non
dire, ma fare a Joan Fontaine in “Rebecca”.
In questa scena ci sono in tutto 19 inq. e come teorizza Syd Field, che una sceneggiatura va divisa
in 3 atti, e ogni atto a sua volta diviso in 3 parti, questa scena, come del resto tutte le scene,
rispecchia visivamente questo modulo di costruzione narrativa; la prima parte lenta, di
presentazione; la seconda parte molto più veloce, serrata nel montaggio. Qui il discorso è più
ampio. Sam e Marion, amanti clandestini, consumano il loro rapporto fuori dai dettami sociali
(leggi matrimonio); la terza parte inizia lenta per concludersi in velocità quando Marion esce di
campo: il dovere la richiama alle convenzioni sociali.
SCENA 2
oggettiva
Marion arriva in ufficio (Hitchcock è fuori sul marciapiede con un cappellone texano in testa).
Arriva il milionario. Dialogo fra lui e Marion. Normale campo/controcampo. L’unico marcatore
della diegesi sono i 40.000 dollari (che serviranno solo come red herring). Il principale vuole che
lei li porti in banca. Sono una tentazione e l’occasione fa l’uomo (la donna) ladro(a).
SCENA 3
oggettiva
Marion entra nell’ufficio del principale. Gli dà i documenti e gli dice che ha mal di testa e vuole
andare a casa. Delle semplici aspirine non fanno andare via l’infelicità. Come i soldi del resto.
Nessun punto di vista particolare.
SCENA 4
sogg.stil.
Camera da letto di Marion. Sta preparando la valigia. Un marcatore evidentissimo. Lei è in
sottoveste e reggiseno. Questa volta, però, sono neri (ci viene in mente la Joan Crawford di “Johnny
Guitar” di N. Ray).
Hitchcock immediatamente ci conduce sott’acqua, ci fa scendere nell’io nascosto e buio,
nell’inconscio. Il film si sta spostando nell’(o)scuro. La MdP si avvicina ai soldi sul letto. La
focalizzazione sul denaro: significante polivalente del desiderio (sessuale e sociale) che serve per
aggirare il frammento di realtà che l’Io non accetta, per negarlo e ricostruirlo con le pulsioni
dell’Es. La MdP poi si sposta sulla valigia aperta che Marion sta preparando. Di nuovo lo sguardo
voyeristico di Hitchcock e, dunque, di noi spettatori. Vediamo per la prima in questa scena volta
l’immagine di Marion allo specchio. La dissociazione, lo sdoppiamento della personalità di Marion
è in atto; l’ego contro l’es, il conscio contro l’inconscio. Marion esce dalla camera. Il conflitto è
ufficialmente iniziato.
SCENA 5
sogg.stil.
Marion è in macchina. Visamente niente di particolare. Ma c’è un’interpellazione indiretta.
Sentiamo i suoi pensieri. Il mare dell’inconscio è sempre più agitato. La lotta es-ego si sta facendo
più dura. Improvvisamente c’è uno scarto; Hitchcock devia, la musica in tal senso ci porta ad aprire
gli occhi, mentre prima gurdavamo ad occhi chiusi (perché Marion è assorta nei suoi pensieri e per
noi spettatori sul suo primo piano non c'è niente da vedere, ma solo da ascoltare i suoi pensieri).
Marion vede il suo principale attraversare la strada. È la prima soggettiva del film: lo spettatore
vede con gli occhi di lei. Hitchcock ci ha condotto per mano dentro di lei. D’ora in poi vedremo il
mondo con gli occhi di lei, nel senso che il nostro stato d’animo è stato messo in contatto diretto
con il mondo interno di Marion. E ora che succederà? Si chiede Marion e ci chiediamo noi insieme
a lei (ricordiamoci però che tutto questo è una red herring. Come il Mac Guffin sono tutte mosse
diversive che distolgono l’attenzione dello spettatore da quella che sarà l’azione principale. Sono un
mazzo di chiavi false (come ben architettato in “Notorius”, nella sequenza del ricevimento quando
la MdP dall’alto carrella verso il basso fino a finire in dettaglio sulla mano di Elena che stringe la
chiave della cantina. Il Mac Guffin o la red herring sono «estremamente importanti per i personaggi
del film, ma di nessun interesse per me, il narratore»; da “Il cinema secondo Hitchcock”, op. cit.).
Hitchcock ci sta portando volutamente fuori strada, perché a lui interessa un’altra storia e sta
preparando il terreno a quella sostituzione di personaggio, a quello shift eye che ci porterà a
spostarci da Marion a Norman, lo spostamento dello sguardo che denuncia la reversibilità, lo
sdoppiamento e il raddoppio dell’identità, facendo scivolare un racconto nell’altro; la rapina che
diventa assassinio, la nevrosi che diventa psicosi.
SCENA 6
sogg.stil.
Il film si sta avviando al crepuscolo. Come dice Raymond Bellour, entriamo nell’ “oscuro”, ci
caliamo nelle tenebre del nostro “io”, ci aggiriamo nei meandri dell’inconscio. Lei è in macchina.
Capiamo che sta scappando. Si sta facendo notte. Piove. Il commento musicale di B. Hermann è
memorabile. Questo primo viaggio sotto la superficie dura poco.
Stacco
SCENA 7
oggettiva
Esterno giorno. Una strada fuori città. Hitchcock ci fa respirare. La scena precedente è stata il primo
tuffo in apnea. Non dobbiamo stare troppo sott’acqua. Non siamo ancora pronti. L’inizio scena è
luminoso, idilliaco quasi, con quei fiori mossi dal vento. Non c’è dubbio però: l’esperienza
precedente ci ha segnati. Marion si è addormenta in auto sul ciglio della strada. Infatti, Marion
appena si sveglia ha l’istinto di scappare, tanto più che vede un poliziotto. Poliziotto che ci richiama
alla realtà, che funge da Super-Io dal quale non possiamo sfuggire. Il poliziotto si avvicina all’auto
e chiede se va tutto bene. Marion impaurita risponde frettolosamente. Mette in moto e va via.
SCENA 8
oggettiva – sogg.stil.
Automobile di Marion. Marion fugge senza meta. In una sorta di capovolgimento narrativo, il
poliziotto per assurdo è l’inconscio che ci segue e Marion controlla nello specchietto (di nuovo le
soggettive) se è seguita dalle sue colpe. Poi, però, il poliziotto cambia strada. Tregua del conflitto.
Dissolvenza e un po’ di respiro.
SCENA 9
oggettiva – sogg.stil.
Esterno giorno. In una qualunque cittadina. Lei compra il giornale. Di nuovo i sensi di colpa.
Controlla che sul giornale non ci sia qualche notizia che la riguardi, quel giornale che più avanti
tornerà utile nel racconto. Ora non c’è la notizia, ma poi ci saranno il soldi, che, su quel giornale,
stamperanno metaforicamente la colpa.
Il poliziotto è dall’altra parte della strada. Per adesso lo sappiamo solo noi, è extradiegetico,
(focalizzazione esterna). Marion non se ne è accorta. Marion è in un auto mercato all’aperto. Vuole
cambiare al sua automobile. Il venditore d’auto le dice: “Potete fare tutto quello che vi pare…e,
essendo donna, lo farete” (Hitchcock docet).
La scena diventa da oggettiva a soggettiva stilistica quando Marion vede il poliziotto. Qui il
racconto cinematografico segna un punto di demarcazione. C’è la prima soggettiva di Marion in
movimento. Il carrello indietro sul poliziotto mentre Marion va al bagno. La tensione sale, il
conflitto emerge sempre di più; l’inconscio sta approfittando della debolezza del conscio e vuole
venire a galla.
SCENA 10
sogg.stil.
Lei è nel bagno dell’auto mercato. L’inq. è dall’alto. Il destino impietoso la schiaccia. Di nuovo una
soggettiva di Marion che conta i soldi. Vuole pagare in contanti l’auto che ha scelto.
SCENA 11
oggettiva
Nell’auto mercato arriva il poliziotto. Marion esce dall’ufficio del venditore e si avvia verso la
nuova macchina. Ha fretta. Di nuovo sente il respiro delle colpe sul collo. Marion va via. Si ferma
perché il meccanico le dà la valigia che aveva lasciato nella vecchia auto. L’atuomobile esce di
campo. Dissolvenza
SCENA 12
sogg.stil.
Marion nell’automobile. Di nuovo un’interpellazione esterna. Vediamo Marion oggettivamente ma
la sentiamo soggettivamente. Off sentiamo di nuovo i pensieri che le affollano la mente. Di nuovo
comincia la discesa agli “inferi”.
SCENA 13
sogg.stil.
È sera. Buio, letteralmente. E quei fari delle auto contromano che ci abbagliano, non sono che una
luce che impedisce, per paradosso, di vedere meglio. Oltre a sentire i suoi sensi di colpa, le sue
paure, quelli che sentiamo e che sembrano essere i suoi pensieri sono, invece, un sapere
extradiegetico. O meglio: non sono quello che lei pensa, anche se chiaramente la sua mente è in
attività, ma noi spettatori stiamo sentendo quello che i personaggi si diranno lunedì quando Marion
non andrà a lavoro. La sequenza è costruita in maniera tale che ad ogni stacco sulla strada - la
soggettiva di Marion dal parabrezza - corrisponde poi un attacco su di lei sempre più vicino (il
close up è sempre più stretto) in un ritmo di montaggio sempre più serrato. Man mano che le voci
off. diventano più insistenti, Hitchcock si avvicina sempre di più al suo volto, fino ad arrivare ad un
P.P.P. La demarcazione segmentale della scena si chiude con un effetto, un deus ex machina, che
porterà Marion al motel di Norman: la pioggia.
SCENA 14
oggettiva – sogg.stil.
Reception del motel. Interno notte. Marion non trova nessuno nel motel. Guarda la casa dietro il
motel. Nella soggettiva del suo punto di vista, vediamo la casa e vediamo alla finestra una figura
femminile. Arriva Norman Beates (Anthony Perkins).
SCENA 15
oggettiva – sogg.stil.
Siamo nell’ufficio del motel. Il bancone separa nettamente le due figure. Di nuovo vediamo Marion
riflessa nello specchio. Il dialogo Marion-Norman si svolge in campo/controcampo: lei dal basso,
lui dall’alto. In verità Hitchcock qui è volontariamente scorretto. Infatti, essendo Marion più bassa
di Norman, noi dovremmo vedere Norman inquadrato dal basso e Marion dall’alto. Ma Hitchcock
capovolge la grammatica del punto di vista; di nuovo ci sta dicendo qualcosa. Ci sta dicendo che è
iniziato lo scarto del primo personaggio a favore del secondo. Marion si firma con un nome e
provenienza falsi. Soggettiva. Norman prende le chiavi della stanza 1. Qui siamo in pseudosoggettiva
per due motivi: 1) per presentarci Norman. Lo abbiamo visto per la prima volta da pochi
minuti e non sappiamo ancora niente sul suo conto. È troppo presto per vedere il mondo con i suoi
occhi; dunque nessuna soggettiva di Norman. Quel suo gesto esistante nel prendere le chiavi
qualcosa, però, ci dovrà pur dire; 2) Hitchcock ci permette di notare un dettaglio. Che la zona
occupata dalle chiavi 1 e 2 sul portachiavi è scrostata, mentre quello delle altre è intatto. È evidente
che Norman affitta sempre la stanza 1 o 2. Perché? Lo scopriremo tra poco.
SCENA 16
oggettiva
Norman prende la valigia in macchina.
SCENA 17
oggettiva – sogg.stil.
Entrano nella stanza 1. Norman apre la finestra. Perché? Dice che c’è odore di umidità, ma vedremo
più avanti che lo scopo è un altro. Prima obiettiva stranezza di Norman: non riesce a dire la parola
bagno. Di nuovo vediamo Marion riflessa nello specchio. Hitchcock non smette di ricordarci che il
conflitto, il confronto/scontro es-ego è sempre in atto. Norman esce. Lei sistema i soldi. Dove? Nel
giornale (ecco che raccoglie la semina). C’è la soggettiva di Marion che sistema il giornale sul
comò. Dalla finestra Marion sente Norman discutere con una donna: è la madre. Non vuole che il
figlio affitti la stanza ad una donna. Ecco perché Norman aveva aperto la finestra. Noi, insieme a
Marion, capiamo qualcosa in più di Norman. Sua madre è strana, bizzarra, quanto meno e,
conseguentemente, il rapporto di Norman con la madre è strano. Un’altra pennellata al ritratto
psicologico di Norman. La soggettiva di Marion che guarda la casa e, poi, Norman che esce di casa
con il vassoio per la cena. Norman entra nella stanza. E’ in imbarazzo: spiega che la madre non era
in sé. Sul vassoio il latte (Hitchcock è fissato con il latte, quello stesso latte de “Il sospetto” che
credevamo avvelenato – e quello stesso latte che troviamo anche ne “Il progioniero di Amsterdam”
che beve il vecchio corrispondente perché è a dieta), quel bianco latte che è presagio di morte,
perché il latte è contravveleno e se c’è il latte, allora, da qualche parte c’è anche il veleno.
Norman non vuole accettare l’invito di Marion di cenare nella stanza. È meglio andare in ufficio. È
la scena più lunga dall’inizio. Ed è chiaro, perché è la scena del loro incontro, è la scena che
sancisce il passaggio del testimone da Marion a Norman. È la scena che fa scivolare il primo
racconto (la red herring, la nevrosi diciamo noi) nel secondo racconto (la psicosi). Il soggetto
nevrotico diventa l’oggetto dello psicotico.
SCENA 18
sogg.stil.
È la scena chiave. Hitchcock mette in atto il processo di identificazione, quel transfert di identità
che rende uguali Marion e Norman e che porterà Norman ad assumere il ruolo di protagonista
(Hitchcock era affascinato dall’idea di far morire la star dopo solo 1/3 di film).
Vediamo nel dettaglio.
Entrano nel salottino. Marion guarda gli uccelli impagliati. Soggettiva sul gufo e sul corvo. Uccelli
notturni, uccelli della notte. Quegli stessi uccelli che nel film successivo a Psycho si ribelleranno
alla innaturale natura dell’uomo. Quando Norman parla del suo hobby, ci tiene a dire la tassidermia,
noi vediamo pochissimo Marion. Hitchcock è concentrato su Norman. Il suo sguardo stilistico è
tutto rivolto verso questo strano personaggio. Infatti nel gioco campo/controcampo le inquadrature
non sono corrispondenti e non sono girate con la stessa ottica. Marion è inqudrata dal basso in p.a. e
siamo abbastanza distanti da lei. Norman, invece, è sì inquadrato dal basso, ma siamo in mezza
figura molto più vicini. E, poi, inconfondibili segni connotativi, in alto nell’inquadratura
campeggiano a sinistra il gufo e a destra il corvo e Norman è collocato al centro fra i due uccelli
impagliati, quasi fosse il re della notte (dell’oscuro, dell’insondabile inconscio) con i suoi due fidi
scudieri. Hitchcock, con questa inq., infatti, esce allo scoperto. Il suo racconto, il suo sguardo, e,
dunque, il nostro di spettatori, è voyeuristicamente attratto da Norman.
Norman dice: “Il miglior amico è la propria madre”. Nettissimo segno connotativo; Norman è
decisamente strano. Questa è reversibilità. Se la madre non vuole che nessuna donna si avvicini al
figlio, perché solo lei è in grado di farlo entrare nel simbolico, anche il figlio, così assoggettato, può
provare nei confronti della madre un ossessivo desiderio di possessione. Nessun uomo può avere
sua madre (complesso di Edipo) e se qualcuno le si avvicina ecco che la nevrosi diventa psicosi; il
figlio può anche uccidere per impedire che un uomo possieda sua madre. Ed ecco Norman; la madre
è libera di concedersi ad un amante, mentre impedisce al figlio (la morbosa possessione) qualsiasi
rapporto con una donna. Norman non tollera, però, che la madre abbia un altro uomo all’infuori di
lui e così ucciderà sia l’uomo/amante ma, in un eccesso di psicosi, la madre, perché lo ha tradito
con un altro uomo. E, in un vertiginoso meccanismo di andata e ritorno, la madre si prenderà la sua
rivincita; Norman/Madre ucciderà tutte le donne che si avvicinano al figlio. È da notare in tutto ciò
come nei film di Hitchcock sia perennemente assente la figura paterna. Con una madre/moglie
siffatta accanto si è negato (o è scappato o è morto) e se ci fosse stato non sarebbe potuta essere
presente la figura materna. Non solo; senza la madre il figlio non avrebbe dovuto lottare con il
padre per emergere e per entrare nel simbolico, ma si sarebbe soltanto dovuto avvicendare in un
mondo già fatto. La madre, se le cose andassero così, non avrebbe nemmeno quel ruolo
destabilizzante che minaccia l’uomo nel suo processo di succesione da padre a figlio. Avendo,
invece, “educato” lei il proprio figlio, quel figlio entrerà nel simbolico come creatura materna e chi
prenderà il posto d’autorità nella società patriarcale sarà proprio la donna per interposto figlio.
Ma torniamo a Psycho. Il dialogo nel salottino fra Marion e Norman li pone sullo stesso piano.
Marion e Norman sono uguali; tutti e due hanno una vita vuota, sono senza identità, tutti e due sono
infelici. Sono speculari. L’uno si identifica nell’altra e viceversa. È uno sdoppiamento, ma anche un
raddoppiamento. Norman è lucido. È, potremmo dire, dissociato. Sta parlando di sé e la cosa, quasi,
non lo riguarda, freddo e distaccato come appare (sdoppiamento). Ma rafforza l’idea di sé
(raddoppiamento) dicendo che ognuno di noi “è stretto nella propria trappola”. È il
confronto/scontro fra due figure mitiche: la donna e l’uomo. Due figure legate da un doppio
vincolo. L’uomo che usa la donna per affermare il suo potere e la donna che pur di affermarsi
accetta questo ruolo di farsi amare-usare, immolandosi, proponendo un’immagine di sé che non sarà
mai la sua vera identità. Il sacrificio della donna serve all’uomo per affermare il proprio status quo.
Norman ci parla della madre che si è risposata dopo la morte del padre. Norman è Edipo che si è
accecato dopo aver scoperto le proprie colpe (“un figlio non si può sostituire ad un amante”).
Ed ecco, poi, un altro confronto /scontro: la madre e la donna. In Norman il confronto /scontro ha
sortito un effetto devastante, perché le due figure erano incarnate dalla stessa persona. Marion,
infatti, dice se non ha mai pensato di metterla in qualche posto, di farla curare. A questo punto c’è
uno scarto visivo nel racconto. Hitchcock sterza decisamente verso Norman. Ora Norman è in p.p.
Siamo quasi addosso a lui. Hitchcock ci mette in contatto con lo stato d’animo di Norman. Marion
si è spaventata per come ha reagito Norman alle sue parole ed anche Marion è inquadrata in p.p.
Norman, parlando della madre dice:
“Lei è innocua come uno di quegli uccelli impagliati”. Scopriremo, poi, che, effettivamente, è
proprio così. La MdP è fissa sul p.p di Norman. Non si muove mai. Noi siamo sempre lì ad
ascoltarlo, catturati da quello che sta dicendo. E infatti, non è la MdP che si allontana da lui, ma,
quando Norman si accorger di essere stato aggressivo, va indietro con il busto, è lui che si allontana
dalla MdP (da noi) e da Marion. E’ chiaro che Norman vive anche lui un conflitto di personalità. Le
parole di Norman sortiscono in Marion l’effetto del pentimento; rivelazione, turning point. “Perdere
al testa una sola volta può bastare”. Marion sta annunciando la sua uscita di scena. E Hitchcock la
farà uscire di scena con una sequenza memorabile. Marion si alza. Vuole andare. Dice (ci dice) che
è pentita di quello che ha fatto. “Domani devo tornare a Phoenix (non a Los Angeles, allora, come
aveva detto a Norman). Sono andata a ficcarmi in una brutta trappola. Devo tornare laggiù per
vedere se trovo il modo di uscirne prima che sia troppo tardi”. Ma in realtà non può nemmeno
immaginare in che trappola si è andata a ficcare. E che veramente ormai è troppo tardi. Di lì a poco
Norman/Madre la ucciderà.
Norman prima di congedarla vuole come avere una conferma del fatto che sono uguali, che anche
lei è senza identità come lui. Infatti le dice: “Buonanotte Miss…” “Crane”, risponde Marion
rivelando il suo vero cognome (crane in inglese vuol dire gru, un uccello appunto).
SCENA 19
sogg.stil.
È la scena che celebra il nuovo protagonista. L’asse del racconto si è decisamente spostato su
Norman. Norman guarda il registro delle firme. Scopriamo, attraverso la soggettiva, la falsa identità
di Marion quando si è firmata. Ed ecco che si rivela in tutta la sua stranezza il nuovo protagonista.
Anche lui, non come Marion, ma come Hitchcock (e per traslato, come tutti noi) è un voyeur.
Marion è solo la vittima dello “sguardo”. Norman stacca un quadro dal muro del salottino. Lì c’è un
buco fatto apposta per spiare nella stanza accanto, la stanza 1. Ed ecco spiegato il motivo che la
stanza 1 è la più affittata. Norman guarda Marion spogliarsi. Il soggetto della nevrosi femminile –
Marion – è diventato l’oggetto della psicosi maschile – Norman –. Quel tic di Norman quando il
suo occhio è inquadrato in dettaglio ci rivela che Marion è nuda. A noi non ci è permesso vedere
quello che Norman vede – lo sguardo impressionista - ma, forse. ancora con più efficacia e forza,
proprio nel non vedere ci arriva totalmente quello che Norman sta provando. Perché se noi
spettatori avessimo visto Marion nuda ci saremmo eccitati noi e nessuno di noi spettatori avrebbe
provato quel che sta provando Norman. L’avremmo potuto solo immaginare. Invece, nel non vedere
Marion, ma vedendo Norman che la guarda, siamo perfettamente al corrente di quello che lui sta
provando e possiamo (anzi, dobbiamo) solo immaginare come è Marion nuda. Norman mette a
posto il quadro. Ha uno scatto. Si rivolge fisicamente verso la casa. Quella donna nuda lo fa andare
dritto verso la madre. Perché? Per Norman UNA donna nuda è LA donna, e La Donna è sua Madre.
La madre, dunque, nella paranoia regressiva di Norman, è la figura topica del sesso femminile.
Norman esce dall’ufficio e si dirige verso la casa.
SCENA 20
oggettiva
Vediamo la casa di Norman da dentro. Lui entra. Sta per andare di sopra, ma ci ripensa. Va in
cucina e si siede. Guarda idelamente verso Marion, la quale…Stacco
SCENA 21
sogg.stil.
Marion è seduta. Di nuovo Hitchcock mette in atto il processo di identificazione. Scenicamente ci
rende uguali Norman e Marion: tutte e due seduti alle prese con le loro colpe. Soggettiva sui conti
che Marion sta facendo. Poi strappa i fogli e li getta nel water. Si toglie la vestaglia. Ora è nuda (in
tutti i sensi, letteralmente e metaforicamente). Si fa la doccia. Cerca di togliersi di dosso lo sporco,
la colpa. E per lei quell’acqua è una liberazione. Marion gode, letteralmente. L’insistenza di
Hitchcock va oltre la necessità diegetica. Qui si compie in pieno il suo sguardo stilistico. Se prima
della doccia la MdP era oggettiva, cioè si teneva a debita distanza dall’enunciazione, cioè da ciò che
riprende, ora, appena Marion tira la tenda, la MdP diventa soggettiva stilistica e il suo sguardo è
l’enunciato, la MdP stessa diventa filmico. I piani ravvicinati, il corpo nudo di Marion, il dettaglio
dell’acqua che zampilla a cui lei si concede totalmente, sorridendo e aprendo la bocca sono il
godimento che Marion non ha manifestato nella scena d’amore iniziale. La MdP senza pudore e
senza pietà ci mostra una donna priva di ogni difesa, nuda sotto la doccia. Ma qui non c’è esibizione
narcisistica; Marion non sta godendo per se stessa. Lo sguardo da voyeuristico è diventato
scopofilo, perché rappresenta il godimento maschile che si realizza in quel luogo mitico che è il
corpo della donna. La MdP si impossessa dello sguardo della donna per effetto di una pulsione
immaginaria. Si determina fra l’uomo e la donna un rapporto di specularità e di doppio. L’uomo è
talmente suggestionato dal proprio desiderio di possedere la donna che crede che sia la donna stessa
a mandargli questo messaggio, quasi che lei voglia essere posseduta. La possessione, come
manifestazione perversa, si attua con la distruzione di quell’immagine. E l’uomo, per
appropriarsene, sentendo la donna come minaccia di castrazione e dunque come minaccia del suo
status quo, del suo potere sociale, non può far altro che distruggerla (ucciderla) per ricostruirla a
proprio piacimento, per addomesticarla. Di qui la metafora dell’imbalsamazione. Questa
trasformazione, dalla nevrosi alla psicosi, si effettua tramite la donna che ne è il supporto, la forma
indispensabile.
Da quando Marion tira la tenda fino a quando il sangue scorre nello scarico della vasca ci son ben
49 inq. per neanche due minuti di film (questo è anche uno dei motivi per cui Hitchcock ha girato in
B/N; sarebbe stato troppo d’impatto il rosso del sangue che scorre nel bianco della vasca e il colore
avrebbe creato un effetto straniante che avrebbe distorto il racconto rendendolo iper reale. Il B/N
restituisce un look verosimile (curiosità: singolare l’inq. soggettiva sullo zampillo d’acqua:
l’obiettivo non si bagna. Che abbia ripreso uno specchio?).
L’ottava inq. di questa sequenza è sbilanciata. Marion in basso a destra e molta aria in alto. Ma ecco
che quello spazio vuoto si riempie: vediamo la porta del bagno aprirsi. Un’ombra si avvicina e la
MdP anche si avvicina. Va incontro all’assassino per arrivare puntuale all’appuntamento con il
delitto: l’assassino tira la tenda e noi siamo lì faccia a faccia con lui. Ma non capiamo bene: chi è? È
un uomo? Una donna? Non facciamo in tempo a decodificare perché il coltello vibra alto per dare
inizio alla memorabile sequenza della doccia con tutta la sua fascinazione e perversione.
Fotograficamente è la scena più luminosa del film; narrativamente, è chiaro, è la scena più buia.
Una serrata sequenza di inquadrature, montando sincopaticamente stretto/largo, che si concludono
sullo scarico della vasca (gli archi di Bernard Herrmann strillano e urlano alti e poi giù bassi
nell’oltretomba…è un coito/stupro vissuto da poco prima dell’orgasmo fina all’ultima violenta
penetrazione). Da “Il cinema secondo Hitchcock”, op. cit.: “Naturalmente il coltello non tocca mai
il corpo, tutto è fatto con il montaggio. Non si vede mai una parte tabù del corpo della donna,
perché riprendevamo alcune inquadrature al rallentatore per evitare di avere i seni nell’immagine.
Le inquadrature riprese al rallentatore non sono poi state accelerate perché il loro inserimento nel
montaggio – durano pochissimi secondi, ndr – dà un’impressione di velocità normale”).
Dissolvenza e
SCENA 22
sogg.stil.
Dallo scarico della vasca la dissolvenza ci porta in dettaglio sull’occhio spalancato, vitreo di Marion
morta. Un movimento rotario per riprendere il vortice del sangue che si perdeva nella vasca e la
MdP diventa assoluta protagonista di questa scena. Come all’inizio, chi è adesso che si aggira per la
stanza? Lo sguardo stilistico di Hitchcock diventa enunciazione, l’espressione diventa contenuto. Il
pro-filmico diventa filmico. Siamo di nuovo noi spettatori i protagonisti di questa scena, è la nostra
smodata curiosità voyeuristica che ci fa rallentare in autostrada per vedere che cosa è successo se
c’è un incidente. Così adesso la MdP sospende per un attimo la narrazione diegetica. Ci aggiriamo
per la stanza fino ad arrivare sul giornale poggiato sul comò. Breve attimo di silenzio e riprende il
racconto diegetico vero e proprio. Sentiamo gridare off (dalla sceneggiatura originale, pag. 52
“MOTHER!…Oh God, what…BLOOD, blood…MOTHER!”) e la Mdp muove verso la finestra per
farci vedere la casa da dove provengono le grida di Norman.
SCENA 23
oggettiva.
Torniamo alla “realtà” del racconto. Norman arriva nella stanza. Vede il cadavere di Marion lì nel
bagno. Si spaventa e si tappa la bocca con una mano. Nell’emotività del gesto fa cadere un quadro
dalla parete: un uccello (!). La prima cosa che fa, poi, è chiudere la finestra. Ma nessun uccello
volerà via, ormai (da “Il cinema secondo Hitchcock”, op. cit: «…quando Melanie – “Gli uccelli”,
ndr - si rifugia in una cabina telefonica a vetri, la mia intenzione è di mostrare che è come un
uccello in gabbia…si assiste al rovesciamento del vecchio conflitto fra gli uomini e gli uccelli e
questa volta gli uccelli sono fuori e l’umano è in gabbia».
SCENA 24
oggettiva
È la scena della pulizia. Norman mette a posto le cose. In questa scena non c’è nemmeno una
soggettiva. Eppure le cose che si potrebbero vedere con gli occhi di Norman sono tante. Ma
Hitchcock non vuole farcele vedere. D’altronde è giusto che sia così. Norman è dissociato. In
questo momento sta agendo freddamente. La sua reazione è lucida e determinata, quasi non lo
riguardasse ciò che sta facendo. E, dunque, non deve riguardare noi.
SCENA 25
oggettiva
Norman mette il cadavere di Marion nel portabagagli dell’auto con tutte le sue cose. Compreso il
giornale con i soldi.
SCENA 26
oggettiva
La macchina che cola a picco nella palude. Norman in piedi ad osservare. Lui e noi semplici
spettatori di questa scena. Il racconto è definitivamente colato a picco nel torbido, nel profondo
delle acque melmose, nel buio.
FINE I ATTO.
SCENA 27
oggettiva
Il bianco di una lettera. Siamo in soggettiva. È Sam che sta scrivendo a Marion. Siamo nel
retrobottega del suo negozio di ferramenta. La MdP arretra. Il carrello indietro si allontana da Sam
fino ad arrivare all’entrata del negozio. Il movimento di macchina, è evidente, sta a significare che
dobbiamo uscire dalla palude, quasi che la MdP ci stesse tirando su da quelle profondità dove
eravamo andati a finire. Il racconto visivamente deve darci una tregua. L’emozione fin qui è stata
troppo forte. Dobbiamo riprendere un po’ di fiato. Torniamo in superficie.
Off sentiamo la voce di una cliente. Nenache a farlo apposta però si parla di morte. La cliente sta
commentando gli effetti di un insetticida. Secondo la signora insetto o uomo che sia la morte
dovrebbe sempre essere indolore. Stacco. Nel negozio entra Lila, la sorella di Marion. Poche battute
con Sam e Hitchcock ci mostra un uomo alla porta che osserva i due. Hitchcock non si fa sfuggire
l’occasione. Il suo sguardo entra decisamente in gioco. L’uomo entra nel negozio accompagnato in
p.p. dalla MdP che arretra (da “Il cinema secondo Hitchcock”, op. cit: Truffaut, dice: «La sua
tecnica è completamente subordinata all’efficacia drammatica, è in qualche modo una tecnica
d’accompagnamento dei personaggi.» A. Hitchcock «Proprio così. […] Nella maggior parte dei
film si ha questa successione: p.p dell’uno, p.p. dell’altro, p.p. dell’uno, p.p. dell’altro, p.p. dell’uno,
p.p. dell’altro e, tutt’a un tratto un campo totale per permettere a uno dei due personaggi di alzarsi.
Trovo che sia sbagliato fare così». F Truffaut «Lo credo anch’io perché in questo caso la tecnica
precede l’azione invece di accompagnarla e il pubblico riesce a capire che uno dei due personaggi
sta per alzarsi…In altri termini, non bisogna mai spostare la MdP pensando di favorire la
realizzazione di quello che sta per succedere…» A. Hitchcock «Esatto, perché allenta l’emozione
[…]. Se un personaggio si muove e si vuole conservare l’emozione sul suo volto, bisogna far
viaggiare il primo piano»). L’uomo che entra nel negozio guarda addirittura in MdP. È Arbogast
(Martin Balsam), l’investigatore. Farà una brutta fine? L’interpellazione non ci dice niente di buono
sul suo futuro. E poi è un tipo troppo sospettoso. Dubita di Lila e dubita, soprattutto, di Sam.
SCENA 28
oggettiva
Serie di inquadrature in dissolvenza che ci mostrano Arbogast che fa domande in giro.
SCENA 29
oggettiva–sogg.stil.
Arbogast arriva al motel di Norman. Questa è la scena del secondo atto che fa esordire il nuovo
protagonista: Norman. L’inizio è tranquillo, luminoso. I due entrano nell’ufficio. Arbogast fa
domande. È iniziata l’inchiesta, modello classico del sistema Hitchcockiano, che si eprime in due
forme reversibili e complementari. Una forma prevede che il protagonista, costretto dalla
drammatizzazione degli eventi, scopre una certa verità del suo desiderio. L’altra, invece, nega al
protagonista l’accesso alla verità dell’inchiesta.
Pian piano l’atmosfera cambia. Illuminazione e linguaggio cinematografico contribuiscono a
trasformare la diegesi. Sembra un interno notte ad un certo punto. Di nuovo precipitiamo
nell’oscuro. D’improvviso l’alternanza campo/controcampo è rotta dall’irruzione di un p.p. su
Norman che si china a guardare il registro (“bisogna soprattutto evitare che la MdP divenga
improvvisamente distante e obiettiva, altrimenti si distrugge l’emozione che è stata creata”; “Il
cinema secondo Hitchcock”, op. cit). Il p.p. è ripreso con una angolazione che distorce il volto di
Norman. È lo scarto visivo, il demarcatore segmentale che ci fa precipitare anche a noi spettatori
dentro l’agitato stato d’animo di Norman, un Norman che ha paura e che fa paura.
Il bancone separa nettamente i due, come separava Marion da Norman. Non bisogna superare quel
confine però, perché quel banco segna il confine tra la vita e la morte. Di qua i vivi, di là gli uccelli
impagliati. Ma proprio Norman è da quella parte. Allora, anche lui è un uccello impagliato. Sì.
Anzi, no. O meglio: una parte di lui è impagliata e chiaramente lo scopriremo alla fine. Le domande
di Arbogast mettono in difficoltà Norman. Arbogast ha scoperto che Marion è stata in quel motel.
Vorrebbe parlare con la madre di Norman. Le domande di Arbogast diventano più incalzanti.
“Avete passato la notte insieme?”, chiede Arbogast. Questa domanda sortisce il primo effetto
dell’inchiesta. Norman, scoperto, scopre la verità di un suo desiderio. In fondo, lui Marion l’ha
desiderata (come ha desiderato sua madre, la quale lo ha tradito con un altro uomo e per questo
Norman l’ha uccisa). Norman si irrigidisce. È infastidito da tutte quello domande. Invita Arbogats
ad andarsene.
SCENA 30
oggettiva
Arbogast ad una cabina telefonica. Parla con Lila. Le dice che tra meno di un’ora sarà di ritorno.
Prima deve parlare con la madre di Norman.
SCENA 31
oggettiva
Arbogast torna al motel. Si aggira per il portico. Si accerta che non ci sia nessuno Entra nell’ufficio.
Va di là nel salotto. Ha varcato il confine; è sull’altra riva dell’Acheronte. Anche lui è “colpito”
dagli uccelli imbalsamati. Soggettive sul gufo e sul corvo. Guarda la cassaforte. Poi decide di
andare verso la casa.
SCENA 32
oggettiva–sogg.stil.
Arbogast entra nella casa. Fin qui nessun demarcatore. Decide di andare di sopra. Appena inizia a
salire le scale Hitchcock irrompe con il suo sguardo. Invece di farci vedere il volto di Arbogast,
shift eye e ci mostra la scala dal basso e i piedi che iniziano a salire i gradini. Poi il campo totale
dall’alto (da “Il cinema secondo Hitchcock”, op. cit: “C’era un’inquadratura della mano che scorre
sul corrimano e una carrellata attraverso la ringhiera della scala che fa vedere i piedi di Arbogast di
fianco.. Quando ho visto i giornalieri della scena, mi sono accorto che non andava bene. […].
Queste inquadrature sarebbero state adatte se si fosse trattato di un assassino che saliva la scala.
[…] Quindi, mi sono servito di una sola ripresa di Arbogast che sale la scala e, quando sta per
arrivare all’ultimo scalino, ho deliberatamente messo la MdP in alto per due ragioni: la prima per
poter filmare la madre verticalmente perché, se l’avessi mostrata di spalle, poteva sembrare che non
avessi voluto apposta far vedere il suo volto e il pubblico non si sarebbe fidato. Dall’angolo dove mi
ero messo invece non davo l’impressione di voler evitare di far vedere la madre. La seconda e più
importante ragione per salire così in alto con la MdP era di ottenere un forte contrasto tra il campo
totale della scala e il p.p. di Arbogast quando il coltello si abbatte su di lui. Era proprio della
musica, vede, la MdP in alto con i violini e, improvvisamente, la grossa testa con gli ottoni. Si
ricordi gli sforzi che abbiamo fatto per preparare il pubblico a questa scena; abbiamo stabilito che
c’era una donna misteriosa nella casa, abbiamo stabilito che questa donna misteriosa era uscita di
casa e aveva pugnalato una giovane donna sotto la doccia. Tutto ciò che poteva dare suspense a
questa scena era contenuto in questi elementi”). Arbogast è accoltellato e cade all’indietro sulla
scala. Un urlo e fade out.
FINE II ATTO.
SCENA 33
oggettiva
Sam e Lila. Arbogast doveva tornare da più di tre ore. Sam va al motel.
SCENA 34
oggettiva
Norman osserva la palude.
SCENA 35
oggettiva
Sam torna da Lila. Di Arbogast nessuna traccia. Tutto girato in oscurità. Decidono di rivolgersi allo
sceriffo in piena notte.
SCENA 36
oggettiva
Sam e Lila sono a casa dello sceriffo. È la scena deus ex machina dell’inchiesta. Sempre nello
schema classico dell’inchiesta Hitchcockiana ci si appoggia su un terzo personaggio. Veniamo a
sapere tutto quel che si sa di Norman. La madre dieci anni fa dopo aver ucciso l’amante che viveva
con lei si suicidò. Norman li trovò morti nel letto (chiaramente lascia intendere nudi e solo così ci
possiamo spiegare il disturbo psicologico di Norman). Ma l’inchiesta non risolve l’enigma. Ci
lascia una porta aperta. Sam e Lila dicono che c’è una donna nella casa di Norman. Lo sceriffo si
chiede allora se la donna in casa di Norman è la madre chi è sepolto nel cimitero? Tutto ciò sul
p.p.p. dello sceriffo. Partecipiamo con lui al suo dubbio.
SCENA 37
sogg.stil.
Norman va a casa. Sale su in stanza. Lo sentiamo parlare con la madre. La MdP in punta di piedi
sale anch’essa fino a piazzarsi alta sul pianerottolo, là dove s’era piazzata quando la madre pugnala
Arbogast. Vediamo Norman portare in braccio la madre giù in cantina, quel luogo mitico del
sottosuolo di dostojievskiana memoria, come è sempre la cantina in “Notorius” il luogo dove si
nascondono le malefatte (da “Il cinema secondo Hitchcock”, op. cit: “Ho alzato la MdP appena
Perkins incomincia a salire la scala. Entra nella stanza e non lo vediamo più; ma lo sentiamo:
«Mamma, bisogni che ti porti in cantina perché verranno qui a fare delle indagini». Poi si vede
Perkins che porta la madre in cantina. Non potevo tagliare l’inquadratura perché il pubblico sarebbe
diventato sospettoso. […]. Così ho la MdP sospesa che segue Perkins quando sale la scala, entra
nella camera ed esce di campo, ma la MdP continua a salire senza interruzione e, quando siamo
sopra la porta la MdP gira su se stessa, e guarda di nuovo giù dalla scala: perché il pubblico non si
interroghi su questo movimento, lo distraiamo facendogli sentire un litigio fra madre e figlio. Il
pubblico fa talmente attenzione al dialogo che non pensa più a quello che fa la MdP”). Il
movimento di MdP qui è una red herring. Ci fa credere che la madre sia viva, che esiste. E il
dialogo lo conferma. E, poi, è la prima volta che vediamo insieme Norman e la madre. Non
possiamo più avere dubbi.
SCENA 38
oggettiva
Tregua. Usciamo dall’oscuro, dal buio del racconto. Luce, giorno, esterno.
Sam e Lila parlano con lo sceriffo fuori da una chiesa. Il tocco qui è leggero e ironico. Sam e Lila
decidono di andare al motel da soli.
SCENA 39
oggettiva
Sam e Lila sono in macchina. Si accordano sul da farsi.
SCENA 40
oggettiva – sogg.stil.
Arrivano al motel. È la prima volta che lo vediamo di giorno. Sono nell’ufficio. Di nuovo il
bancone che separa i vivi dai morti. Prendono una camera. Sul finire della scena Hitchcock monta
velocemente una serie di p.p. di Norman e di loro due. Anche noi dobbiamo sapere che Norman
sospetta di loro e che loro sospettano di Norman. Sdoppiamento e raddoppio.
SCENA 41
oggettiva
Lila e Sam sono in camera. Decidono che fare.
SCENA 42
oggettiva
Escono di nascosto e vanno a controllare la camera 1.
SCENA 43
oggettiva
Lila e Sam sono nella camera 1. Cercano, guardano. Lila trova nel bagno un pezzetto di carta con
dei numeri. Sono le cifre che Marion aveva scritto. Si decidono: lui parlerà con Norman per
intrattenerlo mentre lei andrà nella casa per parlare con la madre.
SCENA 44
oggettiva
Da questa scena in poi, più che le singole inquadrature è il montaggio a rendere tutto suspense. Sam
e Norman nell’ufficio.
SCENA 45
sogg.stil.
Lila si avvicina con timore alla casa. Hitchcock ci mostra la soggettiva di lei mentre si avvicina. Un
movimento di carrello lento e incerto, come lo stato d’animo di Lila. Oltre a farci vedere quello che
Lila vede, il movimento di MdP ci fa sentire quello che lei sta provando. Lila entra in casa. Noi non
entriamo con lei. Ci chiude la porta in faccia.
SCENA 46
oggettiva
Norman e Sam nell’ufficio. Uno di qua e l’altro al di là del bancone.
SCENA 47
sogg.stil.
Lila è in casa. È nella stanza del piano di sopra. Si aggira per la stanza. Una serie di soggettive ci
mettono in contatto con il mondo di Norman. Sentiamo anche noi, come Lila, di esserci intromessi
nella vita di un’altra persona. Lila è attratta da un soprammobile: due mani incrociate. È solo un
escamotage per farci fare un salto sulla poltrona. Infatti Lila si spaventa; ma è solo la sua immagine
riflessa nello specchio come in un loop infinito.
SCENA 48
oggettiva
Sempre Norman e Sam nell’ufficio. Le domande di Sam sono sempre più calzanti. Sempre uno di
qua e l’altro al di là del bancone.
SCENA 49
oggettiva
Lila in casa di Norman. Vede un letto di bambino e una bamboletta. Poi si avvicina al giradischi. È
“L’eroica” di Beethoven.
SCENA 50
oggettiva
Norman capisce che le domande sono un diversivo. Chiede dove sia Lila. Nella colluttazione Sam
ha la peggio. Norman corre verso la casa.
SCENA 51
oggettiva–sogg.stil.
Lila vede arrivare Norman. Si nasconde nel sottoscala. Norman va di sopra. Lila vede la porta della
cantina. Scende. Entra in cantina. È lì nel dostojevskiano sottosuolo che si nascondono le nostre più
recondite paure e colpe. Lila vede laggiù seduta in un angolo di spalle una donna. Qui la sequenza è
sempre più spezzata dall’alternanza soggettiva/oggettiva, dall’inq. su la vecchia di spalle e sul p.p.
di Lila che si avvicina. Eccola quasi la tocca, allunga un mano la sedia si gira e…la rivelazione: è
uno scheletro. La madre di Norman è una mummia, è un “uccello” impagliato. Alle sue spalle ecco
di nuovo quella figura femminile con un coltello in mano. Sta per sferzare il colpo ma Sam alle
spalle lo blocca. Nella colluttazione Norman perde la parrucca e il vestito da donna che indossa: la
madre di Norman è Norman.
Il tragitto è completato. Il processo di identificazione è arrivato al massimo della sua
trasformazione. Marion da soggetto della nevrosi era diventata l’oggetto della psicosi. Appena
Marion muore anche Norman subisce la trasformazione. Il processo è reversibile. A Norman il
processo di sdoppiamento della personalità, la dissociazione psichica – PSYCHO – lo ha portato ad
essere da soggetto della nevrosi di una metà a oggetto della psicosi dell’altra metà, la metà
Madre/Norman che ormai ha preso il sopravvento. Norman è vittima di se stesso.
SCENA 52
oggettiva
Lo “spiegone” finale. Lo psichiatra ci dice che Norman uccise sua madre e il suo amante. La madre
aveva tradito il figlio con un altro uomo. Di qui il dicotomico desiderio di amore/morte per le
donne.
SCENA 53
oggettiva–sogg.stil.
La voce off della madre sul carrello che avanza fino ad arrivare a p.p. su Norman. “Una povera
vecchia che non farebbe male ad una mosca”. E il sorriso ghigno di Norman al quale si
sovrappongono in dissolvenza i denti del teschio. Dissolvenza e vediamo la macchina ripescata
nella palude che viene issata a terra. Tutto, prima o poi, viene a galla, anche le colpe più profonde.
FINE
di Alessandro Bernabucci