IL MINISCHERMO NON AIUTA IL GRANDE CINEMA
di GIAN LUIGI RONDI IL CINEMA è nato in una sala che, allora, era solo quella di un caffè su un boulevard parigino. Poi si è guadagnato il diritto ad avere sale tutte proprie e da quelle non si è più mosso. Cambiando di aspetto, però. Agli inizi, infatti, sia che fosse in bianco e nero sia a colori, si era attestato su delle dimensioni che, dopo varie prove, avevano finito per accettare una misura standard: di 35 mm. Pronto, tuttavia, dopo un certo tempo a mutarla. Ricordo benissimo una sera in cui la Fox mi invitò in un cinematografo di fronte al ministero delle finanze, l'Europa, per farmi assistere, con il film «La tunica», alla prima proiezione a Roma su uno schermo più alto e più lungo detto «cinemascope». Come se non bastasse quello schermo tanto dilatato, poco tempo dopo mi ritrovai, sempre a Roma, al Sistina, di fronte ad uno schermo anche più esteso, il Cinerama, che, proponendo l'immagine di una slitta in corsa, faceva sobbalzare sulla poltrona tanto sembrava vederla precipitare in platea. Con lo stesso effetto ottenuto molti anni prima da quel filmino dei Lumière, «L'entrée d'un train en gare La Ciotat» che fece scappare gli spettatori atterriti, all'idea di essere investiti da un treno. A parte questo effetto, però, e, al momento della stereofonia abbinata al cinemascope, la sensazione di sentirsi sparare alle spalle, anziché dalle immagini di fronte a noi, il cinema «largo», presto generalmente definito «panoramico», entrò sempre più di più nei nostri modi di vederlo e, quindi, nelle nostre abitudini. Con tale certezza che non si poteva più tornare indietro da essere lo stesso indotto, quando dirigevo la Mostra di Venezia, a demolire il vecchio schermo del Palazzo del Cinema per sostituirlo — definitivamente — con un altro che sapesse proiettare i film realizzati ormai per immagini panoramiche. E capaci, perciò, di riprodurre in modo autentico la vita vera, così come in natura la percepisce il campo visivo dell'occhio umano. Di colpo, adesso, la marcia indietro: non ai 55 mm, non al cinemascope o ad altri formati panoramici di ieri, ma — invece — al formato dei minischermi dei cellulari dove, a fatica, i ragazzi che con quelli fanno fotografie riescono a verificarne i risultati. E si tratta di immagini «ferme». Ma quelle, in movimento, di un film, con primi piani, campi lunghi, piani americani? Il nulla, la morte del cinema, l'annientamento di quelli che, ormai da più di cento anni, sono stati i suoi principi. Per il momento il triste esperimento sembra che sia stato accantonato ma se dovessimo vederlo riaffacciarsi, saremmo tutti pronti, noi che amiamo il cinema, a scendere nelle piazze. Al grido: «Ci hanno ristretti gli schermi!» |
da IL TEMPO di martedì 15 novembre 2005 |